Nonostante l’assenza di Xi Jinping e di Vladimir Putin, la riunione del G20 a Nuova Delhi può essere considerata un successo perché l’India ha imposto la sua posizione moderata che mira a superare la contrapposizione USA-Cina e dar voce al Sud del mondo. Rimanendo con coerenza all’interno della sua “Terza via”, Delhi ha aumentato le sue possibilità di conquistare la guida del Sud Globale. Mentre Pechino cerca di trasformare il gruppo dei Brics in un’alternativa all’ordine economico esistente, Delhi, che ha buoni legami economici e culturali con l’Occidente, può diventare invece lo snodo di una cooperazione internazionale che superi le contrapposizioni attuali. Cruciale è stato l’annuncio dell’adesione al G20 dell’Unione Africana e di un corridoio India-Medio Oriente-Europa. Un’analisi in due parti.

Il 9 e 10 settembre 2023 il G20, che riunisce i 19 più ricchi Stati del mondo più l’Unione Europea, ha tenuto il suo incontro annuale nella capitale indiana producendo, malgrado i timori della vigilia, un comunicato finale firmato da tutti i partecipanti. Qualche analista ha sottolineato il fatto che la “montagna ha partorito un topolino”, mentre altri hanno criticato l’assenza di una condanna esplicita dell’invasione russa dell’Ucraina, come era avvenuto al G20 dello scorso anno a Bali. Ma, come nei quadri rinascimentali, dove l’autore si raffigurava in posizione modesta e marginale, il senso profondo del G20 non va cercato nel generico comunicato finale ma nelle prospettive che diversi incontri a latere hanno aperto. Innanzitutto, grazie alle pressioni diplomatiche del Primo ministro indiano Narendra Modi l’Unione Africana è diventato un membro permanente ed è stato annunciato il progetto per un corridoio India-Medio Oriente-Europa che si affiancherà autorevolmente alla Via della seta cinese.

La strategia globale dell’India

Il Premier indiano Narendra Modi (nella foto mentre incontra il Primo ministro della Malesia nel 2018) è riuscito a imporre il suo calendario che fa ora del G20 un punto di incontro e discussione tra Nord e Sud del mondo.

Secondo molti commentatori il fatto che Xi Jinping, per la prima volta in dieci anni, non sia intervenuto personalmente ha rappresentato un affronto verso il padrone di casa, limitando il successo dell’incontro (l’assenza di Putin è stata completamente ininfluente). Nei fatti, però, senza il leader cinese, Modi è stato tutto il tempo sotto i riflettori, acquisendo uno status pari a quello del presidente statunitense Biden e vedendosi riconosciuto un importante ruolo internazionale. Questa sarà una carta fondamentale che verrà calata in vista delle elezioni indiane del prossimo anno. L’autorevole quotidiano britannico Guardian considera Modi un leader autoritario e lo pone allo stesso livello di Marine Le Pen o Victor Orban, ed evidenzia il carattere settario ed etnico del partito nazionalista indù di cui è a capo.

Questo aspetto è senz’altro vero. Il Mahatma Gandhi sognava un’India indipendente dal colonialismo britannico in cui convivessero pacificamente la maggioranza indù e la minoranza musulmana ma, come è ben noto, al momento dell’indipendenza scoppiò la guerra civile che portò alla nascita di due Stati, l’India, che ha il 14 per cento di musulmani (sono circa 200 milioni di persone) e il Pakistan, che è invece islamico al 96,4 per cento. È anche vero che quando era Primo ministro dello stato del Gujarat, nell’estremo ovest dell’India, ci furono scontri che costarono la vita a migliaia di musulmani (Modi ha sempre negato ogni responsabilità). Ma è un dato di fatto che nell’ultimo decennio l’India, da poco diventata il più popoloso stato del mondo, ha fatto progressi inimmaginabili dal punto di vista economico riuscendo a condurre con successo una missione spaziale sulla Luna, cosa che non era riuscita invece a Mosca. Nel contesto attuale di un confronto tra Stati Uniti e Cina, l’India è riuscita a ritagliarsi un ruolo cruciale come cerniera tra il mondo avanzato e quello in via di sviluppo.

Delhi ha un serio contenzioso territoriale con Pechino, è un concorrente dell’enorme settore produttivo cinese ma, soprattutto, aspira esplicitamente a guidare quello che è stato definito Gobal South, al pari del Dragone. L’economia cinese è molto più articolata e sviluppata di quella indiana, mentre il suo esercito è più efficiente e preparato (e non dimentichiamo che la marina militare cinese è la più grande del mondo, anche se non è la più moderna). Probabilmente, l’India avrà bisogno di un’intera generazione per raggiungere la Cina, con la quale ha intensi scambi economici che non rendono realistico uno scontro diretto con Pechino. Ci sono però diversi fattori che stanno giocando a favore dell’India per quanto riguarda la guida del Gobal South: il forte rallentamento della crescita cinese che ha intaccato il mito dello sviluppo senza limiti, la gravissima crisi del mercato immobiliare interno che ha costretto colossi come Evergrande a portare i libri in tribunale, il ridimensionamento della Via della seta con l’esplosione della “trappola del debito”, una notevole diminuzione della natalità e anche la problematica alleanza con l’espansionismo di Putin che rende molto difficile per Xi Jinping presentarsi come campione della lotta contro l’imperialismo occidentale.

Chi guiderà il Global South?

Modi, che nutre esplicitamente l’ambizione di essere riconfermato alle elezioni del 2024, ha usato la presidenza annuale del G20 per trasformare un’istituzione disomogenea ed enormemente differenziata al suo interno (basti ricordare che vi convivono Stati Uniti e Russia), in un punto di incontro tra Paesi avanzati e in via di sviluppo di cui l’India si fa garante. L’adesione dell’Unione Africana (UA) è un successo personale del Primo ministro che ha anche resistito alle enormi pressioni per invitare l’Ucraina. La presenza di Zelensky al vertice avrebbe spostato il focus della discussione sullo scontro militare, distogliendolo dalle gravissime questioni economiche che affliggono i Paesi più poveri. L’India ha invece puntato tutto sull’apertura al Sud del mondo e ha ottenuto l’impegno americano a modificare la filosofia operativa di strutture come il Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale che devono diventare i finanziatori di grandi progetti di sviluppo rivolti al Sud del mondo.

Con l’entrata dell’UA come membro permanente, il G20 (che dovrebbe diventare G21) ha aperto alle istanze del continente con il più alto numero di giovani e che, secondo molti economisti, è destinato a una tumultuosa crescita nei prossimi decenni. Finora, il continente è stato rappresentato dal solo Sud Africa ma da adesso in poi, ci sarà un forum in cui far valere le proprie richieste e aspirazioni (il G20 si occupa di questioni economiche e finanziarie) e questo potrà influenzare anche la crescita economica e il fenomeno dell’emigrazione che tante tensioni sta creando a un’Unione Europea incapace di prendere qualunque decisione in merito. Un G20 in cui l’India, stretta alleata di Brasile e Sud Africa, potrà svolgere un ruolo cruciale di raccordo tra i Paesi del G7 e quelli in via di sviluppo, non potrà più essere caratterizzato come una struttura “delle nazioni ricche” che chiudono la porta a quelle povere. Nell’attuale battaglia tra democrazie e autocrazie è molto importante che l’Unione Africana abbia acquisito nel G20 pari dignità con l’Unione Europea e si spera che presto possa accedere come membro permanente anche nel G7 (sarà l’Italia a presiedere il G7 del prossimo anno e questo sarebbe un punto cruciale da sollevare).

L’entrata dell’Unione Africa nel G20 rappresenta una svolta cruciale perché contribuisce a riportare la discussione verso i temi dello sviluppo, allontanandosi dagli approcci ideologici.

L’assenza al vertice di Xi Jinping potrebbe essere stata dettata da ragioni interne, ma può anche essere letta come la volontà di abbandonare l’istituzione per puntare la propria strategia globale sulla formula Brics+ (nel vertice di Johannesburg del 24 agosto 2023 sono entrati altri sei stati che si aggiungono ai fondatori Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). In questo caso, però, Pechino deve sempre fare i conti con un’India che non ha nessuna intenzione di permettere alla Cina di egemonizzare il gruppo in funzione anti occidentale. Senza contare che anche Brasile e Sud Africa (che ospiteranno le riunioni annuali del G20 nel 2024 e 2025) non hanno nessun interesse a schiacciarsi sulle posizioni cinesi ma avrebbero grandi vantaggi a posizionarsi al centro dell’attenzione mondiale per potenziare la proprio crescita economica e quella dell’intero Sud del mondo. In questo contesto, le richieste cinesi e russe di un “nuovo ordine mondiale” (guidato da Pechino) contro il “neocolonialismo occidentale” non possono non apparire strumentali.

Gli USA si stanno svegliando?

Oltre all’entrata dell’Unione Africana e all’inserimento nel documento finale della parola “guerra” riferita all’attacco russo all’Ucraina, ci sono state due importanti iniziative al vertice di Nuova Delhi. La prima è una dichiarazione congiunta, fatta a latere del summit, tra Stati Uniti, India, Brasile e Sud Africa che punta ad incrementare gli aiuti verso i Paesi più poveri da parte delle grandi istituzioni multilaterali. La Casa Bianca ha annunciato che i prestiti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale saranno aumentati di 200 miliardi di dollari per finanziare progetti di sviluppo. La cifra in sé non è mastodontica, ma segnala il fatto che, finalmente, l’amministrazione statunitense ha preso atto che bisogna rimettere in moto il processo di crescita e che non si può lasciare alla sola Cina l’incombenza di finanziare i grandi progetti infrastrutturali nei Paesi del Global South. Senza investimenti seri nelle infrastrutture di base dei Paesi più poveri e in quelli a reddito medio i tanti discorsi sullo sviluppo e il consolidamento della democrazia sono solo chiacchiere.

Il secondo aspetto, per ora solo teorico ma con un enorme potenziale di sviluppo, è la firma di un Memorandum di intesa per creare un corridoio economico India-Medio Oriente-Europa firmato da Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Francia, Germania, India, Italia e Unione Europea. Il presidente Biden ha parlato di una svolta “game changing” e della necessità di superare le carenze infrastrutturali dei Paesi a basso e medio reddito. “In pratica– ha continuato Biden- significa che ci concentreremo su progetti infrastrutturali regionali che daranno risultati in diversi Paesi e in diversi settori”. Il presidente USA ha poi dichiarato che: “Nell’Africa sub-sahariana stiamo lavorando con soci pubblici e privati per investire in un Corridoio Trans Africano. Questo include un nuovo partner, l’Unione Europea. Presidente von der Leyen, grazie per aver reso possibile tutto questo. Insieme, come parte di questo corridoio, investiremo in una nuova linea ferroviaria che collegherà i porti occidentali dell’Angola con la Repubblica Democratica del Congo, lo Zambia e, infine, l’Oceano indiano…continueremo a sviluppare corridoi economici attraverso l’Africa, l’Asia e le Americhe. Insieme ai nostri partners ci attiveremo per mobilitare i trilioni di investimenti necessari per superare le carenze infrastrutturali in tutto il mondo, inclusa la creazione di un forum che terremo a battesimo negli Stati Uniti tra un paio di settimane”.

Come recita un antico adagio sulla differenza tra il dire e il fare, siamo ancora a una fase iniziale ma è chiaro che il tono è molto diverso dai discorsi tipo “America First” e che se il progetto non è un nuovo Piano Marshall, indica pur sempre una percezione diversa della situazione internazionale. Da questa iniziativa potrebbe dipanarsi un progetto multilaterale che farebbe entrare nella sala del banchetto anche i cittadini del Sud del mondo, sfidando così la politica cinese che, almeno in Africa, era stata l’unica a elaborare una strategia di investimenti infrastrutturali. Nella stessa direzione va il viaggio di Biden in Vietnam dove ha stretto accordi molto importanti nell’ottica di creare una catena di rifornimento che non possa essere bloccata da eventi come la recente pandemia di Covid-19 o le scelte politiche della Cina. Assume un grande valore il fatto che gli Stati Uniti abbiano concesso al Vietnam, nemico irriducibile in un altro periodo storico, lo status commerciale che fu attribuito alla Cina e che abbiano annunciato grandi investimenti nel settore delle tecnologie avanzate. Il Vietnam, retto ancora dallo stesso Partito comunista che umiliò militarmente gli USA, non ha nessuna intenzione di passare nel campo occidentale ma cerca di trovare una sua posizione indipendente tra l’Occidente e la Cina.

Hanoi non può avvicinarsi più di tanto a Washington, ma in ogni caso intende reagire all’assertività di Xi Jinping che, nel rivendicare la sovranità su alcune isole geograficamente vietnamite, ha mostrato chiaramene che non esistono partiti o Stati “fratelli”. Il Vietnam sta anche ampliando le sue relazioni commerciali con Australia, Singapore, Indonesia e Giappone, per garantirsi uno spazio di libertà rispetto all’ingombrante alleato cinese. Seguendo la strategia di Pechino, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, anche Hanoi ha modificato la sua politica economica, introducendo elementi di capitalismo che lo hanno trasformato in uno dei Paesi asiatici a più rapida crescita. Il Vietnam ha anche un ruolo importante nell’ASEAN (l’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico), alla ricerca di un proprio ruolo internazionale che le eviti di essere schiacciata tra Stati Uniti e Cina.

L’amministrazione USA non ha a che fare solo con l’influenza cinese, visto che la Russia rimane il principale fornitore di armi di Hanoi, ma punta a favorire una diversificazione economica e, potenzialmente, anche militare visto che il Vietnam ha diversi contenziosi con la Cina e non può certo fidarsi della benevolenza dei compagni cinesi. Quella che è stata definita da un funzionario della Casa Bianca una “comprehensive strategic partnership” con Hanoi riveste però anche una grande importanza etica e politica perché dimostra come due nazioni, che si sono combattute sanguinosamente per un decennio, possano poi arrivare a sedere allo stesso tavolo. Forse, in un futuro non troppo lontano, un presidente americano potrà stringere la mano di un presidente russo (non sarà certo Putin) e firmare accordi commerciali mutuamente vantaggiosi. Che l’Asia sia la priorità strategica per gli Stati Uniti è anche dimostrato dal fatto che, negli ultimi cinque mesi, Biden ha ospitato alla Casa Bianca il presidente delle Filippine, ha ricevuto con grande sfarzo Narendra Modi e ha incontrato a Camp David i leader di Giappone e Corea del Sud che hanno stretto importanti accordi commerciali che hanno alleggerito tensioni reciproche che hanno origine nella Seconda guerra mondiale.
(continua)

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