I tifosi di calcio si illudono che sia stata l’Argentina a vincere la coppa del mondo ma, in realtà, il vero vincitore è stato l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani e l’ha orgogliosamente mostrato a tutti quando ha imposto a Lionel Messi di indossare il bisht, un tradizionale mantello nero qatariota, proprio al momento di alzare la coppa. Come è possibile che un minuscolo e desertico Paese, senza tradizioni calcistiche, si sia aggiudicato il più importante evento sportivo mondiale? La risposta è molto semplice: 220 miliardi di dollari e una potente ed efficacissima macchina della corruzione. Per l’emiro il mondiale è solo un punto di partenza e, come dimostra lo scandalo che ha colpito l’Europarlamento, il Qatar è un Paese che nutre aspirazioni spropositate.

Nelle prossime settimane e mesi la magistratura belga farà chiarezza sul maggiore scandalo che ha colpito l’Europarlamento ma, già ora, è emerso un diffuso quadro di corruzione per ottenere decisioni favorevoli al piccolo emirato del Golfo. Il Qatar ha certamente fatto molta strada da quando, nel 1971, ottenne l’indipendenza dal Regno Unito. Ma non si pensi a eroiche gesta patriottiche o a duri sacrifici per ottenere l’agognata libertà. Molto più banalmente, la Gran Bretagna non poteva più permettersi le spese per gestire il piccolo Pese che divenne indipendente soprattutto a causa dei tagli del bilancio di Londra. La scoperta di enormi giacimenti di gas, i terzi del mondo dopo quelli di Russia e Iran, ha fornito al Qatar un’enorme liquidità che è stata investita in modo spregiudicato nel settore sportivo (e questo ha dato visibilità mondiale a Doha), industriale, finanziario e delle comunicazioni.

È piccolo ma pensa in grande

Il Qatar è una penisola, con un’importante valenza strategica, che si protende nel Golfo Persico e confina con la sola Arabia Saudita a sud. La sua superficie è inferiore a quella del Trentino e ha una popolazione di 2,9 milioni di persone ma di questi, soltanto 278mila sono qatarioti. Il resto è composto da stranieri, provenienti soprattutto dall’India e dal Pakistan. Gli immigrati sono principalmente giovani maschi e per tale ragione soltanto il 24 per cento della popolazione è composto da donne. Il Paese è retto da una monarchia costituzionale che si giova anche di una Camera consultiva ma, di fatto, il potere è concentrato nelle sole mani dell’emiro, che è anche proprietario delle principali imprese nazionali. Il Qatar guida la classifica mondiale del PIL pro capite con un reddito, per il 2021, di 61.276 dollari (in questa lista l’Italia è al 35esimo posto).

Il piccolo emirato attirò l’attenzione internazionale per la prima volta nel 1996, con la creazione di Al Jazeera, un’emittente televisiva, voluta dall’allora emiro Hamad bin Khalifa al Thani, che aspirava a diventare la principale fonte di informazione nel mondo arabo. La copertura dell’operazione Desert Fox contro l’Iraq e, successivamente, della Seconda Intifada ha consolidato la sua posizione di televisione “libera” e “indipendente”. Nel 2006, facendo ampia incetta di prestigiosi giornalisti del mondo anglo-sassone, nasce Al Jazeera International che, grazie al satellite, viene trasmessa in tutto il mondo e si costruisce una buona reputazione di accuratezza e affidabilità. I servizi sul lavoro minorile negli Stati Uniti o i traffici di droga, oppure i retroscena di grandi scandali internazionali sono accurati e fattuali ma, ovviamente, non aspettatevi nulla sui miliardi di dollari elargiti dagli emissari quatarioti per guadagnare l’assegnazione dei mondiali di calcio.

Negli anni, l’emirato ha dimostrato una grande abilità manovriera, la capacità di giocare su più tavoli e di saper mediare, con ambiguità e punti oscuri, tra forze molto diverse tra di loro. Le trattative, prima segrete e poi ufficiali, tra l’amministrazione Trump e i Talebani afghani si sono svolte proprio a Doha ma, alla luce degli sviluppi successivi, si sono rivelate un drammatico fallimento. I soldi non possono però spiegare tutto. Il piccolo emirato ha sogni da grande potenza perché da molti anni ha stabilito un’alleanza organica con la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, che fornisce a Doha la dimensione demografica e imperiale di cui ha bisogno. Anche il presidente turco nutre ambizioni sconfinate per riportare la Turchia alla dimensione territoriale e di influenza politica dell’impero ottomano ma, anche per colpa della propria demagogia, ha un’economia a pezzi che non è in grado di sostenere i suoi disegni di espansione in Siria, Libia e Somalia. La politica neo-ottomana turca viene quindi generosamente sostenuta da Al Thani con sostanziose iniezioni di liquidità.

Il gatto e la volpe

Il rapporto iniziò ad approfondirsi con lo scoppio delle cosiddette “primavere arabe” del 2011. In esse la Turchia vide un processo di “normalizzazione” post-coloniale del mondo arabo in cui i movimenti islamisti avrebbero eliminato le barriere nazionali e creato un nuovo ordine regionale che avrebbe visto la Turchia in posizione centrale. Per Doha, invece, quella poteva essere un’occasione irripetibile per emanciparsi dalla sudditanza verso Riyad e cercare soci d’affari al di fuori del Golfo, anche grazie alle vaste reti della Fratellanza musulmana, la potente organizzazione dell’islam politico. Al contrario, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti vedevano le richieste popolari e la crescente influenza dei movimenti islamisti come una minaccia diretta ai loro governi autoritari retti da forme di potere tribale.

Un primo cambiamento si ebbe nel luglio del 2016, col fallito colpo di stato ad Ankara, che

Fethullah Gülen, predicatore e politologo turco, prima alleato e poi acerrimo nemico di Erdoğan, che lo accusa di essere l’ispiratore del fallito colpo di stato del 2016. Vive in esilio negli Stati Uniti.

portò Erdoğan a modificare la politica estera turca allineandosi con la Russia e l’Iran, dopo aver indicato gli Stati Uniti come i responsabili del tentativo di rovesciarlo e gli Emirati Arabi Uniti di esserne stati il principale finanziatore. Nel 2017 la svolta dell’amministrazione Trump verso l’Iran, passata dall’atteggiamento dialogante al confronto, convinse i sauditi, nemici storici di Teheran, che era arrivato il momento di mettere il Qatar alle corde per il loro rapporto amichevole con l’Iran, con cui condividono un immenso giacimento di gas. Il 5 giugno 2017 l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e l’Egitto ruppero i rapporti diplomatici col Qatar, accusandolo di “sostenere il terrorismo” e iniziando un blocco commerciale che avrebbe dovuto costringere Doha a cedere alle durissime richieste dei quattro.

Nonostante il fatto che il Qatar, come anche l’Arabia Saudita, aderisca al wahabismo, una visione retriva e oscurantista dell’islam, questo non gli ha mai impedito di mantenere rapporti amichevoli e utilitaristici con la Fratellanza musulmana. Doha ha finanziato i gruppi armati legati alla Fratellanza musulmana e ha sostenuto apertamente i partiti islamisti e rivoluzionari associati a tali gruppi. Secondo vari analisti, singoli cittadini ma anche rappresentati governativi qatarioti sono stati regolarmente in contatto con Al Qaeda e suoi affiliati in Siria, Iraq, Somalia e Yemen, per esercitare un’influenza geopolitica, fare da mediatore tra le organizzazioni terroristiche e l’Occidente e garantirsi l’immunità da attacchi dell’islamismo radicale sul proprio territorio. Temendo un’invasione militare saudita, Doha si è rivolta all’amico turco che, intravedendo la possibilità di guadagnare una solida posizione in un’area di notevole importanza strategica, ha prontamente risposto all’appello dell’emiro.

La creazione di due basi militari turche nell’emirato, che già ospita la principale base statunitense nell’area, ha azzerato qualunque minaccia, visto che Ankara possiede il più potente esercito della NATO dopo quello americano. La sconfitta di Trump alle elezioni, i rovesci militari in Yemen e la crisi globale seguita alla pandemia di Covid-19 hanno convinto Riyad e i suoi alleati a fare marcia indietro e a riallacciare le relazioni diplomatiche ed economiche col Qatar, emerso come sostanziale vincitore. Si è così rafforzato un asse che vede Ankara e le sue aspirazioni di espansionismo neo-ottomano strettamente legato a Doha e alla sua enorme capacità finanziaria. Entrambi i Paesi si sono recentemente rafforzati: Erdoğan, un autocrate spietato e senza scrupoli, ha consolidato la sua posizione internazionale come mediatore di pace nel conflitto tra Russia e Ucraina, mentre grazie ai campionati mondiali di calcio, il Qatar si presenta come nazione moderna, efficiente e dinamica.

Ankara: grandi sogni ma poco contante

Da diversi anni l’economia turca è in affanno, l’aumento delle materie prime e dell’energia ha messo in ginocchio l’industria, costretta a confrontarsi con una costante svalutazione della lira che ha fatto salire alle stelle i prezzi di approvvigionamento dell’apparato produttivo. A differenza di altri Paesi, che hanno reagito all’aumento dei prezzi seguito alla pandemia e alla crisi ucraina con una politica monetaria restrittiva, Erdoğan ha imposto l’abbassamento dei tassi che non è però riuscito a contrastare la svalutazione e ha gonfiato il debito estero delle imprese. A ottobre 2022 l’inflazione è cresciuta per il 17esimo mese consecutivo, toccando l’85,5 per cento. Secondo l’Istituto turco di statistica, rispetto allo scorso anno il costo del cibo è aumentato del 99 per cento, gli affitti dell’85 per cento e i trasporti del 117 per cento. La lira turca ha perso più del 28 per cento rispetto al dollaro dall’inizio del 2022 e quasi il 50 per cento lo scorso anno. Una situazione drammatica, non c’è che dire. Per fortuna ci sono gli amici.

Anche se, date le dimensioni, Doha non è il suo principale partner commerciale, la Turchia ha stretto rapporti economici sempre più intensi con l’emirato, sviluppando la cooperazione in vari settori come la difesa, la finanza e il turismo. Il Qatar ha fornito un sostegno diretto all’economia di Ankara durante la svalutazione della lira nel 2018 e ha aumentato i suoi investimenti diretti. Alla fine del 2019 i 20 miliardi di dollari investiti dall’emirato hanno rappresentato una vitale boccata d’aria per l’economia turca. Durante la pandemia di Covid-19 l’emirato ha inoltre firmato un accordo swap da 15 miliardi di dollari, volto ad alleggerire il peso dell’indebitamento turco. Un ulteriore accordo per un finanziamento di altri 10 miliardi di dollari è in corso e prevede la concessione di 3 miliardi entro la fine del 2022. Un’altra forma di sostegno, che non viene però registrata nelle statistiche ufficiali, è quella di depositare somme ingenti nel sistema bancario turco, un appoggio utilissimo e molto discreto. A voler essere maligni, si potrebbe affermare che Doha sta rimborsando la Turchia per la protezione militare fornita durante la crisi con i sauditi e i suoi alleati.

Nonostante i sogni di grandezza, l’economia turca è in grave crisi e senza l’appoggio finanziario del Qatar, diventerebbe un caso internazionale. Il grafico, a cura di Tradingeconomics.com su dati dell’Istituto di statistica turco, mostra l’esplosione dell’inflazione nell’ultimo anno.

I due Paesi hanno firmato diversi trattati di cooperazione nel settore della difesa a partire dal 2007, fino all’Accordo sulla cooperazione militare del 2015 che prevede lo scambio di informazioni e l’intensificazione della collaborazione nel settore della difesa. Il Qatar si è impegnato ad acquistare dalla Turchia 100 carri armati moderni, 585 veicoli blindati da combattimento, 25 obici di ultima generazione e 6 veicoli blindati teleguidati, diventando il quarto acquirente di armamenti turchi. La politica estera di Erdoğan sarebbe inconcepibile senza il sostegno discreto dell’emirato. Doha ha pagato parzialmente le operazioni nel nord della Siria e ha messo a disposizione i mezzi finanziari per la conquista turca della Tripolitania in Libia, che ha posto fine alle aspirazioni del generale Khalifa Haftar, sostenuto da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Egitto (guarda caso, gli stessi che avevano attaccato il Qatar).

E l’Italia sta a guardare

Non si può far finta di nulla rispetto all’asse d’acciaio tra Turchia e Qatar perché il controllo che Ankara esercita su Tripoli può annullare settant’anni di politica estera italiana nell’area e questo, in un periodo di drammatica crisi energetica, sarebbe semplicemente suicida. Se il nostro Ministero degli Esteri ha una linea politica per la Libia, la tiene accuratamente nascosta. Neppure l’incontro del 15 novembre 2022 tra la premier italiana Meloni e il presidente turco, a margine delle riunioni del G20, ha contribuito a fare chiarezza. Secondo fonti turche presenti all’incontro, il Primo ministro italiano avrebbe mostrato interesse per l’acquisto di droni turchi da usare “per scopi di sorveglianza e contro l’immigrazione illegale”. La notizia non ha però ricevuto nessuna conferma ufficiale e non appare particolarmente credibile perché gli unici droni di cui si fa menzione nel documento di programmazione del ministero della Difesa italiano sono il MQ-9 Reaper e l’RQ-1 Predator, entrambi di fabbricazione americana.

Nell’aprile del 2021, commentando lo sgarbo fatto da Erdoğan alla presidente UE Ursula von der Leyen, l’allora premier Mario Draghi aveva definito il leader turco un “dittatore” con cui era però necessario collaborare, considerando il fatto che era in grado di ricattare l’Europa con la questione dei migranti. Incontrandolo successivamente, Draghi aveva poi dimostrato che con la fermezza, dei fatti non delle chiacchiere, era possibile negoziare anche con i “dittatori”. Questa è una lezione che Giorgia Meloni dovrebbe tenere a mente poiché il suo governo si è fatto conoscere a livello internazionale per dichiarazioni roboanti che, successivamente, sono ignominiosamente rientrate per cedere il passo a considerazioni più pragmatiche. Finora, la fermezza è stata usata in modo spietato soltanto contro i disperati che tentano di entrare in Italia. Sarebbe invece il caso di usarla anche verso chi minaccia i nostri interessi energetici in Libia e nel Mediterraneo orientale. Ma, purtroppo, tra il dire e il fare….

Galliano Maria Speri

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