All’alba del 7 ottobre 2023 un migliaio di miliziani di Hamas ha attraversato in vari punti il confine che separa Gaza dal territorio di Israele e ha attaccato avamposti militari, villaggi e kibbutz, assassinando indiscriminatamente militari, vecchi, donne e bambini e prendendo in ostaggio 201 persone. Si sono contate circa 1400 vittime. L’esercito e il governo sono stati completamente colti di sorpresa in quello che è il peggiore massacro di ebrei dal 1948. Il premier Netanyahu, il principale responsabile del disastro, ha creato un governo di emergenza con membri dell’opposizione e ha richiamato 300mila riservisti per un’operazione di terra che, si prevede, farà un bagno di sangue e costerà la vita a migliaia di palestinesi innocenti. Con la visita del presidente Biden, gli Stati Uniti hanno tentato di moderare le intenzioni di vendetta di Tel Aviv, ma senza conseguire risultati significativi. L’invasione israeliana di Gaza rischia di coinvolgere negli scontri tutti i Paesi dell’area.

Mentre sta preparando l’operazione di terra, il governo Netanyahu ha ordinato massicci bombardamenti e ha bloccato i rifornimenti di elettricità, gas e acqua creando una drammatica crisi umanitaria per i 2,3 milioni di residenti di Gaza. La mattina del 13 ottobre l’esercito israeliano ha ingiunto a 1,2 milioni di abitanti della parte settentrionale di Gaza di spostarsi verso sud ma, in più di un’occasione, gli aerei con la stella di Davide hanno bombardato le colonne dei disperati in fuga, facendo decine di vittime. Il 17 ottobre Ravina Shamdasani, una delle portavoce dell’Alto Commissario dell’UNU per i Diritti Umani, ha diffuso un comunicato in cui si afferma: «Con il dato sconvolgente di 4200 persone uccise, oltre un milione di abitanti costretti a fuggire in soli dieci giorni, vaste aree di Gaza ridotte a un cumulo di macerie, temiamo che i civili pagheranno un costo altissimo nei prossimi giorni…il totale dei morti include un alto numero di donne e bambini, come pure 11 giornalisti palestinesi, 28 tra medici e infermieri e 14 colleghi del personale ONU». I civili di Gaza sono in trappola perché il varco di Rafah verso l’Egitto è chiuso e, finora, nemmeno i mezzi con gli aiuti umanitari possono raggiungere l’area.

Strategia fallimentare

George Orwell (1903-1950) ha scritto 1984 e La fattoria degli animali in cui dimostra come la manipolazione del linguaggio venga usata dal potere per soggiogare e strumentalizzare le coscienze. Il sacrosanto “diritto alla difesa” è servito a coprire crimini di guerra e terribili efferatezze.

Si sa che la prima vittima di una guerra è la verità ma, con la buona volontà e un’attenta cernita delle fonti, è possibile avere un’idea, anche se imprecisa, di cosa stia veramente accadendo, senza farsi accecare dalle posizioni ideologiche, per cui bisogna schierarsi acriticamente da una parte o dall’altra. Il grande scrittore britannico George Orwell ci ha impartito un profondo insegnamento su come il potere manipoli il linguaggio per raggiungere i propri fini e ci ha messi in guardia sui personaggi che sono “più uguali degli altri”. L’articolato attacco di Hamas, che si è servita di moto e auto, un limitato numero di canotti e parapendii, è stata la più estesa e crudele offensiva terroristica subita finora da Israele. Le immagini dei neonati falciati a colpi di mitra nelle loro culle è terribile e ha giustamente sollevato l’orrore e l’indignazione del mondo. Ma le centinaia di bambini palestinesi morti sotto le macerie causate dai bombardamenti israeliani sono meno innocenti dei loro coetanei ebrei? Hamas ha volutamente inflitto morte e distruzione ai civili, mentre i morti palestinesi sono “vittime collaterali” delle operazioni militari. Dal punto di vista etico, cosa cambia che i civili palestinesi vengano uccisi non intenzionalmente, solo perché stavano nel posto sbagliato nel momento sbagliato?

La frase «Israele ha diritto di difendersi» è diventata un mantra, ripetuto a ogni piè sospinto. Certo che Israele ha il diritto di difendersi, ma a questa affermazione bisogna associare anche il diritto, totalmente ignorato, alla vita e alla dignità della popolazione palestinese, che va assolutamente distinta dal fondamentalismo di Hamas. L’ONU ha calcolato che dal 2008 al 2023 (il dato non include ovviamente i recenti massacri) i morti palestinesi sono stati 6407 e i feriti 152.560. Lo stato ebraico ha invece avuto 308 morti e 6307 feriti. Come si vede, una drammatica sproporzione. Per ogni morto con la stella di Davide, ce ne sono stati più di 20 con la kefiah, qualche combattente colpito con le armi in pugno ma, nella stragrande maggioranza dei casi, semplici civili senza colpe. Vorrei ricordare a tutti coloro che ripetono incessantemente che Israele «è l’unica democrazia del Medio Oriente» che hanno ragione. Saprebbero però indicarmi un’altra democrazia che elimina i terroristi con un missile che distrugge la loro casa, seppellendo anche moglie e figli? Quale altro Paese democratico abbatte le case degli accusati di terrorismo e sradica gli olivi dei sospettati? L’assioma del pugno di ferro, del controbattere colpo su colpo, della brutalità cieca in risposta alla brutalità cieca ha causato solo disastri. È inaccettabile che il Primo ministro di un Paese democratico rivendichi il diritto alla “vendetta”, perfettamente plausibile sulle labbra di uno ‘ndranghetista ma non su quelle del rappresentante di uno stato democratico.

La cosa veramente tragica è che questa ferocia inumana non ha sortito nessun effetto, non ha migliorato la vita degli israeliani, non ha ridotto la minaccia terroristica ha anzi rinfocolato l’odio e il desiderio di rivalsa. Ogni funerale di un terrorista ucciso è stato l’incubatore di altri futuri combattenti, in una spirale perversa che continua a fare vittime innocenti tra israeliani e palestinesi. L’offensiva di terra annunciata da Netanyahu, e rallentata dalle pressioni americane, sarà massiccia e terribile perché punta a eliminare una volta per tutte la presenza di Hamas e della Jihad islamica nella Striscia di Gaza. È ben noto che quell’area ha una delle più alte densità abitative del mondo, ha il sottosuolo attraversato da centinaia di chilometri di gallerie rinforzate e sicuramente sarà difesa con un piano preparato da lungo tempo. Inoltre, i 201 ostaggi (diminuiti di due unità con il rilascio di due donne americane il 20 ottobre) sono un problema umano e politico di difficilissima soluzione. Il premier israeliano dichiara di voler porre fine per sempre alla minaccia terroristica di Hamas e della Jihad islamica. Ma non è la prima volta che Tsahal (l’esercito israeliano) invade Gaza e anche allora i vari interventi non furono risolutivi.

La coazione a ripetere gli errori

Nel dicembre del 2008, in risposta al lancio di missili dalla Striscia, Israele conduce un’invasione che dura 23 giorni, uccide 5/600 palestinesi (il numero di 1300 vittime sembra sia stato gonfiato dalla propaganda), distrugge molti depositi di missili e poi si ritira. Nel novembre del 2012, Gaza è invasa ancora una volta. Stavolta i morti palestinesi sono circa 150, quelli israeliani 6. Dopo 8 giorni viene firmato un cessate il fuoco. Ma neanche questa operazione è risolutiva. Diventa necessario un nuovo intervento che ha inizio l’8 luglio 2014 e termina il 26 agosto. Secondo i dati ONU, in questa occasione i morti palestinesi sono 2251 (1462 erano civili, 551 bambini e 299 donne), mentre l’esercito di Tel Aviv conta 66 vittime. Come nelle occasioni precedenti, vengono eliminati molti terroristi e distrutti numerosi depositi di missili.

I dati dell’ONU dimostrano incontrovertibilmente che i civili palestinesi, soprattutto bambini, sono le principali vittime del terrorismo islamista e delle feroci e sproporzionate risposte israeliane. Non devono esserci morti di serie A e di serie B.

Nel maggio del 2021, a causa dell’espulsione di 4 famiglie palestinesi da Gerusalemme est, Hamas e la Jihad islamica lanciano dei missili contro Israele. Tel Aviv risponde con bombardamenti massicci e un’operazione di terra che dura 11 giorni. Dopo il cessate il fuoco, la situazione ritorna allo status quo. I morti palestinesi sono 256, quegli israeliani 13. Ma neppure questa operazione è risolutiva perché la mattina del 7 ottobre 2023 da Gaza viene lanciato un numero di missili così elevato da riuscire a bucare Iron Dome, il sistema di difesa antimissilistico israeliano, seguito dall’attacco dei militanti. Netanyahu, il comandante in capo responsabile del colossale fiasco dei servizi segreti e dell’esercito, promette che l’invasione che si prepara a lanciare sradicherà per sempre Hamas, ma questo ricorda un po’ la Prima guerra mondiale, la “guerra che avrebbe posto fine a tutte le guerre”. Purtroppo, le cose non andarono così e quindi anche l’ennesima invasione di Gaza potrebbe avere gli stessi risultati di quelle precedenti, ma con il rischio drammatico di coinvolgere anche i Paesi vicini. Il confine con il Libano, dominato dagli Hezbollah alleati all’Iran, diventa sempre più caldo. Il 19 ottobre un cacciatorpediniere della marina militare USA, operante nella parte settentrionale del Mar Rosso, ha intercettato missili e droni partiti dallo Yemen “potenzialmente contro obiettivi in Israele”, secondo un portavoce del Pentagono. Il lancio è stato compiuto dalla milizia Houthi, alleata dell’Iran, ed è un segnale preoccupante del rischio di allargamento del conflitto.

Netanyahu e Hamas: odi et amo

 Il lancio di missili da Gaza e la brutale risposta israeliana va avanti da anni, tanto che ormai la maggioranza degli osservatori indipendenti concorda sul fatto che tra l’attuale Primo ministro israeliano e l’organizzazione terroristica palestinese esista una alleanza contro natura, un perverso gioco delle parti in cui i due nemici mortali si puntellano vicendevolmente. L’estremismo di Hamas ha permesso a Netanyahu di legittimare la costante erosione delle terre nominalmente palestinesi della Cisgiordania, con un flusso inarrestabile di coloni che significano recinzioni insuperabili, posti di blocco militari e violenze continue da parte delle milizie armate dei coloni che si sentono in diritto di colpire qualunque palestinese, che sta semplicemente a casa sua, in quanto “terrorista”. Federico Fubini ha scritto sul Corriere della Sera del 15 ottobre 2023: «In qualche momento del passato Netanyahu deve aver pensato che Hamas fosse il nemico migliore in cui potesse sperare. Un nemico che disumanizza l’avversario, che non riconosce il diritto di Israele a esistere e degli ebrei a vivere turba profondamente, come in queste ore. È un nemico con cui non si può scendere a compromessi, proprio perché non riconosce il diritto dell’altro a esserci».

Se non ci fosse un nemico implacabile come Hamas, come potrebbe Netanyahu giustificare la sua costante politica di erosione dello Stato di diritto? Le vittime non sono soltanto i palestinesi di Gaza e Cisgiordania e la numerosa minoranza araba di Israele, ma anche tutti gli israeliani che credono nella democrazia. Non possiamo dimenticare che, per molti mesi, centinaia di migliaia di cittadini dello stato ebraico sono scesi in piazza ogni sabato per protestare contro il tentativo del Primo ministro di mettere sotto controllo politico la Corte suprema, per evitare che le accuse di corruzione contro di lui potessero mai arrivare a processo. Netanyahu è un demagogo populista, certamente abilissimo nelle relazioni pubbliche, ma sostanzialmente incompetente come Primo ministro, avendo come stella polare unicamente la sua sopravvivenza politica, prolungata con l’alleanza con estremisti di destra che hanno portato al potere uomini di loro fiducia che non possiedono alcuna competenza di governo. Finita l’emergenza, sul lungo dominio di Netanyahu calerà finalmente il sipario ma lascerà alle proprie spalle solo rovine e vittime.

Molti politici israeliani vanno ripetendo che il disegno di cedere terre ai palestinesi in cambio della pace non ha funzionato. Vi abbiamo dato Gaza, dicono, e voi

Ariel Sharon (1928-2014) è stato un generale e politico israeliano. Artefice del ritiro da Gaza del 2005, operò in modo tale da consentire agli estremisti islamici la presa del potere nella Striscia. (La foto lo ritrae nel 1964)

l’avete trasformata in una base contro di noi. Ma l’affermazione è falsa. È vero che nel 2005 Israele si ritirò unilateralmente dalla Striscia di Gaza, ma questo non ha posto fine alla sua occupazione de facto, visto che lo Stato ebraico ha mantenuto il controllo sui confini, sullo spazio aereo e marittimo e (insieme all’Egitto) esercita una supervisione strettissima sul flusso di uomini, merci, acqua ed elettricità, come si è visto dopo il 7 ottobre, quando la Striscia è stata sigillata. In secondo luogo, il ritiro fu organizzato dal generale Ariel Sharon in modo tale da favorire la presa del potere da parte di Hamas. Se Sharon avesse avuto intenzione di gestire una transizione ordinata, avrebbe coordinato il ritiro con l’Autorità palestinese, consentendole di subentrare alla supervisione israeliana, in vista di un futuro accordo anche sulla Cisgiordania. Il ritiro improvviso non permise all’Autorità palestinese, già minata da corruzione e inefficienze, di prendere possesso di Gaza che venne offerta ad Hamas su un piatto d’argento. Nel 2006 l’organizzazione islamista vinse le elezioni a Gaza contro l’Autorità palestinese, percepita come subordinata agli interessi israeliani, e questo consentì specularmente agli estremisti ebraici di proclamare la fine del concetto di “due stati per due popoli”.

Ma sono gli USA a influenzare Israele o viceversa?

Israele dipende in gran parte dagli Stati Uniti per la propria difesa, anche se ha sviluppato negli ultimi anni in modo indipendente una propria, efficiente industria militare. Come ha detto il presidente Biden durante la sua visita a Tel Aviv e ripetuto nel discorso alla nazione del 19 ottobre dallo Studio Ovale, Washington è pronto a difendere Israele anche con le armi, se sarà necessario. Sulla carta, sarebbe Israele a doversi piegare alla volontà americana, ma nella prassi politica succede esattamente il contrario. Dopo l’assassinio del Primo ministro Ytzhak Rabin, ad opera di un estremista ebreo nel novembre 1995, una parte sempre più influente della dirigenza di Tel Aviv ha optato per la soluzione militare e la cancellazione di ogni futuro diritto per i palestinesi, considerati untermenschen a tutti gli effetti. Oggi, i razzisti che considerano tutti i palestinesi inferiori e terroristi sono al potere, e vi sono rimasti anche dopo la formazione del governo di unità nazionale. Il “diritto alla difesa” è diventato un dogma intoccabile con il quale si può compiere ogni eccesso, ogni brutalità, ogni violazione della legge internazionale. E gli USA non hanno mai avuto il coraggio di censurare questa posizione.

Il governo di Netanyahu, con la contrarietà di diversi intellettuali che, purtroppo, contano molto poco, si arroga il diritto di compiere qualunque azione ritenuta necessaria per la “sicurezza” del Paese. Invece di moderare l’estremismo del governo, gli Stati Uniti hanno subìto una progressiva “israelizzazione” della propria politica estera. Sono stati proprio i cosiddetti neocon statunitensi, coriacei sostenitori dell’aggressività militare di Israele, a teorizzare la realtà unipolare in cui Washington avrebbe trionfalmente imposto la democrazia al mondo, garantendo pace e prosperità a tutti, finalmente liberi, ricchi e felici. Sono così iniziate pericolose avventure militari che hanno martoriato l’Afghanistan, e poi l’Iraq e l’intero Medio Oriente. Non è finita bene, come ben sappiamo. I neocon puntavano anche a far cadere manu militari la teocrazia iraniana, ma poi il piano fu fortunatamente accantonato.

Non si pensi però che il delirio bellicista si sia placato negli Stati Uniti, divenuti sempre più polarizzati e divisi. In un recente articolo su Foreign Affairs Marc Lynch, lo studioso che coniò il termine “primavere arabe” ha chiesto all’amministrazione USA di adoperarsi per salvare Israele da sé stesso ed evitare una nuova invasione di Gaza che, come è avvenuto per l’Iraq, si trasformerebbe in un disastro strategico annunciato. Lynch ha ricordato che «in un ambiente politico surriscaldato le voci più forti negli Stati Uniti sono state quelle di coloro che hanno richiesto misure estreme contro Hamas. In alcuni casi, i commentatori hanno perfino fatto un appello per un’azione militare contro l’Iran, per il suo supposto ruolo nell’azione di Hamas». La guerra contro l’Iran è uno dei temi fissi della politica estera di Tel Aviv, ma l’amministrazione americana si dovrebbe ben guardare dal precipitare il mondo verso un caos difficilmente controllabile.

Se, come sembra, Washington non riuscirà a fermare l’invasione di Gaza si apre uno scenario molto problematico. La messa a ferro e fuoco di Gaza «non solo –continua Lynch- danneggerà la sicurezza a lungo termine di Israele e infliggerà costi umani inimmaginabili ai palestinesi, ma minaccerà anche gli interessi statunitensi in Medio Oriente, in Ucraina, e la competizione di Washington con la Cina sull’Indo-Pacifico». È vero che nel suo discorso dallo Studio Ovale Biden ha dichiarato che non sarà con un massacro indiscriminato che il popolo israeliano otterrà giustizia e che è necessario perseguire un cammino diverso. Molti commentatori hanno giudicato nette e politicamente coraggiose le affermazioni di Biden, ma se gli Stati Uniti vogliono guidare il fronte globale delle democrazie e contrastare il disegno di Cina e Russia di egemonizzare il Sud del mondo non possono schierarsi acriticamente con un governo che dichiara di volersi “vendicare”. Biden non deve “suggerire” ma “ordinare” a Israele, perché ha tutti gli strumenti per farlo, di cambiare atteggiamento e iniziare a percorrere vie diverse da quelle fallimentari e devastanti battute finora. Il presidente USA ha invece intenzione di chiedere al Congresso 100 miliardi di dollari in aiuti: 60 per l’Ucraina e 40 suddivisi tra Israele, le misure di sicurezza al confine col Messico e il sostegno a Taiwan.

Putin e Xi gongolano

L’ebreo Zelensky ha vissuto con drammatico disagio la tragedia dei morti israeliani ma, avendo una buona capacità politica, non ha mancato di percepire che l’oltranzismo di Tel Aviv rischia di innescare uno scontro ulteriore che distrarrà gli USA dal fronte ucraino e fornirà a Mosca e Pechino possibilità inaspettate di presentarsi come paladini dei Paesi poveri che lottano per liberarsi dal sottosviluppo imposto dagli Stati Uniti e dai suoi alleati nelle grandi istituzioni internazionali. Un acuirsi della crisi mediorientale avrebbe un impatto negativo su un’opinione pubblica occidentale che mostra molte crepe nella compattezza al sostegno all’Ucraina, vittima dell’aggressione russa. Le foto delle centinaia o migliaia di morti palestinesi, metterebbero in ombra quelle delle vittime ucraine, proprio nel momento dello stallo dell’offensiva di Kyiv e con l’avvicinarsi dell’inverno. Mosca ha sfrontatamente accusato l’Occidente di usare due pesi e due misure: orrore e riprovazione per le vittime civili ucraine dei bombardamenti russi, ma silenzio totale sulle vittime civili dei bombardamenti israeliani. Mosca si è spinta così in là da paragonare l’assedio a Gaza dell’esercito di Tel Aviv con i 900 giorni di assedio di Leningrado durante la Seconda guerra mondiale, assimilando così le operazioni di Tsahal a quelle dei nazisti.

Il 17 ottobre, nel suo primo viaggio al di fuori dell’ex Unione Sovietica, Putin si è recato in Cina per festeggiare a fianco di Xi Jinping il decennio della Nuova via della seta. La presenza del presidente russo, che sta assumendo sempre di più le sembianze di un socio di minoranza nell’alleanza con Pechino, rinforza l’immagine di Xi Jinping che vede con piacere l’impegno statunitense che si divide tra Ucraina e Medio Oriente e ha sempre meno risorse da dedicare alla questione di Taiwan. Pechino nota anche con molto interesse che le crescenti tensioni mediorientali le consentono di presentare gli Stati Uniti come un fattore di instabilità, mentre la Cina, che ha mediato il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran, contribuisce alla stabilità e alla pace dell’area. La crisi di Gaza crea anche difficoltà al progetto India-Middle East-Europe Economic Corridor (Imec) su cui il premier indiano Narendra Modi ha investito molto, sia in termini finanziari che politici, prendendo posizione per il blocco occidentale contro il “rivale cinese”.

L’anziano Biden dovrebbe smettere di pensare alle prossime elezioni presidenziali e concentrarsi invece nel disinnescare i pericoli insiti nell’invasione di Gaza, ridimensionando drasticamente l’ottuso bellicismo di Tel Aviv. Il 17 ottobre 2023, degli anonimi diplomatici hanno confidato al Financial Times i loro timori sul fatto che l’amministrazione americana e la UE non stanno difendendo con sufficiente fermezza i diritti dei palestinesi e questo rischia di avvelenare le relazioni con il Global South. Il 26 luglio 1956 il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser nazionalizzò il Canale di Suez, gestito dalla Suez Canal Company, controllata da interessi britannici e francesi. Per tutta risposta, il 29 ottobre dello stesso anno le forze congiunte di Gran Bretagna e Francia, a cui si era unito anche Israele, occuparono il canale. Gli USA presentarono una risoluzione all’ONU (fatta anche per contrastare le minacce di intervento da parte dell’Unione Sovietica) che mise ben presto fine alle pretese anglo-franco-israeliane. Quello fu uno dei pochissimi casi in cui gli Stati Uniti, guidati da Dwight D. Eisenhower, il generale che aveva portato le truppe alleate alla vittoria sul nazismo, si opposero alle scelte errate di Israele. Joe Biden deve fare esattamente la stessa cosa, altrimenti rischia di dover rendere conto non solo alla sua coscienza ma alla Storia.

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