Normalmente, al termine diva (del melodramma, del cinema, dello spettacolo), viene associata un’aura di ammirato stupore, di timorosa reverenza, simile a quella che spetta a una divinità vera e propria. Non è immediato riuscire a capire come il palcoscenico dell’opera lirica abbia invece rappresentato uno strumento di liberazione ed emancipazione per quelle donne di talento che, in una società patriarcale, sarebbero state relegate a un modesto ruolo domestico fino alla fine dei propri giorni. Un libro molto interessante e sottilmente politico ci fa capire come le cosiddette primedonne abbiano avuto un ruolo importante nel lungo processo, tuttora in corso, dell’emancipazione femminile.

Stefania Bonfadelli è stata un soprano lirico di coloratura che si è esibita nei principali teatri del mondo, sotto la bacchetta dei maggiori direttori d’orchestra. Dal 2016 ha iniziato anche una fruttuosa attività di regista di opere liriche a cui affianca la docenza all’Accademia Rodolfo Celletti di Martinafranca e alla Scuola per l’Opera di Verona. Questo libro dimostra che, oltre alle sue doti musicali, possiede una stimolante curiosità e una grande piacevolezza nell’esposizione. Non dobbiamo però equivocare sul termine “primadonna”. Alcune delle cantanti presentate si sono fatte conoscere per stranezze e bizzarrie ma, in realtà, esse sono state soprattutto delle “donne” che, grazie alle loro doti e al loro impegno, hanno condotto una durissima battaglia di emancipazione che, in alcuni casi, ha comportato prezzi altissimi.

Rompere il soffitto di cristallo

L’autrice sottolinea come nel contesto di una società prepotentemente maschilista il melodramma sia stato «uno strumento di coraggio, rivalsa, libertà, ribellione, ed emancipazione femminile. Le cantanti d’opera hanno osato alzare la voce, in periodi storici in cui le donne erano obbligate a tacere, e hanno aperto coraggiosamente il sipario delle loro esistenze, stracciando a suon di acuti quel velo polveroso di silenzio secolare al quale erano state abituate. E poi non c’è stato più modo di fermarle e di farle scendere da lì». Oggi per noi è normalissimo ammirare la bravura e la musicalità delle cantanti ma è necessario ricordare che nel XVII secolo alle donne era proibito comparire sulle scene, e questo non solo in Italia dove poteva esserci la presenza censoria della Chiesa, ma anche in Paesi come l’Inghilterra. Nella tragedia di Shakespeare il personaggio di Giulietta era interpretato da un ragazzo che aveva ricevuto un addestramento durissimo per imparare a recitare ruoli femminili in modo naturale.

Ironia della sorte, i primi miti del palcoscenico non furono donne ma uomini, i famosi castrati, giovinetti molto dotati che, prima della mutazione della voce, erano costretti a un’atroce mutilazione per conservare la purezza del timbro infantile. I castrati rimasero i dominatori incontrastati del palcoscenico fino a quando la crudele pratica della castrazione cadde in disuso e, soprattutto, arrivarono le primedonne. L’affermazione delle cantanti fu anche favorita dalla nascita dei teatri pubblici a cui si poteva accedere pagando un biglietto. Questo significava che gli eventi musicali smettevano di essere appannaggio soltanto dei nobili, che allestivano costosi spettacoli nelle loro residenze di lusso, ma si aprivano anche a chi era in grado di pagare l’accesso al teatro. Questo processo, una vera e propria rivoluzione sociale, venne iniziato dalla Repubblica di Venezia, molto più libera e aperta degli altri Stati italiani. Il primo teatro, il San Cassiano, aprì le porte nella città lagunare durante il Carnevale del 1637.

Nel Seicento Venezia è una città moderna, piena di gente ricca che ama divertirsi, bere, mangiare, travestirsi, andare a teatro, giocare nelle bische, abbandonarsi alle avventure. Ma, soprattutto, consente alle donne di andare in scena. Ed è proprio a Venezia che arriva la soprano romana Anna Renzi, in fuga dalla miseria e dall’oppressione della sua città. Anna è attratta soprattutto dalla libertà di cui avrebbe potuto godere come cantante. Bonfadelli scrive che le artiste «potevano viaggiare da sole, avere amanti senza essere malgiudicate, ma solo ritenute “bizzarre”, potevano essere libere, indipendenti, trasgressive e, perché no, ricche. Avere dei soldi propri per potersi gestire autonomamente non era cosa da poco». È stata scritturata per La finta pazza, musica di Francesco Sacrati su libretto di Giulio Strozzi. L’opera è un successo, Anna Renzi diventa famosa e i compositori iniziano a fare a gara per scrivere una parte per la “romana”, come era chiamata. Viene strapagata: 750 ducati a scrittura, una cifra enorme per il tempo. Era nata la prima diva. Anna non si limitò soltanto a godersi i proventi della sua arte ma li reinvestì negli allestimenti delle opere nelle quali si esibiva, trasformandosi in impresario, prima anche in questo.

Un altro esempio di successo professionale, molto poco noto, è rappresentato da Vittoria Tesi, soprannominata “la moretta”, nata a Firenze nel 1701 e morta a Vienna nel 1775. Figlia di un lacchè di origini africane, si trasformò in una delle dive più acclamate di tutti i tempi ed è considerata la prima importante cantante di colore nella storia della musica occidentale. Conosce e diventa amica del famoso castrato Farinelli con cui condivide molte volte il palcoscenico. Canta alla corte di Filippo V di Spagna, poi si esibisce a Napoli in una serenata dedicata alla nascita del figlio di Carlo di Borbone. Poi, dopo una grave delusione d’amore, vende tutti i suoi beni e si trasferisce a Vienna, dove diventa amica di Metastasio e cantante popolarissima. Viene ospitata, fino alla morte, nel palazzo del principe J.F. Von Hildburghausen, una maresciallo a riposo che era un protetto dell’imperatrice Maria Teresa che, dopo averla conosciuta, la inviterà sempre ai suoi ricevimenti. Secondo l’autrice, «Vittoria Tesi è la prova tangibile che l’opera è un mondo senza preconcetti, dove conta solo il colore della voce e non quello della pelle».

La determinazione che sconfigge il fato

La storia di Benedetta Rosmunda Pisaroni è veramente stupefacente. Nata in provincia di Piacenza nel 1793, figlia di un piccolo proprietario

Rosmunda Pisaroni in un stampa ottocentesca di Giovanni Antonio Sasso.

terriero, studia canto e inizia una carriera da soprano ma, ogni volta che deve entrare in scena, è attanagliata dal terrore. Non è un capriccio da diva. Rosmunda fa fatica a esibirsi nella vocalità acuta che le hanno assegnato, mentre si sente a proprio agio quando canta in un registro più basso. Il dubbio è sciolto da un giovane Gioachino Rossini che, grazie al suo fiuto infallibile per le vocalità, capisce che quella è una voce da contralto. Rosmunda si ferma per un anno perché deve riorganizzare il proprio organo vocale. Ma in questo periodo è colpita dal vaiolo che le lascia un volto deturpato dalle cicatrici. Ha poco più di vent’anni e non si perde d’animo. Studia con passione le cabalette di Rossini e, nel 1815, si ripresenta al teatro Ducale di Parma nella parte di Tancredi, un ruolo en travesti. Rosmunda è piccoletta e grassoccia e, per sovrappiù, ha il volto devastato dal vaiolo. Dopo la sua entrata in scena, il pubblico rumoreggia e parlotta, non certo una bella sensazione per chi deve cantare arie così difficili. Per fortuna, la malattia e il lungo percorso che ha dovuto affrontare per acquistare la sua vera voce l’hanno resa forte e autoironica, tanto che affronta la parte con piglio sicuro. La sua voce va fluida nelle agilità e nel ritmo sostenuto delle frasi musicali. Il pubblico si zittisce, la ascolta e alla fine prorompe in applausi entusiasti. Una rinascita che le fa scoprire la gioia di cantare e di vivere.

«La Pisaroni -scrive Bonfadelli-, preferisce i ruoli en travesti, da uomo. Spiritosa com’è, manda sempre un suo ritratto agli impresari che vogliono scritturarla, come per dire, io sono così, “prendere o lasciare”. Nell’opera è la voce che conta. Nient’altro. Il suo carattere autoironico le permetterà di affrontare anche uno dei ruoli più sexy e femminili del repertorio operistico, ossia Isabella nell’Italiana in Algeri, naturalmente di Rossini. Ruolo per cui viene scritturata, per la stagione 1826-27, a Parigi, dove aveva già cantato in precedenza, nel ruolo di Arsace, un uomo, nella Semiramide dello stesso compositore». Harriet Granville, moglie dell’ambasciatore inglese a Parigi, la vede nell’Italiana in Algeri e, mostrando una profonda insensibilità umana, scrive nei suoi diari: «Ripugnante, storpia, deforme, nana, la Pisaroni. Ha una testa enorme e un viso davvero brutto. Quando ride o canta, la sua bocca si torce verso un orecchio, e ha l’aria d’una persona stravolta dal dolore». Ma il successo è enorme e nelle recite successive i biglietti vengono venduti al triplo del prezzo.

In uno dei primi dagherrotipi che la ritraggono si vede una vecchina paffuta, dal mento prominente, piccola, ben agghindata, con una cuffia a fiori in testa. «A vederla in quella foto -scrive l’autrice– sembra l’elogio della normalità. Pare impossibile che sia stata una primadonna di tale solidità, così volitiva e mai arresasi di fronte a nulla, nemmeno davanti al vaiolo, ai suoi complessi fisici, a una voce da cambiare, ai mormorii del pubblico. Ha trovato la forza di credere nel suo talento. Ha riempito teatri, mandato in visibilio pubblico, intellettuali e grandi compositori. Sembra impossibile a vederla in quella foto, eppure è proprio così». Ci sono inoltre capitoli dedicati a Giuseppina Strepponi, la seconda moglie di Verdi, a Maria Zamboni, l’operaia di una filanda che arrivò a cantare alla Scala sotto la direzione di Toscanini, Lina Cavalieri, la cui bellezza divenne leggendaria, Emma Carelli, prima cantante poi direttrice del teatro dell’opera di Roma che, durante il Ventennio, seppe tener testa a Mussolini, Toti Dal Monte, la diva globetrotter.

Stefania Bonfadelli
L’opera delle primedonne
V
ite straordinarie di dive del belcanto
Lindau, 144 pagine, 16 euro

 

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