Un interessante saggio di geopolitica di Maurizio Simoncelli ci aiuta a capire le motivazioni profonde che sono alla base di una serie di stravolgimenti che hanno aumentato a dismisura le distanze tra il Nord e il Sud del mondo. Il saccheggio generalizzato delle risorse naturali non è soltanto eticamente ingiusto, poiché favorisce una infima minoranza, ma rischia di condurci verso nuove tensioni militari e la catastrofe ecologica.

Il 17 gennaio 1961, il presidente degli Stati Uniti Dwight D. Einsehower, tenne il proprio discorso di commiato nel lasciare la Casa Bianca nel quale ammonì sui pericoli rappresentati da quello che definì ”complesso militare-industriale”, tanto potente da riuscire a condizionare le scelte di politica estera e di difesa. Purtroppo, quell’ammonimento non fu raccolto adeguatamente e, oggi come mai prima, la politica estera degli Stati Uniti sembra essere dettata più dalla lobby militare-industriale che dai princìpi dei Padri fondatori. E lo stesso discorso può essere fatto per diversi settori mondiali, come l’agricoltura, l’industria mineraria e quella energetica, che puntano semplicemente alla massimizzazione del profitto, senza prendere in considerazione i costi umani ed ecologici che certe scelte comportano.

La guerra per la guerra

Il capitolo dedicato agli enormi investimenti per gli armamenti ci fornisce molti dati sui quali è bene ragionare, per trovare chiavi di lettura che ci aiutino a decifrare la complessa situazione globale. Forse non molti sono coscienti del fatto che, nonostante la fine della Guerra fredda, gli investimenti per la difesa abbiano raggiunto cifre colossali. Secondo le stime del prestigioso SIPRI “dai 1.493 miliardi di dollari del 1988 si è passati –dopo la caduta del muro di Berlino e l’implosione dell’URSS- ai 1.014 del 1996 (nell’epoca dei cosiddetti dividendi della pace, in realtà di brevissima durata) per poi riprendere a crescere costantemente dal 1999 ben prima dell’attacco alle Twin Towers del 2001 e dell’avvio della guerra permanete al terrore, sino ad arrivare ai 1.780 del 2016”.

La discussione sulle spese militari, in un contesto mondiale altamente volatile, è molto

La portaerei Shandong, di costruzione interamente cinese, nel porto di Dalian nel 2019. La marina cinese ha soltanto due portaerei, rispetto alle 20 degli USA, ma ha un vasto programma di riarmo.

complessa ed è bene rifuggire da qualunque tipo di retorica. Ma ci sono dei dati oggettivi, riportati nel saggio, che aiutano a illuminare meglio i temi sul tappeto. Gli Stati Uniti, ma non è certo una sorpresa, hanno il più vasto bilancio militare al mondo, seguiti da Cina (a oggi la terza potenza militare), India, Arabia Saudita, Francia e Russia. La NATO spende il 52% del totale mondiale, mentre il bilancio della Russia è un decimo di quello americano. La Cina, diventata la seconda economia al mondo, ha da tempo lanciato una aggressiva strategia commerciale per estendere globalmente la propria area di influenza, ma ha associato a questa una massiccia campagna di riarmo. Nel giro di pochi anni, la Cina è infatti passata da un bilancio militare di 41 miliardi di dollari nel 2000, agli 88 nel 2006, ai 138 nel 2010 sino ai 239 miliardi nel 2018, arrivando a spendere quasi sei volte di più in un ventennio.

Secondo il saggio, le armi vengono vendute da un oligopolio composto da dieci Paesi, che coprono il 90% del mercato e fanno affari privilegiati con il Medio Oriente che, nel volgere di pochi anni, ha quasi raddoppiato le proprie importazioni belliche, passando dal 20% al 35% del totale mondiale. In quest’area, sono presenti diversi conflitti irrisolti, in Siria, Iraq, Yemen che fagocitano e inglobano un enorme arsenale, sempre rinnovato a causa degli scontri che non portano mai ad un accordo di pace. È una tragica ironia che il fallimentare tentativo di democratizzazione denominato “primavere arabe” abbia portato a un drastico aumento delle spese militari da parte di quei governi (e sono la maggioranza schiacciante) che si sentivano minacciati dalle richieste popolari.

Il saccheggio delle risorse minerarie africane

Il tragico assassinio dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista congolese, ha puntato i riflettori dell’attenzione mondiale sulla Repubblica Democratica del Congo (RDC), un Paese enorme che, a causa della guerra e di una instabilità ormai permanente, si trova al 176° posto (su 186) nell’indice di sviluppo umano e ha il 59% della popolazione che vive sotto la soglia della povertà assoluta. Eppure, sulla carta la RDC è ricchissima, visto che le sue risorse minerarie sono state stimate in 24.000 miliardi di dollari, sufficienti a dare uno stipendio garantito a tutti i 99 milioni di abitanti, come avviene negli emirati del Golfo persico. Si trova qui la più grande riserva mondiale di coltan (una miscela minerale fondamentale per l’industria elettronica e dei semiconduttori), insieme a riserve importanti di diamanti, rame, cobalto, tungsteno e stagno.

Nelle miniere della Repubblica Democratica del Congo, i cui profitti vanno quasi interamente all’estero, sono al lavoro molti bambini che, a volte, hanno soltanto undici anni. In Africa, ci sono circa un milione di bambini che lavorano in miniera, in cambio di due dollari al giorno o anche solo di cibo per sopravvivere.

La RDC copre quasi la metà del cobalto estratto a livello mondiale. Il cobalto, impiegato in numerosissimi settori e applicazioni, “viene venduto a tre aziende che producono batterie per smartphone e automobili in Cina e in Corea del Sud. Queste ultime riforniscono a loro volta le imprese che vendono prodotti elettronici e automobili in Europa e in America”. La situazione è ormai tale che “il 98% dell’oro sia esportato illegalmente, che il 50% delle miniere e l’84% dei minatori artigianali sia controllato dai gruppi armati”. L’enorme flusso di denaro derivante dalla vendita di minerali e petrolio, che coprono il 94% delle esportazioni, finisce nei conti bancari delle imprese multinazionali e in quelli di una classe politica corrotta che presiede senza muovere ciglio alla spoliazione delle ricchezze nazionali.

Altri capitoli sono dedicati alla questione dei confini, alle politiche per il controllo dell’aria, al tentativo in atto di privatizzare le risorse idriche mondiali, alla militarizzazione degli snodi strategici di mari e oceani, ai minerali preziosi e al problema della fame nel mondo. Nel caso venisse approntata una seconda edizione, vanno corretti i grafici di pagina 82 e 83, in cui sono state invertite le didascalie delle riserve di petrolio e gas mondiali.

Maurizio Simoncelli
Terra di conquista
Città Nuova, pp. 160, 16 euro

di Galliano Maria Speri

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