Il referendum costituzionale, come gesto politico collettivo con valore fondativo, abbraccia tutto lo spettro delle prospettive politiche e in generale si può dire che tocca il modo in cui debba configurarsi l’Italia in questo mondo in cui si ridefiniscono schieramenti internazionali e prospettive strategiche, scenari economici globali e la stessa configurazione degli Stati Nazione.

Non è un voto su Matteo Renzi, ma inevitabilmente qualsiasi votazione che riguarda l’operato del governo – e il referendum costituzionale è stato fortemente voluto da Renzi – riguarda anche se il Paese desideri o no continuare sulla strada intrapresa dal suo governo. V’è un aspetto che sembra meno appariscente – nell’affanno del dibattito politico sulle vicende correnti spesso il più ampio scenario storico e strategico è perso di vista – ma che potrebbe essere più sostanziale.

Questo referendum, che non è contro la Costituzione come questa è stata formulata nella Costituente del 1946-48, costituisce un’occasione per ritrovare (o per allontanare) i motivi di unità nazionale nel contesto del mondo globalizzato.

L’Italia ha nel suo DNA culturale e politico una vocazione al globalismo: un tipo specifico di globalismo, che è quello insito in particolare nella cultura evangelica, per strano che possa apparire. L’eguaglianza tra le genti e tra i singoli a prescindere da status sociale, colore della pelle, cultura di appartenenza è uno dei pilastri del messaggio cristiano ed è stato fatto proprio dalle sinistre in tutto il mondo, in particolare in risposta alle politiche di tipo imperialistico e coloniale, oltre che alle varie sopraffazioni che nella logica liberomercatista sono all’ordine del giorno e si sono ampiamente confuse con la forma stessa del capitalismo.

In quanto fondatore della Comunità Europea, in quanto in buona parte (mai v’è unità assoluta di intenti, ma si possono ravvisare tendenze di fondo condivise che costituiscono tratti essenziali della storia delle nazioni) sostenitrice della tendenza tratteggiata dal Manifesto di Ventotene (la cui eredità fondante per L’Europa unita è stata recuperata nel gesto simbolico compiuto da Renzi, Merkel e Hollande nell’incontrarsi su quell’isola che fu terra di confino durante il Ventennio), in quanto fervida sostenitrice dell’Organizzazione delle Nazioni Unite quale custode del germe di quella legalità internazionale configuratasi tra la fine dell’800 e la prima metà del 900, l’Italia è culturalmente indirizzata verso una politica globale che persegue un rapporto cooperativo e solidale tra le nazioni del mondo, su un piano di eguaglianza.

Non a caso è nella francescana Assisi, e su iniziativa del cattolico Aldo Capitini, che dal 24 settembre 1961 si svolgono le marce per la pace alle quali Giovanni Paolo II ha convocate le religioni del mondo. Non a caso fu l’ex sindaco di Firenze, il cattolico Giorgio La Pira, a promuovere nel 1955 in un incontro nel capoluogo toscano un collegamento tra le grandi città del mondo per promuovere l’intesa tra i popoli e la pace.

E tutto questo avveniva in piena guerra fredda, quando i democratici erano spinti a sostenere a spada tratta gli Stati Uniti avverso la dittatoriale e ideologizzata Unione Sovietica. Ovvero, nel periodo di maggiore e più vasta divisione del mondo in sfere di influenza, dall’Italia si sono levate voci che hanno cercato di smuovere gli animi perché si ribellassero alla logica prevalente e, laddove si viveva di minacce reciproche, si ristabilisse la collaborazione – a prescindere dagli schieramenti politici e nel nome degli interessi più alti e più generali dell’essere umano.

Non è un caso che tale impulso derivi all’Italia non tanto dall’essere sede dell’apparato amministrativo vaticano che, come del resto fanno tutti gli apparati burocratici che perdurano nel tempo, non ha sdegnato di lasciarsi influenzare da torbide tendenze legate a interessi molto terra-terra, ma dall’essere un Paese dalla cultura umanistica fortemente radicata e diffusa. Diffusa a prescindere dall’appartenenza a uno dei due grandi schieramenti che l’hanno sempre divisa, a partire dai guelfi e ghibellini – la cui presenza è tanto diffusa e capillare che a ben guardare se ne possono trovare tracce in qualsiasi partito si avventuri sulla scena politica, in qualsiasi epoca.

Questo tema, ovvero quello del’identità storica dello Stato Nazione, e per conseguenza del ruolo cui esso è vocato sulla scena mondiale, è qualcosa che sfugge quasi sempre al dibattito politico, che vive i suoi momenti come attimi tra loro separati. (Nel volume di recente pubblicazione “Lo Stato Nazione, evoluzione e globalizzazioni” https://www.frontiere.eu/lostatonazione/ abbiamo cercato di discutere questo più vasto quadro di riferimento al quale forse meglio potrebbe orientarsi la politica, se fosse capace di vivere in un contesto storico e non nell’attimo fuggente del potere evanescente).

Ora col referendum si presenta un’occasione per ripensare a questi aspetti più fondamentali del vivere politico.

Quando Renzi, con una specie di colpo di Stato interno al suo partito assurse alla Presidenza del governo, ci parve che il suo fosse un fare esecrabile e ben lontano dalle regole del buon vivere politico e civile (v. https://www.frontiere.eu/da-craxi-a-renzi-la-via-del-crac/ ). Ma ora, a distanza di tempo sembra che il suo governo vada sostenuto proprio perché, al di là del suo stile vagamente dittatoriale, sembra avere intrapreso la politica dell’unità nazionale e del rilancio della missione internazionale dell’Italia come votata a cercare di cucire i rapporti tra i popoli, secondo quell’etica cristiana che in fondo è stata fatta in buona parte propria anche dal mondo della sinistra che fu comunista.

Bisogna ricordare che, dato il sostrato anarcoide tipico del nostro Paese, diviso da sempre in mille villaggi, in centomila furberie e in milioni di egoismi, i momenti di unità si realizzano o in caso di estremo pericolo, o quando vi sono leader capaci di trascinare con irruenza, così compiendo quel che potrebbe interpretarsi come il destino manifesto del Paese. Tale fu Garibaldi, personalità dittatoriale ma di grande successo senza la quale (con licenza della Lega Nord) l’unità nazionale non si sarebbe compiuta. Tale fu Enrico Mattei, democristiano che non solo fondò l’indipendenza energetica del Paese dagli anni Cinquanta (essendo non solo il grande propugnatore dell’uso degli idrocarburi, ma anche l’artefice delle prime centrali elettronucleari comparse in Europa), ma anche ispirò buona parte della politica estera italiana nel Mediterraneo.

Sia di Garibaldi, sia di Mattei si può dire che adottassero con enorme capacità quella che viene gabellata per massima machiavellica, che il fine giustifica i mezzi – laddove invece negli scritti del secondo segretario della Repubblica fiorentina il messaggio, ben più nobile, è che i fini sono più importanti dei mezzi, e che il fine primo è il benessere del Paese, non quello dei governanti.

Garibaldi e Mattei non a caso sono figure cui guardano con favore, sia la sinistra, sia la destra. Non perché siano “di centro”, ma perché a loro modo hanno compiuto con efficacia, e a volte pure passando sopra le regole con enorme nonchalance, gli interessi del Paese nel suo complesso.

Se il suo modo possa collocarlo davvero nella stesa categorie di personaggi storici di tale rilevanza, è certo presto per dirlo, ma fatto sta che Renzi, partito male come pugnalatore di Enrico Letta, avendo proseguito male a colpi di mano parlamentari, è pur tuttavia stato capace di tratteggiare una strategia che recupera la vocazione fondamentale dell’Italia.

Questa non è un Paese dotato della forza economica della Germania e mai lo sarà. Non è dotata dell’unitarietà e della forte identità della Francia e mai lo sarà. Non ha lo sguardo ampio e orgoglioso della Gran Bretagna. Ma ha una gentilezza, almeno potenziale, che la porta a essere potenzialmente un tessuto connettivo là dove vi sono divisioni.

De Gaulle dell’Italia diceva che era un poco il condimento della tavola imbandita in Europa, dove la Germania era il piatto forte, la carne, e la Francia il primo piatto, la pastasciutta. Fatto sta che né carne né pasta hanno sapore se manca una buona salsa.

Il referendum non sistemerà le cose definitivamente, non ridurrà significativamente i costi della politica, e forse neppure renderà notevolmente più fluido il processo legislativo. Ma è un piccolo passo che si muove in questa direzione, affermando la possibilità di acquisire maggiore dinamismo a fronte di quella lentezza burocratica che è diventata una sempre più pesante palla al piede nel nostro vivere politico.

Se Renzi è riuscito a muoversi come si è mosso sinora è anche perché egli probabilmente (chi scrive può intuire ma non provare quanto dice) costituisce anche un elemento di congiunzione tra due dei “poteri forti” che, da quando è nato come Stato unitario, condizionano il nostro Paese: la Chiesa e la Massoneria.

Di quest’ultima poco si parla e poco si sa, al di là delle analisi più o meno folkloriche che a volte emergono e degli scandali che a volte scoppiano. Della prima sembra di sapere tutto e non v’è giorno che le cronache non ne parlino, ma la sua interazione con l’economia e la politica è forse meno palese di quanto si possa ritenere a prima vista. Sia l’una che l’altra istituzione d’altro canto sono internamente articolate in mille rivoli.

Renzi sembra essere arrivato a costituire un punto di incontro tra questi due mondi, e tra i guelfi e i ghibellini del nostro tempo. Ovvero tra gli elementi portanti della nostra cultura nazionale, da sempre divisa.

La sua riforma, se sul piano tecnico non cambierà nulla di drastico, comunque accenna a una ripresa della centralità dello Stato, dopo che quarant’anni di regionalizzazione e localizzazione hanno prodotto, più che maggiore vicinanza tra elettori ed eletti, una burocrazia enormemente più mastodontica di quella che esisteva sino al 1971, anno in cui fu attuata (seppur tardivamente) la prescrizione costituzionale di implementare poteri regionali e locali.

Lungi dal favorire una maggiore integrazione, il regionalismo ha semmai promosso la disparità tra le diverse parti del Paese. E col collasso della cosiddetta “prima Repubblica” ha generato fenomeni degenerativi quali le diverse leghe localistiche.

La vocazione italiana è indirizzata verso la promozione di rapporti armonici con altri Paesi, con tutti gli altri Paesi. Enrico Mattei non era antiamericano né antifrancese quando agiva contro il colonialismo francese in Algeria, o contro quello americano in Persia: era semplicemente proclive al rispetto della dignità dei popoli, come vuole la tradizione cristiana portata avanti dalla Chiesa che è da sempre cattolica, ovvero universale, cioè globale.

In campo politico prevale la tendenza a preporre il “particulare” all’interesse comune: il che è proprio la degenerazione della politica e la sua inversione. Perché politica dovrebbe essere il terreno dell’interesse comune. Il problema è come individuare e difendere tale interesse comune, nelle singole azioni di ogni giorno, quando la miopia del momento sempre distoglie l’attenzione dal quadro più vasto.

Oggi il mondo è preda di convulsioni diversificate che si sono scatenate a livello regionale sin da quando è caduta la logica della Guerra Fredda. Si parla tanto ora di una rinascita di questa, forse anche con nostalgia verso quell’epoca in cui, per perverso che fosse, tuttavia esisteva un ordine internazionale imperniato sulla dinamica della tensione tra superpotenze.

Oggi la tensione è diffusa ovunque e tra soggetti globali che sono più numerosi di quanto non fossero nella guerra fredda.

Si tratta di una situazione che necessita di un nuovo e più efficace coordinamento e di un nuovo e più efficace dialogo tra le diverse parti in questione.

Perché l’Italia possa giocare un ruolo di attiva promotrice di pace e intese, ha bisogno di una maggiore unità al proprio interno, e anche di maggiore efficienza e, in fondo, anche di un pizzico di aggressività in più, per proporre idee di civiltà in un mondo dove l’imbarbarimento dello scontro sembra voler prendere nuovo vigore.

Se vincerà il no al referendum, questo fatto per l’Italia, e per l’Europa avrà più o meno lo stesso valore del Brexit: un momento di ulteriore atomizzazione e indebolimento e disarticolazione della progressione verso più larghe intese tra Paesi sovrani. Quando serve invece esattamente il contrario: maggiore unitarietà, maggiore chiarezza degli obiettivi da perseguire, maggiore presenza sulla scena internazionale come attore capace di portare una parola di pace e di concordia.

(LS)

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