Libertà! Proclamavano le insegne che garrivano alte sopra le teste nella manifestazione inscenata il 21 ottobre 2017: la richiesta si riferiva ai due leader indipendentisti Jordi Sánchez e Jordi Cuixart arrestati qualche giorno prima per attività sovversiva.

Ma più in generale si riferiva all’ondata dominante in Catalogna dal 1 ottobre 2017, giorno in cui si svolse lo pseudoreferendum per l’indipendenza di quella regione spagnola.

Anche il 1 ottobre nelle varie manifestazioni di pazza comparvero cartelli inneggianti alla libertà, a volte in inglese: freedom! A uso e consumo degli spettatori stranieri. Evidente infatti era sia nei leader di quelle manifestazioni, sia nel popolo congregato per le strade, l’affanno di ottenere il supporto estero per le loro richieste. L’implicazione: la Spagna ci opprime, da fuori ci aiuteranno. Come fecero le brigate internazionali durante la guerra civile del 1936-39, forse qualcuno avrà pensato.

Libertà dunque: richiesta universale che richiama un diritto fondamentale dell’essere umano. Un diritto che si riferisce alla dignità delle persone, e alla dignità delle istituzioni comunitarie che le rappresentano.

Solo che profferita in quel contesto catalano la parola lascia l’amaro in bocca. Anzi, provoca un conato di revulsione: libertà da che cosa?

Freiheit! gridarono i ragazzi della Rosa Bianca quando si opposero tra il 1942 e il 1943 al regime hitleriano, e furono da quel regime assassinati. Libertà gridavano i partigiani che si sollevarono contro la cosiddetta repubblica di Salò in Italia e contro l’occupazione nazista, in Italia come in Francia. Libertà gridò Alexander Dubček in Cecoslovacchia nel ’68; e così Aleksandr Isaevic Solgenitsin e i tanti dissidenti del regime sovietico. Libertà gridavano i cinesi che dagli anni Trenta del ‘900 si opposero all’invasione giapponese.  Libertà contro l’occupazione straniera, contro l’imposizione di regimi non voluti, contro l’obbligo di pensarla in un certo modo e non in altro, contro i privilegi di alcuni, su base razziale o ideologica, libertà di possedere cose proprie.

Ma i catalani che razza di libertà vogliono? Hanno elezioni, libertà di stampa, libertà di pensiero, libertà di insegnamento, libertà di circolazione delle persone e dei capitali, di lingua, di cultura, di proprietà personale. Uno dei cartelli sventolanti il primo ottobre proclamava: “Ci rubano 60 milioni di euro al giorno. Indipendenza = necessità”: ovvero, l’accusa è che lo Stato centrale spagnolo sottragga ogni anno circa 22 miliardi di euro alla regione catalana.

La quale effettivamente è una contributrice netta allo Stato centrale: ma non è l’unica né quella che apporta di più. Infatti la provincia autonoma di Madrid è quella che dà l’apporto maggiore allo Stato centrale (consistente nel 9,5 percento del suo Pil corrispondente a circa 19 miliardi di euro l’anno), seguita dalle Baleari che apportano il 5 percento del loro Pil (corrispondente a circa 1,33 miliardi di euro l’anno): la Catalogna viene terza, e apporta il 3,75 percento del suo Pil (corrispondente a circa 7,5 miliardi l’anno).

Ovvero, le ondate di popolo che hanno riempito le piazze barcellonesi per sostenere l’assurda pretesa di indipendenza della Catalogna si sono mobilitate per cause menzognere. E hanno agitato il vessillo della libertà, richiesta alta e nobile laddove questa effettivamente manchi; ma squallida e volgare nelle condizioni attuali della Catalogna, regione ricca e già totalmente libera.  L’unica libertà che sembra mancare ancora, almeno in parte, in Catalogna è quella di opprimere i non catalani.

Eppure vi sono migliaia di cittadini catalani, e di intellettuali che si uniscono attorno a quel vessillo. Che cosa può portare persone presumibilmente non prive di intelligenza, nonché di possibilità di informarsi sulla veridicità degli asserti sventolati, a compiere azioni così palesemente prive di senso?

Non siamo in grado di rispondere a una tale domanda, ma desideriamo tentare alcune ipotesi.

Anzitutto: in Catalogna si è generata negli ultimi trent’anni una cultura di appartenere a una comunità di “diversi”: con la democrazia, dopo la caduta del regime franchista, il catalano è insegnato nelle scuole come prima lingua e tutte le altre lingue, a partire dallo spagnolo, sono insegnate come lingue straniere. La lingua è il veicolo primo dell’identità: ecco che attraverso il catalano si coltiva l’idea che i catalani sono diversi dagli spagnoli. E ovviamente questo è inteso come sentirsi migliori. A questo sentimento si associa l’idea di essere sfruttati: “noi siamo i ricchi, quelli che lavorano, e loro sono i poveri, quelli che campano alle nostre spalle”. Anche se nel caso catalano l’asserto è fasullo (v. supra), è facile farlo credere.

L’era delle grandi ideologie, ovvero dei sistemi di pensiero che inquadrano in un sistema coerente tutta la realtà, è caduta, ma le persone hanno comunque bisogno di sentirsi idealmente vincolati a qualcosa che dia un senso alla vita. Riferirsi alla piccola comunità locale è quanto di più immediato e spontaneo: il bambino si concepisce come il centro del mondo, e lo stesso fa chi il mondo non conosce, o non vuol conoscere.

Le élite catalane hanno un’antica tradizione di aspirazione all’indipendenza, e a questa tradizione oggi si somma la corruzione che sembra faccia apparire, ai governanti locali, più semplice sottrarre denari pubblici quanto meno vi sono controlli esterni sul proprio operato.

Viviamo nella società dello spettacolo. Questo si fonda sulla ricerca di emozioni, in un mondo che è diventato piuttosto asettico. Un tempo gli hippies a coloro che si ponevano con atteggiamento di violenza (vedi la guerra in Vietnam), proponevano piuttosto di dedicarsi a fare l’amore. Oggi anche fare l’amore è un fatto abbastanza scontato, frustrazioni personali a parte: la repressione sessuale è stata piuttosto superata. Ecco dunque che imbarcarsi sull’ondata emotiva del localismo sopperisce alla carenza di strutture ideologiche di riferimento e consente di ritagliarsi un proprio film, in cui immaginarsi come protagonisti: questo vale anzitutto per i “leader” del movimento catalanista, ma vale anche per i seguaci che scendono in piazza a vivere il brivido dello scontro col potere esterno e cattivo

Se in tutto questo giochi anche la percezione della minaccia esterna intesa come arrivo di immigranti che sottraggono ricchezze agli autoctoni, è difficile a dirsi. Sembrerebbe infatti che in Catalogna sia stato favorito l’afflusso di persone dal nord Africa, in particolare dal Marocco, per contrastare l’afflusso di immigrati dall’America Latina. Questo, se tale fosse il caso, deriverebbe dal fatto che i latinos parlano spagnolo e sono restii ad apprendere il catalano, mentre ai nordafricani, che devono apprendere la lingua locale ex novo, spagnolo o catalano non fan differenza.

Il globalismo è percepito da molti come una minaccia e gli Stati nazionali sono percepiti come mediatori di tale globalismo: il localismo giunge pertanto come risposta difensiva. Tale fenomeno è oggi piuttosto diffuso e deriva soprattutto dal fatto che sinora i governi nazionali e gli organismi sovranazionali non sono stati veramente in grado di porsi come strumenti capaci di difendere le classi medie sempre più schiacciate dalla crisi economica; ovvero dal fatto che le istituzioni statali esistenti non hanno trovato la capacità di porsi come garanti di giustizia sul piano economico a fronte dell’invadenza della speculazione internazionale

Questo è un problema generale. Se gli Stati nazionali e gli organismi sovranazionali non sapranno trovare una risposta adeguata alla difesa delle popolazioni dalle speculazioni, con tutta la loro ottusità, problemi come quelli catalano non potranno che continuare.

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