Riguardo all’evoluzione urbana, il punto di partenza è sempre il centro: il centro antico col legato delle sue testimonianze e il peso della sua storia. È assunto come luogo di riferimento e deposito dell’identità della città: di contro le periferie risultano sempre confuse e sfilacciate nella poca qualità delle loro edificazioni massificate del secondo dopoguerra, nell’assenza di “carattere”, che è poi come una ripresa speculare del concetto di centro: la periferia per solito non ha luoghi di valore gravitazionale che le rendano cospicue agli occhi dell’urbanistica.

E non hanno servizi, si dice: scuole, ospedali, botteghe commerciali e/o artigianali.

Ma è proprio così? Certo l’immagine della città dormitorio è quella che più diffusamente ha perseguitato la sorte delle periferie degli anni Cinquanta-Sessanta: veramente non-luoghi sconfortanti, specie di accampamenti stabilizzati in murature e lontani dai luoghi delle attività.

Tuttavia le periferie postbelliche hanno ottenuto anche risultati egregi legati al fatto che vi sono cresciute generazioni di persone che hanno innervato con la loro azione la vita urbana. Le autentiche periferie postbelliche sono composte da edifici inseriti in contesti in parte ancora agresti, dove arrivavano le greggi coi pastori in inverno e si sentivano le cornamuse attorno a Natale.

Le ha cantate Adriano Celentano con la sua via Gluck: “là dove c’era l’erba, ora c’è una città”. Perché la periferia, addensandosi di fabbricati ha perso via via le proprie caratteristiche importanti: di essere luogo delle possibilità, aperto al divenire. A differenza del centro, tendenzialmente musealizzato in una fissitudine temporale che via via si è andata sempre più appesantendo.

Per esempio: nel secondo dopoguerra ancora in zone centrali di Milano v’erano edifici di stampo popolare, a basso prezzo. Col concentrarsi delle attività bancarie, finanziarie, commerciali e le relative ristrutturazioni tese a valorizzare gli edifici esistenti, la gentrificazione ha espulso quanto puzzava di povertà, relegando questa solo sui marciapiedi dove resiste ancora qualche mendicante accampato in rifugi di cartone, la cui provvisorietà difficilmente riuscirà a resistere all’incedere di plutocrazie e turisticrazie.

Le periferie avevano capannoni misteriosi da cui emergevano rumori di martelli, stantuffi, stridori di catene che accompagnavano le giornate come in un sottofondo ritmico che parlava di attività, di lavoro, di impegno. Non si può dire che fossero belli: ma erano vivi. Ora a volte sono stati a loro volta musealizzati quali residui di una civiltà industriale tramontata. E pian piano le periferia è andata assomigliando al centro. Nella logica che sempre ha accompagnato l’espansione urbana, i valori immobiliari sono cresciuti e quelle che erano case popolari, divenute di proprietà, hanno assunto il pregio di essere contigue a zone divenute parco da prati incolti che erano, e questo conferisce loro un valore notevole nell’epoca della dilagante cementificazione.

Così è sorta la prospettiva della città policentrica: le periferie, cresciute, si sono dotate di servizi e sono divenute arcipelaghi gravitanti ancora attorno al centro storico-museo, ma ciascuna di esse ha acquisito momenti di centralità che ne confermano la dignità di luogo.

Eccetto che in questo hanno perso quanto di bello prima si nascondeva nella arruffata confusione di edifici perduti tra prati e capannoni e strade sterrate: la potenzialità del divenire, la fascinazione di ambiti da scoprire in cui i ragazzini potevano giocare immaginandosi mondi inesistenti ma realizzabili, magari accatastando sassi e mattoni e sterpaglie.

Dove tutto è già fatto, nulla resta più da fare e allora non c’è più stimolo a creare. Il fatto è stato notato da alcuni ragazzi intervistati nell’ambito delle ricerche svolte dal G 124 attivato da Renzo Piano proprio per studiare le periferie e scovarvi potenzialità attuali: ai giovani di periferia piaceva quel territorio in cui correre, trovare tane ove nascondersi, giocare a guardie e ladri, immaginarsi un futuro. Non gli piaceva il centro, troppo lindo e igienizzato, troppo inamidato e fermo: musealizzato, appunto.

Com’è noto, il turismo urbano cresciuto esponenzialmente nei primi lustri del XXI secolo ha accentuato la muealizzazione dei centri e anche di brani di periferie, o ex periferie dove sono sorti edifici emblematici “firmati”, quali il Progetto Bicocca a Milano, la chiesa Dio Padre Misericordioso a Tor Tre Teste a Roma, il nuovo Lingotto a Torino.

Resta la nostalgia per le periferie postbelliche, dove c’era il popolo e c’erano spazi aperti e prati e magazzini attivi o capannoni abbandonati.

Allora perché non cercare di invertire il processo? Perché, invece di rendere nuove centralità al contorno urbano, non periferizzare il centro? Recuperare ambiti dove possano crescere cespugli e giocare i ragazzini dove ora c’è il museo urbano? Trasformare in strutture permeabili e non chiuse i tanti spazi che ancora esistono e non sono utilizzati da alcuno: non costurirci qualcosa ma lasciarli al deperimento dettato dal tempo, però aprendoli alle trasformazioni che giovani graffitari o aspiranti teatranti vorranno apportarvi? Perché invece di pedonalizzare soltanto alcune vie urbane, non pratizzarle e invitarvi i pochi pastori rimasti a portarvi a passeggiare qualche pecora sopravvissuta?

Dopo l’esperienza del lockdown pandemico che ha svuotato e reso fantasmi le strade dei centri storici o neonati, sarebbe un modo per iniettare nuova vita autoctona e non fondata sull’artificio della transumanza turistica degli city users.

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