Di P. Lumumba

“Controllo della barbarie”, un documento che circola online dal 2005 si presenta come il progetto operativo del terrorismo che opera pretendendo di essere espressione dell’Islam. Vi si delinea una struttura agile con cellule indipendenti, secondo schemi in parte già sperimentati nelle formazioni terroristiche che insanguinarono l’Europa negli anni ’70. Dicono di rifarsi al “Califfato” che dall’VIII secolo riuscì a estendersi sino all’Andalusia….

Il potere del mondo occidentale sta nella centralizzazione e questa “risiede nella straordinaria forza militare e nell’aura ingannatrice dei mass media”, ma può funzionare solo “in una società coesa”. E tale coesione è data “dalla superpotenza restante” che domina attraverso le Nazioni Unite. Le citazioni sono tratte dal documento del 2005 che inneggia alla distruzione delle Torri gemelle come all’inizio di una nuova era destinata a veder risorgere il Califfato mentre traccia la strategia per raggiungere tale scopo. Il terrorismo islamico, che dispiega propaggini sanguinose sull’Europa, sembra seguire pari pari quanto indicato in tale scritto il cui titolo è “Controllo della barbarie”. Firmato “Abu Bakr Naji” e intriso di richiami all’Islam, il testo, che è stato tradotto in inglese nel 2005, si poteva leggere allora come il programma di Al Qaeda e oggi si può intendere come quello di Daesh: ha un carattere prettamente militaresco ed è fondato sull’uso scientifico del terrore, tanto che il suo rapporto con la religione islamica pare prettamente strumentale.

Lo scopo è destabilizzare Stati e governi così che, gettate nel caos, le popolazioni disperate siano facile preda di chi si presenta come salvatore. I terroristi islamici intendono risollevare lo spirito dei Talebani che cacciarono l’URSS dal suolo afghano e usarlo per distruggere il rispetto che molti ancora nutrono verso la forza degli USA. Laddove vi sono regimi che si sostengono con l’aiuto americano occorre diffondere instabilità, specifica il programma, per poi intervenire e fornire “sicurezza, assistenza medica, ristabilire la giustizia della Sharia tra coloro che vivono nelle regioni dominate dalla barbarie. Alzare il livello della fede e dell’efficienza dei giovani addestrati al combattimento, stabilire una società combattente”. Da qui evidentemente deriva il nome di “Stato Islamico” che s’è data la nuova versione di Al Qaeda: lo Stato infatti è quel che si prende cura dei cittadini e li difende.

“L’amministrazione della barbarie ha saputo imporsi molte volte nella nostra società islamica”, spiega il documento: è quanto avvenne anzitutto quando il profeta si stabilì a Medina, e diede un nuovo ordine in una società dominata da lotte tribali. Ora, al posto di Maometto, Abu Bakr parla di un Centro capace di promuovere attività terroristiche nel mondo per imporre poi il suo dominio.

A un italiano che legga quel documento balzano all’occhio alcune similitudini coi pronunciamenti dei terroristi che imperversavano negli anni Settanta lanciando feroci attacchi a quel che vedevano come Stato Imperialista delle Multinazionali. Ma se le Brigate Rosse dicevano di fondarsi sulla Resistenza, che consideravano tradita perché invece di portare alla “età dell’oro” del potere comunista sfociò nello stato democratico, per il terrorismo islamico il riferimento fondativo è il Califfato che nel medioevo si estendeva dai confini dell’India all’Andalusia: questa è la “età dell’oro” che pretende ricostituire. Un po’ come se i romani oggi si mettessero in testa di destabilizzare la Spagna e la Turchia per recuperare l’impero dell’era augustea.

Il fanatismo non riconosce il trascorrere del tempo, né accetta il diffondersi della cultura basata sul rispetto e non sul dominio. Come in tutti i gruppi terroristici, anche in quelli islamici non esiste un fondamento morale ma solo fame di potere tanto che, con atteggiamento apertamente infingardo, il documento di Abu Bakr promuove la corruzione e stabilisce che occorre “unire i cuori delle persone usando il denaro”. E, ancora: “Abbiamo detto che colpiremo qualsiasi obiettivo permesso dalla Sharia. Tuttavia è necessario concentrarsi su quelli di rilevanza economica, in particolare il petrolio”: la religione è piegata alle esigenze superiori della violenza. Il fine giustifica i mezzi.

E le principali vittime del terrorismo islamico non sono i Paesi occidentali, se non in subordine: lo scopo è dimostrare che questi sono deboli e quindi non in grado di supportare gli Stati dei Paesi islamici. Pertanto il documento di Abu Bakr fa appello al ricongiungimento di tutti i movimenti terroristici nel mondo, immaginando la possibilità di una disarticolazione globale del sistema di Stati nazione di stampo occidentale: consunti questi, il califfato si prenderà cura anzitutto delle popolazioni di cultura islamica.

E su tale progetto, mentre offre sostegno alle cellule terroristiche nel mondo, incoraggia il loro configurarsi più o meno autonomo, secondo il modello del franchising. Il marchio è noto e l’organizzazione c’è: non a caso nello stesso documento si richiede che gli aderenti studino con attenzione le scienze economiche, per meglio sostenerne le infrastrutture. Al di là dei nomi – Daesh, ISIS, Al Qaeda – siamo di fronte a una struttura ideologica che si fonda sull’avversione al concetto di Stato occidentale ed è disposta ad accogliere chiunque voglia ribellarsi alla sua logica fondata sulla democrazia.

Per battere questo Daesh bisognerà recuperare l’impulso originario che diede origine alle intese sovrannazionali del secondo dopoguerra, quando queste avevano un primario intento morale, e non prevalentemente un cardine economico. Come avvenne con l’ondata destabilizzante degli anni Settanta, quello morale è il terreno su cui si sconfiggerà la petizione del terrorismo, che è tanto ideologizzata quanto immorale. Ma per farlo è necessario aver chiari i principi che sostanziano i regimi democratici.

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