Vista dall’esterno, sembra che la Spagna sia saldamente in mano ai partiti “progressisti” per quanto le recenti elezioni politiche (giugno 2023) siano state vinte dal partito di centro-destra PP (Patido Popular). A conseguenza di questa vittoria, il capo dello stato spagnolo, re Felipe VI, ha incaricato Alberto Nuñez Feijóo, il leader del PP, di formare il governo. Ma al momento a tutti è chiaro che non ha alcuna chance di riuscire: infatti il PSOE (attualmente al governo e risultato secondo alle elezioni di giugno) con l’aiuto di altri partiti considerati di sinistra e dei partiti regionalisti-sovranisti è riuscito a eleggere il presidente del Congresso (la Camera dei deputati spagnola), nella persona di Francina Armengol, socialista delle Baleari e non avversata dai partiti catalanisti che sostengono il governo nazionale attuale, dimostrando di avere i numeri per poter eleggere anche il nuovo Presidente del governo.

La decisione del re

Allora perché il re non ha dato l’incarico al leader del partito socialista PSOE nonché attuale presidente del governo, Pedro Sanchez? Semplice, non solo il PSOE ha un numero di deputati inferiore al PP (e il comunicato ufficiale spiegava che l’incarico dev’essere affidato al candidato del partito che ha ottenuto il numero maggiore di voti, per quanto non tutti i costituzionalisti siano d’accordo su questo) ma, inoltre e in particolare, alle consultazioni in base alle quali il re sceglie a chi affidare l’incarico non si sono presentati i membri dei partiti indipendentisti che sostengono l’attuale governo di Sanchez e che in prospettiva potrebbero sostenere un suo nuovo governo. Perché? Perché tali partiti sono contrari alla monarchia, che la Costituzione spagnola pone come garante dell’unità del Paese, e non la riconoscono. Sul piano propagandistico per loro è facile sostenere che la monarchia è nata per volontà di Francisco Franco e per conseguenza ne sia erede, per quanto essa sia soggetta alla costituzione democratica approvata nel 1978, grazie alla quale – per giunta – essi dispongono di un potere contrattuale proporzionalmente maggiore di quello dei partiti il cui riferimento è tutta la Spagna (il sistema elettorale è congegnato in modo tale da garantire a un partito che operi in una sola Comunità autonoma di eleggere un deputato con un numero di voti inferiore a quelli necessari a un partito che opera su porzioni più ampie del territorio spagnolo).

Senza il voto di quei partiti Sanchez non ha i numeri per governare. Dunque, non avendo contezza formale della volontà di quei partiti di non sostenere Feijóo ma Sanchez, come avrebbe potuto il re incaricare quest’ultimo?

Tra centro e periferia

La situazione appare paradossale, e non è semplice comprenderla da fuori perché la Spagna più che un singolo Paese assomiglia sempre più a un piccolo continente in cui si agitano non solo correnti politiche diverse, ma anche diverse nazionalità in contrasto col potere centrale.

In pratica, mentre a livello europeo la tendenza generale è cercare di rafforzare l’Unione, in Spagna sta avvenendo un processo contrario: diversi partiti regionalisti-sovranisti ambiscono a sfaldare l’unità del Paese: in particolare i partiti catalani ambiscono a separare la Catalogna dalla Spagna, e lo stesso fanno i partiti indipendentisti baschi (vi sono partiti indipendentisti di peso minore anche in altre Comunità autonome).

Un aspetto che rende il tutto ancora più complicato, è che i partiti indipendentisti-sovranisti non si riconoscono in una singola corrente politica: in Catalogna c’è un partito indipendentista considerato di “destra” cioè JxCat (Junts pel Catalunya) cui appartiene l’ex governatore catalano Carles Puigdemont (attualmente deputato europeo ma ricercato dalla giustizia spagnola in quanto promotore del referendum illegale del 2017 inteso a cercare di separare la Catalogna dalla Spagna) e uno di “sinistra”, ERC (Esquerra Republicana de Catalunya) tradizionalmente sovranista, oltre a CUP (Candidatura de Unidad Popular) di derivazione anarchica, che si considera di sinistra e ambisce alla secessione non solo della Catalogna ma anche delle isole Baleari e della Comunità Valenziana. Nei Paesi Baschi c’è il PNV (Partido nacionalista vasco) tradizionalmente di destra e EH Bildu considerato di “sinistra” (a sua volta una coalizione di partiti più piccoli nata tra l’altro da Batasuna che era conosciuto come il braccio politico del gruppo terrorista ETA, che insanguinò la Spagna assassinando centinaia di persone – ufficialmente 858 – in particolare da dopo la caduta del franchismo).

La dinamica del dibattito politico in Spagna si è sviluppata negli ultimi anni soprattutto attorno al problema, se mantenere unita la Spagna o se accettare che Catalogna e Paesi Baschi si rendano indipendenti. È per reazione al referendum anticostituzionale catalano del 2017 che il partito Vox (fortemente centralista) ha preso consistenza: all’epoca il PP si era mostrato piuttosto blando nei confronti dei secessionisti catalani e il suo leader, nonché capo di governo di allora, Mariano Rajoy, invece di intraprendere un’azione politica volta a mantenere unito il Paese, si è limitato a demandare tale la responsabilità alla Magistratura: come a dire che le ambizioni indipendentiste non sono una questione politica ma solo un problema di giustizia penale. (Riguardo all’incostituzionalità del referendum catalano si veda per esempio: https://www.publico.es/politica/constitucional-anula-definitivamente-ley-referendum-1-octubre.html oppure alla fonte: https://www.tribunalconstitucional.es/notasdeprensadocumentos/np_2017_083/2017-4335stc.pdf ).

Unita o divisa? Una questione politica

E invece in Spagna lo scontro tra centralismo, ovvero unione del Paese, e localismo, ovvero separatistmo-sovranismo, è proprio il fulcro attorno al quale in questi anni ruota tutto il dibattito politico. Tanto che i partiti indipendentisti di destra e sinistra tendono ad allearsi contro il centralismo allo scopo di far prevalere quello che ritengono il loro interesse maggiore: secedere.

Dopo il (peraltro fallito) referendum anticostituzionale del 2017 l’allora presidente catalano, Carles Puigdemont, è fuggito all’estero per evitare il carcere al quale è stato condannato dalla giustizia spagnola: oggi è deputato europeo ma ancor oggi se mettesse piede in Spagna verrebbe arrestato. Il suo partito è JxCat, che ha sostenuto l’elezione della persona scelta da Sanchez per presiedere il parlamento spagnolo: per sostenere un ipotetico futuro governo Sanchez, JxCat chiederebbe l’amnistia per Puigdemont. Inoltre sia JxCat sia PNV hanno ricevuto “in dono” alcuni deputati eletti dal PSOE per formare i loro gruppi parlamentari, altrimenti non avrebbero avuto un numero sufficiente di deputati, e avendo un gruppo parlamentare i sussidi pubblici sono ben maggiori. Evidentemente in tali circostanze, di destra o di sinistra che siano, l’accordo col PSOE è sancito ed è evidente che un nuovo governo sotto la sua egida oggi è l’unico possibile.

Dunque a che cosa può mirare il PP di Feijo in tali circostanze? Se vuol convincere il PNV, che già in passato ha sostenuto governi del PP, dovrebbe dargli una contropartita ben più forte di quella che questo ha già avuto dal PSOE. E tale contropartita non potrebbe che essere di rafforzare l’indipendentismo basco. Ma come potrebbe Vox, sorto proprio per contrastare il sovranismo indipendentista, sostenere un governo fondato su queste eventuali concessioni al PNV? E senza Vox il PP non avrebbe alcuna possibilità di governare la Spagna.

Feijóo ha tempo sino al 30 settembre e tutto indica che il suo tentativo fallirà.

Un nuovo governo Sanchez

Invece Pedro Sanchez potrebbe riuscirci se venisse incaricato dopo il suo fallimento, poiché ottiene l’appoggio dei partiti sovranisti-indipendentisti, avendo ampiamente mostrato di essere disponibile ad accettare un crescente sfaldamento dell’organizzazione statuale spagnola e a conferire maggiore autonomia a quelle che dal punto di vista italiano sarebbero regioni, e dal punto di vista sovranista catalano e basco sono Paesi schiacciati dal piede straniero. Non a caso diversi leader storici di PSOE (Joaquin Leguina in testa, ma anche l’ex Primo ministro Felipe Gonzalez e il suo ex braccio destro Alfonso Guerra) in vario modo si sono dissociati da questa politica di Sanchez. Il quale però si è sempre dimostrato abilissimo nel raccogliere sostegni atti a mantenerlo al potere sia nel partito sia nel governo.

Un problema aggiuntivo: a seguito del referendum indipendentista catalano del 2017 migliaia di aziende hanno trasferito la loro sede legale dalla Catalogna a altre zone della Spagna e in particolare alla capitale Madrid. Perché? Perché se per ipotesi ci fosse stata una vera secessione, la Catalogna ispo facto sarebbe stata estromessa dall’Unione Europea e avrebbe dovuto cominciare da zero il processo per cercare di aderirvi, col serio rischio di scontrarsi col veto di Paesi non favorevoli alla dinamica del sovranismo-indipendentismo. Lo stesso avverrebbe ovviamente se vi fosse una secessione dei paesi Baschi.

Sovranismo e sovranismo

È la trappola del sovranismo, pur tanto apprezzato dalle correnti politiche di “destra” in Italia: il sovranismo titilla le pulsioni localiste. E la logica della scissione produce ulteriori scissioni in una Babele politica alimentata dall’egoismo territoriale-nazionale-etnico contraria alla tendenza a unire i popoli con cui i Padri dell’Europa Unita e i Paesi fondatori delle Nazioni Unite dopo la seconda guerra mondiale hanno cercato di animare il processo di avvicinamento tra i popoli.

In tali circostanze, si può dire che la Spagna sia saldamente in mano ai partiti “progressisti”? Lo possono affermare solo coloro che sono contrari all’integrazione europea. Se questi siano di sinistra o di destra poi, ognuno lo vedrà per proprio conto, in un mondo in cui da tempo questi termini hanno perso ogni significato.

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