Studiando la storia, dall’Italia del Rinascimento all’Estremo oriente di oggi, si vede chiaramente che tutte le economie di successo hanno puntato su una combinazione di interventi statali, protezionismo e investimenti strategici che hanno promosso le innovazioni. Eppure, nonostante l’evidente superiorità di questo modello, la dottrina economica contemporanea ignora quei fatti e insiste a difendere a spada tratta il libero scambio sostenendo, con profonda ipocrisia, che la strategia che ha fatto sviluppare l’Occidente (e anche Cina e India) non funzionerebbe per i Paesi poveri. Un arguto economista norvegese spiega perché il protezionismo rende ricche le nazioni mentre il libero mercato le lascia in povertà.

Nel 1941, durante una fase critica della Seconda guerra mondiale, il Primo ministro britannico Winston Churchill incontrò il presidente americano Franklin D. Roosevelt a bordo di un incrociatore al largo del Canada per convincerlo a entrare in guerra contro il nazi-fascismo. Di fronte alle affermazioni di Churchill sull’intenzione di non perdere la propria posizione privilegiata tra i domini britannici, Roosevelt dichiarò francamente di non essere d’accordo. “Sono fermamente convinto –continuò il presidente- che, se vogliamo arrivare a una pace stabile, ciò deve comportare lo sviluppo dei Paesi arretrati. Dei popoli arretrati…i metodi del ventesimo secolo prevedono di portare l’industria in queste colonie; includono l’aumento della ricchezza di un popolo, il miglioramento del suo tenore di vita, educandolo, portandogli servizi igienico-sanitari, assicurandosi che ottenga in cambio un ritorno per la ricchezza della sua comunità”.

Come si vede, il presidente Roosevelt aveva idee molto precise sulla necessità di superare il colonialismo. D’altronde, la stessa storia degli Stati Uniti mostrava chiaramente come l’unica via per la prosperità e la democrazia era quella di creare un apparato produttivo indipendente, proteggendolo inizialmente con i dazi, per poi allargarsi a un commercio tra pari con il resto del mondo. Esattamente la stessa filosofia del Piano Marshall che, a giudicare dal numero di nazioni sottratte alla povertà, è stato probabilmente il progetto di sviluppo di maggior successo nella storia umana. Ma poi, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, con quello che venne chiamato Washington Consensus, l’approccio cambia radicalmente, con effetti devastanti sull’economia mondiale. Cosa era successo? L’economista non ortodosso Erik Reinert fornisce una brillante spiegazione nel suo Come pochi paesi sono diventati ricchi e perché gli altri rimangono poveri. La prima edizione è del 2007 e il testo appare ora in edizione italiana e rimane di una stupefacente attualità.

La trappola del libero mercato

Reinert è nato in Norvegia, ha studiato in Svizzera per poi specializzarsi a Harvard e alla Cornell University (Stato di New York). I suoi studi si sono concentrati principalmente sulle problematiche dello sviluppo diseguale e sulla storia del pensiero economico. Il suo libro, apparso in inglese e tradotto successivamente in 27 lingue, intende rifarsi a quella tradizione che ha consentito alle città olandesi, al regno di Enrico VII d’Inghilterra o alla Repubblica di Venezia di prosperare. Con rigorose argomentazioni storiche, Reinert analizza il pensiero di una schiera numerosa di studiosi che hanno esaminato le realtà economiche di successo senza voler imporre un modello teorico astratto, che si è spesso rivelato fallimentare. Uno dei personaggi presentati è l’italiano Antonio Serra, il primo economista a produrre una teoria dello sviluppo economico diseguale nel 1613, nel suo Breve trattato delle cause che possono fare abbondare li regni d’oro e argento dove non sono miniere con applicazione al regno di Napoli.

Serra cercò di spiegare perché Napoli fosse rimasta così povera nonostante le sue abbondanti risorse naturali, mentre Venezia, costruita in modo precario su una laguna, fosse al centro dell’economia mondiale. La risposta, sosteneva, era che i veneziani, che non avevano il diritto di coltivare la terra a differenza dei napoletani, erano stati costretti a fare affidamento sulla loro industria per guadagnarsi da vivere, sfruttando i crescenti rendimenti di scala offerti dalle attività manifatturiere. Nella visione di Serra, la chiave per lo sviluppo economico era avere un gran numero di diverse attività economiche, tutte soggette al calo dei costi di rendimenti crescenti. Secondo Reinert, il principio che ha portato al progresso economico nel continente europeo, oltre ovviamente ai fattori geografici, culturali, storici, demografici, era il concetto che gli illuministi avevano definito come “emulazione”.

Tutte le nazioni ricche hanno raggiunto il loro status grazie a un periodo di protezione del loro nascente settore manifatturiero, una cosa che ha trovato d’accordo tutti gli studiosi che, con un atteggiamento opposto al fanatismo dottrinale dei liberisti, si sono basati sullo studio della realtà, sull’esperienza e su una metodologia pragmatica. Coerentemente con un approccio che analizzava i risvolti umani e sociali di ogni scelta economica, gli studiosi di quello che Reinert definisce “Other Canon”, usavano metafore legate al mondo organico e animale. Un drastico cambiamento si ebbe nell’ultimo ventennio del XIX secolo quando gli economisti iniziarono a rifarsi invece parativo che difende il commercio senza tenere in nessun conto la natura dei beni commerciati. Secondo Reinert “un problema chiave è che l’economia basata sulla fisica non è in grado di catturare le differenze qualitative tra le attività economiche, che si traducono in differenze quantificabili di reddito. I modelli astratti basati sulla fisica perdono sia gli elementi creativi, apportati dal Rinascimento, sia le tassonomie che creano ordine nella diversità, un contributo essenziale dell’Illuminismo”.

Nello stesso periodo si afferma il dogma del “libero scambio”. Questa teoria postula che se si lascia mano libera alle forze economiche, senza nessun intervento da parte dello Stato, una “mano invisibile” farà procedere automaticamente la società verso il progresso economico e sociale e la ricchezza verrà distribuita equamente tra tutti. L’opulenta economia britannica, diventata l’officina del mondo, veniva portata ad esempio, dimenticando però che alla base della prosperità inglese c’era stata la politica protezionistica di Enrico VII che, dal 1485, era riuscito a creare una manifattura nazionale grazie a pesanti dazi che riuscirono a trasformare in un produttore di tessuti quello che era stato, fino a pochi decenni prima, un mero esportatore di lana grezza. Il libero scambio delle merci può essere fatto soltanto da quelle società che sono riuscite a creare una manifattura nazionale e che, solo a quel punto, possono commerciare con profitto e sullo stesso livello con le altre nazioni.

La povertà imposta al Terzo Mondo

Il fondamento dell’attuale ordine economico internazionale è la dottrina del vantaggio comparato di David Ricardo che è ormai

. Friederich List (1789-1846), qui in un ritratto fatto dalla figlia, criticò i tentativi classici di analizzare la ricchezza attraverso schemi teorici che prescindevano dall’osservazione della realtà.

diventata egemonica nelle facoltà economiche universitarie e determina la politica delle grandi istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca mondiale. Reinert ritiene invece che “l’economia ricardiana, eliminando dalla teoria una comprensione qualitativa del cambiamento e delle dinamiche economiche, ha creato una teoria economica che permette a una nazione di specializzarsi nell’essere povera. Nella teoria ricardiana l’economia non va da nessuna parte, non c’è progresso e di conseguenza nulla da emulare”. Se non si permette alle nazioni povere di emulare il processo che ha portato allo sviluppo delle nazioni ricche le si condanna a rimanere nella loro arretratezza. Se prendiamo l’Africa come esempio vediamo che in questo continente l’Unione Europea e gli Stati Uniti cercano, con scarso successo, di sviluppare una loro area di influenza facendo accordi commerciali che, a ben guardare, non sono molto diversi da quelli emersi dalla Conferenza di Berlino del 1884, quando le potenze coloniali europee si spartirono l’Africa. “Il risultato –afferma Reinert- è che ai Paesi africani viene impedito di praticare il tipo di commercio di cui hanno realmente bisogno: quello tra di loro, che in seguito potrebbe procedere verso il libero scambio globale in modo listiano” (Friederich List fu un importante economista tedesco-americano del XIX secolo, NdR).

L’autore sottolinea come il continente africano sia stato messo in una situazione di dipendenza periferica dal centro, come avveniva durante il colonialismo, grazie alla diffusione di beni industriali redditizi a cui si sommano anche i prodotti agricoli di un mercato sovvenzionato. “I piccoli mercati industriali africani -afferma Reinert- non sono integrati in un mercato più ampio che avrebbe potuto sostenere l’industrializzazione dell’Africa. Al contrario, l’Africa industriale è sempre più frammentata e, sebbene alcuni Paesi stiano meglio di altri, ogni mercato è relativamente aperto alla feroce concorrenza del Nord. Credere che queste condizioni possano essere migliorate permettendo ai paesi poveri di esportare i loro prodotti agricoli verso i paesi industrializzati è un’illusione. Nessun Paese, senza un settore industriale (oggi dobbiamo cambiare il termine in settore combinato di industria e servizi), è mai riuscito ad aumentare i salari dei suoi agricoltori”.

L’autore spiega che gli economisti tedeschi e americani di cento anni fa avrebbero capito che la causa della povertà in Africa è il modo di produzione – l’assenza di un settore industriale –, piuttosto che la mancanza di capitale in sé. “Come concordavano sia il conservatore Schumpeter che il radicale Marx: il capitale è sterile senza le opportunità di investimento che sono essenzialmente prodotti di nuove tecnologie e innovazioni. Gli economisti tedeschi e americani di cento anni fa avevano compreso anche il ruolo delle sinergie: solo la presenza dell’industria aveva reso possibile la modernizzazione dell’agricoltura”.

Implicazioni strategiche

Dopo il crollo del comunismo, all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, si diffuse la teoria della “fine della storia” che, in campo economico, segnò l’inizio del dominio incontrastato dell’ideologia liberista secondo la quale, ineluttabilmente, il mondo avrebbe marciato verso la ricchezza e la democrazia. Dopo trent’anni, la realtà che ci circonda dimostra che quelle erano soltanto tragiche illusioni, che però non hanno finora scalfito la cieca credenza nel potenziale magico del libero scambio. Reinert sostiene che l’ONU ha ormai abbandonato ogni velleità per la crescita economica del Terzo Mondo, lasciando campo libero a organizzazioni non statali che hanno assunto la configurazione del Washington Consensus, un insieme di 10 direttive di politica economica da destinare ai Paesi in via di sviluppo proposto dall’economista britannico John Williamson.

Il Washington Consensus prevedeva, tra l’altro, la liberalizzazione degli scambi, la liberalizzazione dei flussi di investimenti diretti esteri, la deregolamentazione e la privatizzazione. Le riforme auspicate dal Washington Consensus, nel corso della loro attuazione, divennero virtualmente sinonimo di neoliberismo e di “fondamentalismo di mercato”. Nel clima magmatico seguito al crollo del comunismo tutti gli Stati che hanno accettato questa strategia hanno pagato un prezzo terribile, in termini economici e sociali, che ha comportato a un impoverimento brutale della popolazione. L’autore fa diversi esempi di Paesi che si sono sottomessi a tutte le condizioni che avrebbero dovuto aprire le porte del paradiso mentre, in realtà, hanno causato sofferenze indicibili ai cittadini. Tra questi Paesi viene citata la Russia e, con il senno di poi e alla luce dell’invasione dell’Ucraina, non possiamo non renderci conto di quanto il “fondamentalismo di mercato” possa mettere in moto processi che minacciano la stabilità e la convivenza mondiale.

Erik S. Reinert
Come pochi paesi sono diventati ricchi
e perché gli altri rimangono poveri
432 pagine, 29 euro
Castelvecchi editore

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