Segue da Antonio Sant’Elia, cent’anni dalla morte. | Parte Prima

Cento anni fa, il 10 Ottobre 1916, morì un grande architetto del Futurismo italiano Antonio Sant’Elia e la Città Futura nei suoi posteri (architetti, cineasti, fumettisti)

Un doveroso omaggio al prematuramente scomparso a 28 anni, ucciso in battaglia durante la Grande Guerra, protagonista della Città (e Architettura) Nuova, in una intervista di Giorgio Casati a Corrado Gavinelli.

 

Casati – Bruno Zevi sostiene che, confrontando il Messaggio scritto interamente da Sant’Elia e il Manifesto appena successivo, si possono rilevare differenze e alterazioni piuttosto vistose; ad esempio l’inizio “Io combatto e disprezzo: tutta la pseudo architettura d’avanguardia” non esiste nel Messaggio, aggiunto evidentemente per il Manifesto. Ciò perché gli stilemi e la grafia santeliani si rifanno alla scuola viennese di Otto Wagner e Adolf Loos? O perché derivati dalla scuola dei costruttivisti russi, Tatlin, Ladowski, Tskernikov, i quali svilupparono arditi progetti di costruzioni, anche in perenne rotazione, quali quello per il “Palazzo della III Internazionale” a Mosca?

Gavinelli – Che le discrepanze contenutistiche tra Messagio e Manifesto siano evidenti e contraddittorie è un fatto scontato, poichè i due testi costituiscono proclamazioni distinte pubblicate contemporaneamente nello stesso anno 1914 ma stese in condizioni diverse: con intenti e indirizzamento separati (il primo per la presentazione delle opere esposte alla Mostra Collettiva del Gruppo milanese Nuove Tendenze, e il secondo comportando lo specifico programma architettonico esplicitamente futurista). E quindi la loro differenza non deve stupire più di tanto, perchè è stata elaborata e trasformata per condizioni di comunicazione disgiunte. Che il focoso Zevi abbia riportato quella osservazione, può riferire soltanto della sua concezione – anche sostenuta da altri critici più specificamente santeliani – di una conferma implicita (sebbene nascosta) dell’ingerenza marinettiana nella stesura del testo di Sant’Elia (terminologie linguistiche comprese) con diversità riconoscibili apportate contingentemente per la stesura del Manifesto della Architettura Futurista (proprio nel senso più esplicito che io ho riferito con le mie osservazioni esposte nella Introduzione a questa Intervista) [Vedere la Parte Prima].

Ma l’affermazione di Zevi non giustifica alcuna deduzione apocalittica nella modalità espressiva di Sant’Elia; che, ovviamente, passando dal precedente linguaggio (quello architettonico, intendo) di routine floreal-liberty del 1908-12 (si vedano come elaborati esemplificativi i disegni per il Comune di Milano del 1908-09, la proposta di Decorazione per Facciata del 1911 e il Chiosco del 1912 – straordinaria versione secessionistica nostrana – nonchè la già citata sua Villa Elisi di questo ultimo medesimo anno) [Figure 39 e 40; e 9 della Parte Prima] all’immediatamente successivo repertorio comunicativo di sconvolgente matrice modernistica, ha dovuto ovviamente rinnegare il passato (anche recente, proprio e internazionale) per abbracciare il nuovo pensiero di tendenza futuristica, in maniera completamente alternativa alla architettura storica e corrente, e rivolto ad un futuro progettuale del tutto diverso dal passato: originale nelle forme, e nuovo nei contenuti.

Anche perchè, nella sostanza, entrambi gli scritti di Sant’Elia – sempre come ho evidenziato nel mio saggio introduttivo – l’interferenza di Marinetti è decisamente ipotizzabile, per non dire effettivamente riscontrabile (se non addirittura evidente e riconoscibile: forse non nelle parole specifiche, ma comunque nel tono degli scritti!).

Nella possibilità, poi, che nel cambiamento di linguaggio (scritto e grafico) di Sant’Elia possano essere intervenuti anche certi modi di mutamento formale ritrovabili nella cultura innovativa della fase epocale in cui l’architetto comasco si ritrovava (Secessionismo austriaco, ma anche Liberty italiano: e secondo me del Sommaruga più di altri) è indiscutibile (e rinvenibile nelle opere santeliane di quel periodo); ma – ripeto – quella sua drastica trasformazione futuristica è sorprendente, e può avere una giustificazione plausibile soltanto nella influenza convincente di un riscontro esterno (quello di Marinetti).

Nel proprio impegnato ed ampio (quasi 300 disegni) lavoro di passaggio dalla architettura consueta a quella rivolta al futuro tra il 1912 ed il 1913, si assiste – come ho detto – ad una forsennata operazione di grande semplificazione delle immagini architettoniche, rivolte di più alla costruttività che non all’ornamento, alle masse volumetriche invece che alle aggiunte decorative [Figure 41 e 42].

Riguardo poi alla esplicita vicinanza di Sant’Elia ad altri autori dell’Avanguardia europea, una corrispondenza può riscontrarsi solamennte nella ricerca di forme edilizie nuove e di loro innovazione d’uso: ed una affinità concettuale nei confronti dei Costruttivisti, particolarmente, perchè l’italiano sosteneva anch’egli, come loro, idee rivoluzionarie. Ma dai Russi (e poi Sovietici) Antonio era alquanto estraneo, idealmente e nell’ideologia; ed anche distante per datazioni (ed al contrario, più avanti analizzerò invece i riferimenti che le Avanguardie moderne hanno rivolto all’isolato progettista comasco).

Perchè Sant’Elia era espressamente futurista (nel senso di ritrovarsi rivolto – perchè coinvolto e poi convinto, nel breve periodo di un biennio – alla concezione del Futurismo come tendenza culturale), e proteso verso una architettura distinta da tutte le altre, vecchie e attuali: era sostenitore di una nuova edilizia tecnica, di imponente immagine costruttiva concessa con i nuovi materiali costruttivi, da realizare nell’immediato futuro del progresso tecnologico; ed era tipicamente marinettiano nelle considerazioni artistiche, e quindi estraneo alle altre tendenze sue contemporanee.

Diventato anti-secessionista (nei suoi innovativi messaggi futuristici, che inevitabilmente  annullavano i precedenti lavori liberty), lontano dal Costruttivismo che allora era appena sorto (nel 1913, divulgato dalle opere artistiche di Vladimir Tatlin dall’anno successivo, e in quella annata medesima propagato vagamente col Suprematismo di Malevic), e distinto anche dagli altri progettisti d’avanguardia che stavano distaccandosi dalla tradizione edilizia consueta o trascorsa (l’elementarismo cubico di Loos della Casa Steiner del 1910, o l’iniziale funzionalismo scatolare del primo Gropius ritrovabile nella Fabbrica Fagus del 1910/11-13) [Figura 43].

Tutti i restanti protagonisti dell’avanguardia moderna erano anch’essi ancòra da apparire sull’orizzonte della nuova architettura, perchè affermatisi dal 1917: a cominciare dal Neo-Plasticismo di quell’anno stesso, e quindi procedendo con gli altri Ismi moderni successivi, comprendenti la ascendente Bauhaus inaugurata nel 1919, il Purismo di Le Corbusier cominciato l’annata dopo, i Costruttivismi consueti o bolscevichi di Tatlin o Rodcenko anch’essi del 1920-22 o immediatamente posteriori.

In questo senso Sant’Elia era un isolato, ma anche un interprete unico del nuovo movimento moderno, senza particolari ispiratori coevi e libero nella propria specifica interpretazione della nuova progettualità (improvvisamente sorta dall’esigenza endogena di rinnovare il repertorio progettual-costruttivo della architettura, oppure in corrispondenza alle nuove istanze socio culturali dei suoi amici artisti ed architetti aderenti al Futurismo, o nel colloquio fulminante di cui ho variamente riferito – tipicamente futuristicheggiante – con Marinetti).

Forse soltanto Malevic, ed il suo Suprematismo (concepito anch’esso tra 1913 e 1914), gli erano analoghi come spirito di estremistico ribaltamento estetico, ma differenti sempre nella formulazione espressiva (e soprattutto nella concezione architettonica): le planite maleviciane – sorta di sintesi plastica di disegno, scultura, e architettura – sono comunque più tarde (del 1916 consistono le prime composizioni grafiche di solidi volumetrici, mentre i primi modelli plastici risalgono al 1922-23), e denotate da una rigida composizione schematica e di stereometrico geometrismo moltiplicato.

Dunque il comasco Antonio può essere considerato il primo, e l’unico, iniziale inventore, ed espositore, della modernità architettonica industriale del XX secolo nella sua autenticità tecnologico-costruttiva! Ad esclusione soltanto – volendo considerare meglio gli aspetti corrispondenti di progettualità nuova in quel momento epocale, e con più pignoleria analitica – di due altri grandi protagonisti, altrettanto solitari, del primo Novecento: il già ricordato urbanista Tony Garnier, estensore della sua incredibile Città Industriale per Lione nel 1900-1904 (che nel 1905 aveva iniziato a costruire le prime sue architetture grandiose, come il formidabile Macello) da cui Sant’Elia riprende la novità delle forme plasmabili coi nuovi materiali costruttivi e la imponenza degli impianti industriali (dighe, centrali elettriche ed impianti energetici artificiali, fabbriche) [Figura 44], e il parigino architetto Henri Sauvage, esecutore arguto della prima serie di Case a Gradoni (che possono avere influenzato il progettista futurista nella loro forma espressamente digradante), particolarmente nella sorprendente, e cosiddetta, Residenza Sportiva (perchè contenente anche una piscina interna), rivestita di ceramica smaltata, edificata in Rue Vauvin a Parigi nel 191214 [Figura 45].

E a proposito di questo insolito sistema edilizio terrazzato, ritengo interessante aggiungere che tale criterio progettuale di costruzioni su gradonature sfalsate non è – come si tende a credere – una geniale invenzione dell’architetto francese, bensì comporta la sua derivazione da una serie di ricerche (particolarmente medico-sanitarie applicate soprattutto agli ospedali elioterapici, i cosiddetti Sanatori Antibubercolari), che necessitavano di ricevere omogeneamente la medesima quantità di soleggiamento ad ogni livello di quota dell’edificio, senza ombreggiature reciproche. L’inventore di questa tipologia è stato il medico francese David Sarason, che – durante il XIVesimo Congresso di Igiene e Demografia tenuto a Berlino nel 1907 – ne presentò un didattico spaccato illustrativo (del tutto analogo a quello poi impiegato nelle residenze parigine sauvagiane e nei caseggiati della Città Nuova santeliana) [Figura 46]; di cui uno degli esemplari eseguiti più riusciti all’epoca – della prima metà del Novecento: entusiasticamente ritenuto un risultato “spettacolare” – è stato l’Istituto Elioterapico a Vallauris edificato nel 1932-35 dall’architetto Pierre Souzy.

Ma se, a proposito delle influenze possibili sulle concezioni urbanistiche della Città Nuova pervenute a Sant’Elia da progetti di utopia di città del futuro come poco prima ho ricordato, sicuramente prodotti da altri architetti impegnati in una drastica innovazione urbana o rivolti a più suggestive visioni inventive di illustratori intraprendenti, è invece opportuno ricordare che nella storia della produzione architettonica del Novecento risulta esattamente anche l’opposto: perchè è avvenuto molto di più che le immagini santeliane abbiano effettivamente influenzato, morfo-architettonicamente perfino, diverse elaborazioni urbane successive, possibili o visionarie: disciplinari, filmiche, e addirittura nei fumetti.

E per quanto questo fenomeno possa condurre anch’esso piuttosto lontano dalla specificità del lavoro di Sant’Elia di cui stiamo conversando, una analisi maggiormente approfondita di tale situazione nella propria sua specificità tipica risulta tuttavia opportuna e davvero interessante, perchè utile a comprendere la varietà delle connessioni che nel Futuro immaginato dall’architetto comasco è stata capace di sviluppare la vasta proposizione ideal-utopica dei suoi successori mondiali, cui va il merito di essere riusciti a captare le più diversificate suggestioni delle concezioni santeliane!

Tra i casi maggiormente risaltanti, nel settore architettonico urbanistico si devono considerare innanzitutto gli altri progettisti futuristi contemporanei o successivi, che nella sostanza (quasi similmente o comunque con diversificazione personalizzata) hanno dovuto sostanzialmente seguire le indicazioni del loro iniziatore; ma sono da inserire in questo contesto di ripresa anche protagonisti importanti di altre tendenze avanguardistiche, di cui l’espressionista Erich Mendelsoh oppure il costruttivista Iacov Cernicov (o come altrimenti viene scritto molteplicemente, a seconda delle versioni linguistiche nazionali) costituiscono due eminenti esempi.

Tra i Futuristi, soprattutto per l’espressione dinamica e pluralmente articolata di una città inesistente da attuare, si ritrovano Mario Chiattone (amico e iniziale collaboratore professionale di Sant’Elia), Virgilio Marchi, Tullio Crali (nonchè più marginalmente Italo Minos-Spiri e tardivamente Quirino De Giorgio): il primo per i suoi grandiosi organismi urbani tipicamente simili alle opere santeliane ma anche personalizzati (come i famosi disegni, alcuni cromatizzati, dei Caseggiati Multipiani con Ponte del 1914, ed il più meticolosamente articolato, ad esso coevo, Costruzioni per una Metropoli Moderna) [Figura 47]; il secondo per le fantasiose Città del 1919, particolarmente analoghe a nevrotiche costruzioni espressionistiche con inflessioni di suggestione gotica modernizzata nelle arcature a punta di sostegno [Figure 48]; il terzo per i compositi organismi urbani e le plastiche architetture più eterogeneamente – in curvature e diagonalizzazioni – definite (la Stazione per Aeroporto Urbano del 1931, a strade sovrapposte non interferenti; e il bombato Palazzo delle Scienze dell’anno prima) [Figura 49]; quindi il quarto – di talentuosità più ridotta rispetto agli altri – per l’isolato progetto di Città Unica a Linee Continue del 1934, elaborato per visualizzare il suggestivo aspetto formale della aero-architettura descritto nel manifesto di Angiolo Mazzoni e Mino Somenzi composto anche con Marinetti, ultima concezione urbana di attardata sintesi grafica santeliana e dell’industrialismo lombardo [Figura 50]; e dunque il restante autore riportato per ultimo, più che altro breve partecipante – nel 1930-32 – alla stagione roboante del Secondo Futurismo (di cui sono particolari i diagonalmente disegnati monumenti pubblici e soprattutto la Metropolis del 1931) [Figura 51].

Per gli architetti stranieri, invece, del lavoro mendelsohniano tratterò più avanti, mentre con le fantasiose (e per questo anche fantastiche) immagini urbane cernicovesi, è inevitabile non soffermarsi maggiormente, e riferirsi certamente, ai suoi disegni costruttivistici degli Anni Venti e Trenta del Novecento, più vicini alle immagini tipiche del Futurismo di Sant’Elia (eseguiti tra 1925 e 1933, e dai quali spiccano le tavole – impressionantemente analoghe ai lavori del comasco – delle Metropoli del 1930, ed in particolare la Costruzione di Forme Architettoniche e Meccaniche del 1931 insieme alla Composizione leningradese – tipologia di fabbrica – del 1933) [Figura 52].

Ma sempre di Cernicov non si possono trascurare anche alcuni elaborati successivi di connotazione altrettanto futuristica ma di estrema e delirante fantasia personale – come sono stati chiamati i disegni, non più avanguardistici o costruttivistici bensì d’era stalinista, delle Nostalgie per le Futuribilità, composti dal 1942 al 1948 (e tra cui impressionanti – per un decadentismo perfino inquietantemente fisico, con strane forme di vago aspetto orientaleggiante, si mostrano particolarmernte retoriche e sconvolgenti le tavole dei Palazzi del Comunismo, eseguite per un immenso Pantheon degli Eroi Patriotici, insieme edilizio monumentalistico ma non espressamente di regime) [Figura 53].

Venendo finalmente a Mendelsohn, progettista di particolare passione zeviana, è anche quasi inutile ritornare sulle sue evidenti similarità grafiche – addirittura nel marcato segno disegnativo, spesso e schematizzato, veloce e dinamico – degli schizzi del secondo decennio del Novecento, tra 1914/15 e 1918, tracciati autonomamente – credo – dagli elaborati di Sant’Elia. Una circostanza davvero stupefacente, che unisce due personalità, distanti e concettualmente differenti, in una quasi identica reciprocità formale nella rappresentazione espressiva delle immagini visive (di cui esistono due loro disegni, di volumetria prevalentemente cubica – lo schizzo mendelsohniano per un Edificio Pubblico del 1917, e il progetto santeliano per Villa, generalmente datato al 1909-10 ma secondo me appartenente alle due annate successive, 1911-12 – il cui confronto figurativo è impressionante per la loro similarità formale) [Figure 54 e 55]. E non si può così non restare esterrefatti davanti al sorprendente accostamento degli abbozzi rapidamente improvvisati di questi due architetti nelle loro personalità disegnanti; e non vedere la caratterizzazione grafica di Sant’Elia nelle più tipiche raffigurazioni di Medelsohn, di ogni genere tipologico: tanto nella definizione schematica (quale si riceve dalla grandiosa Fabbrica, del 1914 anch’essa) quanto nelle corrispondenze di maggiore referenza (osservabili nei diversi Edifici Industriali, tutti del 1917, appartenenti agli Schizzi del Fronte Russo [Figura 56]; tra cui quello a corpo parallelepipedico ed angolo cilindrico è un prototipo morfologico ritrovabile nei progetti maturi – della seconda metà degli Anni Venti – dell’architetto tedesco (dei quali si pone del tutto sintomatica la Fabbrica Tessile Bandiera Rossa a Leningrado – per altro unico edificio mendelsohniano costruito in terra russa – disegnata nel 1925 e costruita nei due anni successivi).

Oltre ai due progettisti russo e tedesco, sono però piuttosto pochi – per non dire inesistenti – gli altri esecutori interbellici di progetti avanguardistici da riuscire a ritrovare nelle loro effettive somiglianze con i lavori dell’architetto comasco.

Invece, come ho affermato, più dei progettisti (pianificatori urbani o architetti) imitatori o derivatori di Sant’Elia, si devono includere i disegnatori di soggetti futur-urbanistici in discipline estranee alla professione edile; e primi tra tutti riconoscere i cineasti, di cui perentoriamente rappresentativo ed esemplare è l’austro-tedesco Fritz Lang, regista impareggiabile del famosissimo film Metropolis, uscito nel 1927. Direttore filmico e saltuariamente anche attore, egli ha ricordato in una intervista che quel suo capolavoro cinematografico aveva forti suggestioni con l’architettura moderna dell’epoca, essendo nato dal primo impatto visivo avuto davanti ai grattacieli neyorkesi “nell’Ottobre del 1924”, ma che era anche improntato – nelle realizzazioni dei suoi modellisti per le scene finte delle riprese in miniatura – su immagini “grattacielari riflettenti tanto l’estetica della Bauhaus” “quanto le idee della avanzante Arte Déco” (nella specifica influenza bauhausiana, si tratta dei disegni per “una torre quasi completamente in vetro” ripresa dalla “immagine concettuale di Mies”: sono senza dubbio i due Edifici Alti per Uffici – altrimenti conosciuti quali Grattacieli di Vetro – progettati per Berlino nel 1921; rispettivamente uno a pareti esterne appuntite da erigersi sulla Via Friedrich, e l’altro con pareti ondulate) [Figure 57 e 58].

A guardare bene tuttavia, dalle immagini cinematografiche effettuate (ma anche dagli stessi abbozzi preparatori, e perfino negli apparati scenici approntati), quelle  perentorie indicazioni del regista non corrispondono del tutto alla realtà delle immagini filmate: che si rivelano maggiormente riferite, certamente di più, ad una Art Déco elaborata ed appesantita, ed invece magari avvicinabili ad altre proposizioni grattacielari tedesche, quelle di Ugo Häring (disegnate nel medesimo anno, e sempre per la Stazione sulla Via Friedrich) [Figure 59 e 60]; e comunque per nulla paragonabili – se non forzatamente – ai progetti miesiani citati.

Ad ogni modo, è per ottenere i migliori risultati ed i più efficaci riscontri scenici che  l’ambizioso Lang utilizzò i maggiormente quotati sceneggiatori dell’epoca, e particolarmente “il più importante artista della storia arcaica del cinema germanico”, Erich Kettelhut: un rinomato Scenografo di Produzione, tedesco, direttore artistico e definitore scenico, che insieme ad altri noti professionisti filmici (quali Otto Hunte e Karl Vollbrecht, già collaboratori di Lang in altri lavori come il Dottor Mabuse del 1922 ed I Nibelunghi di 2 anni dopo) portò a compimento la colossale impresa tecnologico-inventiva del capolavoro langano [Figura 61].

Che però assunse condizioni costruttive meno colossali e babeliche, per l’intervento di altri partecipanti alla definizione delle scenografie di Lang (i quali portarono le costruzioni finte per le riprese filmiche a quegli aspetti santeliani che poi al cinema si sono viste): secondo quanto lo stesso Hunte ha raccontato, il disegno del panorama urbano di Metropolis venne dato a Vollbrecht e Kettelhut, ma quest’ultimo fu anche incaricato della direzione artistica delle riprese cinematografiche (per cui si assunse anche il còmpito di consulente tecnico per gli effetti speciali), che dovette però adeguare molto alla sceneggiatura generale affidata alla stessa scrittrice della omonima novella da cui venne tratto il film, Thea Von Harbou (che ne rese la versione formalmente più alleggerita e di immagine industrialisticamente tecnologizzata).

Sappiamo della durata esatta del lavoro cinematografico dalla testimonianza dell’Assistente alla Produzione Rudi George (“Le riprese di Metropolis” procedettero dal “22 Maggio del 1925 al 30 Ottobre del 1926”), comportando un immane operazione organizzativa e realizzativa per la definizione complessiva delle scenografie volute; che, inizialmente partita da generiche e massicce morfologie urbane (quali sono i bozzetti kettelhutiani del 1925, Paesaggio Urbano e Città dei Figli), sono pervenute – ripeto – a quelle meravigliose vedute urbane e ai loro scorci costruttivi osservati nel filmato, davvero simili all’idea urbanistica di Sant’Elia (e in certi casi alle figurazioni stesse del comasco, particolarmente negli scorci di alcune sistemazioni infrastrutturali dei percorsi sovrapposti senza interferenze per ogni veicolazione) [Figure 62 e 63].

E però, stranamente, per questo filmato l’architetto comasco non viene ricordato come effettivo suggeritore – per quanto  indiretto – delle visioni sceniche prodotte dal regista tedesco. La motivazione di tale non-citazione non possiede una ragione chiara e nota, ma non comporta comunque una omissione voluta, perchè certamente è dipesa dalla ormai lontana rinomanza del lavoro santeliano (apparso da un decennio prima) e da una endogena futurizzazione (di marca espressiva più avanzata) ricavata dalle proposte visionarie più recenti, in quell’epoca diffuse periodicamente a riguardo delle metropoli del futuro, riportate dalle riviste soprattutto statunitensi, e ricalcate su varie immagini di esteriorità estetica prevalenti in quegli anni, durante i quali imperversava maggiormente lo stile déco (e le cui raffigurazioni sono state infatti predilette – in particolare quelle del grafico Heinz Schulz-Neudmann – nella realizzazione dei primi manifesti pubblicitari annuncianti le proiezioni nelle sale già dal 1926) [Figura 64].

Eppure Sant’Elia, per quanto dimenticato epocalmente (tanto dalla cultura successiva dei prodotti di massa quanto dall’affermato avanguardismo internazionale), tornava redivivo – sempre indirettamente – nelle immagini cinematografiche degli Anni Trenta appena successive al capolavoro di Lang (prima fra tutte le formidabili riprese di infilata prospettica disegnate dallo scenografo statunitense Stephen Goosson per il filmato-musicale di David Butler Just Imagine del 1930, rappresentante la prevista “New York degli Anni 80” o addirittura “i prodigi” urbani “del 2000”) [Figura 65]; e perfino occhieggiava nelle ulteriori figurazioni fantasticheggianti più variegate degli illustratori del periodo (quelle maggiormente analoghe di Francisco Mujica per La Città del Futuro del 1929) [Figura 66] nonché nelle rappresentazioni di tradizione divulgativa (come si configura la Città di Domani del 1939 popolarmente visualizzata dall’illustratore statunitense Julian Krupa, ovvero la avveniristica Visione di Città Futura di Sydney Oxberry del 1933 adattata ad un panorama urbano noto, e newyorkese, poderosamente trasformato), con strabiliante inevitabilità di corrispondenza santeliana [Figure 67 e 68].

Intermediamente alla visionarietà di architetti e cineasti, si insinua poi anche la narrativa favolistica, e fanta-scientifica, dei fumetti, della quale i cicli popolar-eroici di Superman sono diventati i referenti maggiori di questo genere inventivo condotto all’assurdo delle possibilità reali; che però, al contrario degli altri generi disciplinari, mostrano uno scarso interesse grafico-figurativo verso la suggestione fisica della Città Nuova santeliana, propendendosi per una ripresa futuristica morfologicamente ridotta, adagiata sulla ormai affermata condizione espressiva dell’Arte Déco o rivolta  ad altre immagini variamente scelte, a seconda delle situazioni delle annate di edizione oppure basate su rappresentazioni convenzionali non necessariamente avveniristiche.

La prima rappresentazione della metropoli supermaniana (la quale per altro viene chiamata – con curiosa coincidenza – proprio Metropolis come nel film di Lang di un decennio prima) è genericamente raffigurata, e con prevalenza, nell’aspetto scialbo (e neppure tanto elaborato formalmente) dei grattacieli squadrati e parallelepipedici dell’International Style di allora, che ormai aveva soppiantato l’art-décoismo appena precedente [Figura 69 e 70]. Non a caso, l’immagine della città déco viene riportata (unicamente, e poi scomparendo coi fumetti successivi) nel primo riquadro di inizio della storia dell’infante super-eroe disegnato nel 1938 da Joe Shuster su idea narrativa dello scrittore Jerry Siegel (che a sua volta era stato l’inventore di quel super-dotato individuo extra-terrestre già tre anni prima, e lo aveva disegnato usando lo pseudonimo di Herbert Fine, rappresentandone le gesta in una città tipicamente nord-americana con forme indiscutibilmente art-décoristiche). Questa prima rappresentazione iniziale della città shusteriana di Superman, è anch’essa vagamente – ma riconoscibilmente – riferita al contesto urbano (in distruzione) dell’astrale pianeta Kripton da cui il protagonista proveniva [Figura 71], senza inflessioni avveniristiche ma come se fosse una metropoli terrestre, e per di più con un’immagine generica e non riguardante l’aspetto fisico delle città esistenti. E anche nelle sequenze di tutta la serie successiva e fino al dopoguerra, quest figurazione scontata rimarrà sempre – ripeto – la più banale rariproposizione tardo-moderna della grattacielarità rigida e compatta.

E tutto ciò per un motivo semplicissimo: che nel futuro deve stare oggettivamente  solo Superman, in una terra che al contrario vive al presente.

Ed è per questa deduzione che questo problema urbano-futuristico della Metropolis supermaniana non può venire considerata – almeno questo è il mio parere – nella strana affermazione di Scott Bukatman, storico del cinema e scrittore-sceneggiatore filmico degli USA, che egli ha esposto (in un suo saggio del 2003 sugli Effetti Speciali e Superman nel 20esimo secolo) sulla città di esistenza del super-eroe, concependola nella a-storica visione di “una specie di ideale corbusieriano” a causa della straordinaria “visione a raggi x” posseduta dalle superiori qualità del protagonista del fumetto, che rende “i muri penetrabili e transparenti” facendone una sorta di “città aperta, moderna e democratica”, come “Le Corbusier l’ha descritta nel 1925” nei suoi disegni del Piano Voisin per Parigi [Figura 72]. Perché al massimo la santelietà della prospettiva centrale lecorbusieriana può ritrovarsi soltanto nella raffigurazione che il comasco ha effettuato nella sua Stazione per Aerei e Treni.

Una dichiarazione astratta e assurda comunque, quella dell’americano, che non trova riscontro culturale ed epocale, essendo le proposte urbanistiche lecorbusieriane nient’altro che un’altra futuribilità d’avanguardia, utopisticamente – per quanto concretamente com’è stato per Sant’Elia – pensata come realizzabile speranza di applicabile modernità.

Ma indipendentemente da tale condizione, la metropoli futura di Superman è fin troppo evidente – dalle vignette stesse dei suoi fumetti – che consiste nell’immagine urbana radicata nel luogo tipico della città moderna ipotizzata, o dell’urbanistica statunitense sempre conosciuta: degli Anni Trenta o del secondo dopoguerra mondiale fino al XXIesimo secolo, anche in prossimità della sua ultima trasformazione digitale e profondamente avveniristica (tanto che ancòra nel 2006 ne viene riproposta la consueta versione di tardo-moderna visione in stile internazionalistico, tipicamente basata sulle figure eseguite tra 1970 e 1975 dal noto fumettista Curt Swan) [Figura 73].

E mediamente tale immagine costituita si propone – e impone – come il contesto della più normale città fittamente grattacielata dell’International Style o della tardamodernità squadrata e parallelepipedica, cominciata dalle vignette fumettistiche  iniziali del 1939 e del 1940  (sempre di Shuster), che progressivamente si succedono e specificano negli anni, per consistenza tipologicamente formale o nel modo espressivo degli autori avvicendatisi nella descrizione creativa delle avventure di Superman (in particolare Wayne Boring – inizialmente assistente shusteriano – che ha disegnato autonomamente il super-eroe dal 1942 al 1960; Curt Swan citato, e Al Plastino o Dick Giordano).

Davvero una avventura grafica sostanzialmente costante e architettonico-urbanisticamente anti-avveniristica che, fino ad arrivare ai fascicoli più recenti del Terzo Millennio, non ha visto consistenti mutazioni figurative; e che per variare hanno dovuto  lasciare luogo alle immagini computeristiche più svariate, che propongono visioni urbane di estrema differenza: attualisticamente ambientate in un contesto reale rielaboratamente inventato (quale si vede nella mirabolante illustrazione del 2016 di Canny Knack, che esibisce mescolatamente una sintesi antologica di campionature urbane eccellenti della contemporaneità più stravagante di Dubai, metropoli prevalentemente imperniata sull’ultima produzione edilizia di scult-architetture e sulle prossime realizzazioni di recentissima progettazione) [Figura 74] o di rinnovata ripresa dell’immaginario fantascientifico, questa volta extra-terrestre (come si mostra la Metropolis del XXXInesimo secolo ravvisata da Jason Paz nel 2015 pe i racconti di Convergence [Figura 75], che ha visto una sua anticipata proposizione nel 1996 offerta da Ted McGeever in una riproduzione amplificata della città filmica di Fritz Lang).

Non più, dunque, la conservativa immagine statunitense dei grattacieli regolari e uguali, ma una aggiornata futuristicità, anche se basata su impressioni esistenti: nelle architetture odierne, e nelle finzioni della cinematografia interstellare.

La grattacielità supermaniana comunque sarebbe anche il riflesso di una nostalgìa personale delle città nord-americana in genere, non solamente degli Usa ma anche del Canada. Perché il loro iniziale disegnatore, Shuster, che era originario di Toronto, dove aveva vissuto i suoi primi dieci anni di infanzia prima di trasferirsi a Cleveland nel 1924, ha riferito nel 1992 che “ogni palazzo che ho visto a Toronto è rimasto nella mia mente e si è materializzato in Metropolis”; ma se si fanno più approfondite verifiche visive della condizione urbana torontese – ripresa da foto aeree d’epoca – prima degli Anni Venti del Novecento e dopo gli Anni Trenta, in effetti le vedute dall’alto di quella città sembrano confermare la presenza di una scarsissima grattacielarità (nel 1919) e una più fitta quantità nel 1932 e 1933 [Figure 76 e 77].

Se poi si guardano le immagini dei panorami di Cleveland scattate intorno al 1927-28, si constata che i suoi scarni grattacieli sono sempre configurati da una persistente connotazione ottocentesca ancòra tardo-eclettica (sul genere della nota Scuola di Chicago, per intendersi), basata su costruzioni più distese che elevate [Figura 78].

E invece, osservando le immagini newyorkesi in quello stesso periodo prima del 1930 (quando il profilo della metropoli manhattiana comincia – con l’appena costruito Grattacielo Chrysler – a cambiare aspetto con l’inserzione prepotente degli elevati edifici déco), si può notare come la qualità sostanziale delle costruzioni proseguiva, per quanto diversamente e con maggiore intensità – e densità – edificatioria, la consueta rigidità geometrica e compattezza volumetrica – ancorchè più razionalizzata – dell’edilizia a parallelepipedi post-eclettica, però cercandone una sintetizzante condizione espressiva non più storicistica [Figura 79].

E dunque, forse a questa ascendenza localistica infantile di Shuster si dà troppo credito; a meno che non la si voglia considerare come un criterio di eliminazione costante della sagomazione elaborata arch-décoista, e dei suoi grattacieli più consistenti, obbligata dal ricordo passato della schematismo stereometrico di provenienza torontino-clevelandiana.

Perché in realtà dal 1938 dei primi disegni della città di Superman, anche se eseguiti alquanto genericamente e quasi in maniera non pienamente caratterizzata, sempre di più i vignettisti del super-eroe kryptonitico – Shuster compreso – rappresentano la scena degli episodi delle sue avventure in un paesaggio urbano riconoscibilmente di tipologismo newyorkese. Per cui le “impressioni visive” per Toronto di Shuster di cui ha scritto  Davide Occhicone nel 2013, “che sarebbero state riportate anche nei suoi fumetti” indelebilmente, dipendono certamente da un retaggio personalistico della esperienza giovanile shusteriana, alquanto enfatizzata dal ricordo giovanile e riportata  in una ibridazione grafica non nitida e precisamente riconoscibile; ma per gli altri suoi successori comunque, i riferimenti figurativi dei loro scenari cittadini   riguardano decisamente un approccio morfologico e tipologico alla visione mnemonica (se non proprio reale) più affascinante e diffusa – nella percezione collettivo-popolare, per di più rivolta al pubblico dei Fumetti – di New York.

Le suggestioni urbane degli illustratori di Metropolis post-shusteriani, dunque, si accostano molto di più agli aspetti della Grande Mela iniziale, del disegnatore architettonico Ferris e degli imprenditori Rockefeller, e dei grandi giganti edilizi svettanti contro il cielo di Manhattan (edifici importanti quali il Paramount con la sfera in cima come sul Palazzo del Daily Planet dove lavora il giornalista Clark Kent; o l’Equitable, il 666, il Seagram di Mies con le sue copie circostanti, il Chase Manhattan, ma anche più anonimi palazzoni alti, occupanti identicamente i ripetuti lotti della zonizzazione squadrata cittadina, riportati abbondantemente nelle foto e nelle cartoline statunitensi tra gli Anni Trenta e Settanta).

In tutte queste rappresentazioni metropolitane rimane comunque il problema del reiterato oblìo mostrato nei fumetti di Superman verso Sant’Elia, effettivo inventore originario delle immagini futuristiche di una città veramente nuova; e di questa sorte dimenticante è necessario ricercare per forza il motivo o la causa in altre esperienze grafiche (su cui magari avremo modo di ritornare, proseguendo).

Ma anche per tale caso si ritrova una scostante contraddizione, o insolita eccezione, illustrativa: che il grafico di fantascienza Eliot Brown (più noto come cartografo mappatore, inventivo – e però di estrema precisazione topografico-pianificatoria – di Gotham, città di Batman) ha raffigurato nel 2000, addrittura dando un assetto urbanistico – oltrechè architettonico – completo alla Metropolis supermaniana, rielaborandola su una sorta di isola manhattiana epocalmente trasformata, incassata entro alti dirupi circostanti, e a sua volta confinante con un burrone artificialmente sbarrato da una diga. Dove – con incredibile rivelazione scenica – si erge imponente e svettante un turrito sperone grattacielare altissimo a doppio corpo (che costituisce una metafora – o parodia – delle Torri Gemelle) di reminiscenza santeliana indiscutibile (o per lo meno, per gli osservatori più cauti o scettici, collegabile all’architetto comasco: e anche nelle disposizioni urbanistiche di articolazione interna, poiché “La città è interconnesa da strade sospese e ferrovie” metropolitane separate [Figure 80 e 81].

Per le avveniristiche illustrazioni di visionarietà urbana a digressione eccentrica ed inventiva è stato poi fatto anche il nome dell’onirico fumetto di Little Nemo, ma pure in tale circostanza con improprietà; perchè quelle rappresentazioni splendide e incantate, disegnate con sublime impronta floreale dall’eccellente grafico newyorkese Winton McCay dal 1905 al 1913 e dal 1924 al 1927, non riguardano alcun voluto effetto propositivo di città innovativa, comportando solamente una immaginaria corrispondenza del contesto disegnato con il mondo inesistente dei sogni (o meglio, del sonno: e precisamente del Dormiveglia, come viene chiamata la località fantasiosa dello svolgimento delle storielle, Slumberland). L’unica attinenza che quei veloci (ognuno concluso entro una sola pagina) episodi dormienti rivelano con la realtà urbanistico-architettonica, è il loro curioso risvolto immaginifico, descritto realisticamente ma svolto in una condizione di sospensione, e surrealtà, concreta; nel cui sottofondo narrativo viene sempre intrattenuto un intrinseco ammonimento educativo, che suona nel modo seguente: attenti a non esagerare con la visionarietà urbanistica, perchè alla fine la sua realtà – da svegli – avviene che vi si rivolge contro (come nel mito biblico della Torre di Babele, e nel grazioso episodio maccayano del 1909 in cui due ragazzi in una normale via urbana sono costretti a scappare perchè inseguiti minacciosamente da caseggiati che cominciano a scombinarsi in tanti cubi dal tetto a capanna, trasformandosi in strani edifici semoventi, sostenuti da gambe pseudo-umane sottilissime, che trasformano una pacata passeggiata quartierale in un incubo impaurente) [Figura 82].

“Il sonno della ragione genera mostri”, aveva avvertito già Francisco Goya nella sua famosa litografia del 1797 pubblicata due anni dopo. E non a caso i racconti del sogno del ragazzino in pigiama costantemente disturbato nel suo necessario sonno infantile, molestato mentre dorme dai suoi spaventi onirici in ambienti cittadini strampalati – e però estremamente corrispondenti all’edilzia dell’epoca, senza alcuna deviazione visionaria o fantasiosa – sono stati disegnati attraversando l’intero periodo delle Avanguardie novecentesche, Art Nouveau compresa, dal 1905 al 1926: data, quest’ultima, in cui il Surrealismo era nato da un biennio, ed aveva ricevuto la propria affermazione l’anno prima – 1925 – con la sua grande esposizione iniziale parigina. Una espresssione artistica che considerava la realtà effettiva proprio – appunto – la produzione inconscia del sogno!

A conclusione di tutte queste divaganti considerazioni grafico-etiche ed innovativo-inventive, resta il fatto che nella differenza, comunque, tra ogni visionarietà  complessiva (di Sant’Elia, Metropolis, Superman, o Nemo) si provano differenti connotazioni: per un verso, la finzione scenica della cinematografia, che non è mai vera ed invece continuamente costruita con l’artificio modellare; in altro modo, la fantascienza immaginaria che si rivela davvero suggestiva e però esagerata ed impossibile anch’essa; e per altra circostanza, la irrealtà del sogno che rimane aleggiante in una condizione mista tra invenzione estrosa e stupore sospeso. E tutti insieme comunque, estranei diversamente agli aspetti effettivi del mondo. Mentre per la Città Nuova ci si ritrova in presenza di una autentica proposta di realizzazione costruttiva, rivolta alla attuazione di un contesto fisico fino ad allora mai visto e però eseguibile con la forza dell’ingegno.

Come conclusivamente proviene dal monito del Piccolo Nessuno, si tratta di una certezza che insegna a Tutti a stare svegli e non lasciarsi intorpidire da concepimenti impropri e assurdi!

 

NOTE BIOGRAFICHE DEGLI AUTORI

Corrado Gavinelli, architetto, in pensione dal 2010, è stato Professore di Storia della Architettura Contemporanea nella Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, e Professore Straniero (Gaikokujin Kioushi) alla Università di Tsukuba in Giappone; dove è stato anche Docente in Visita nella Scuola di Design di Sapporo. In Italia ha insegnato anche Storia della Comunicazione Visiva all’ISIA di Urbino ed al COSMOB di Pesaro. Autore di diversi libri storici sulla architettura e l’arte, e di numerosi saggi critici sulle migliori riviste mondiali specializzate nella disciplina architettonico-urbanistica, ha contribuito in modo rilevante a diffondere la conoscenza dei lavori – e della stessa figura progettuale – di Antonio Sant’Elia e del Movimento Moderno comasco, con articoli e mostre nazionali ed estere.

Giorgio Casati, architetto, è un professionista attivo nel settore della architettura civile, dell’urbanistica e del paesaggio, e del disegno industriale, di recente passato anche al lavoro artistico (pittura e ceramica). Dopo una breve esperienza tecnica nella progettazione di macchine strumentali, ha collaborato con diversi Studi progettuali di Architettura e Design. Ha progettato e diretto numerosi interventi architettonici, vari piani attuativi, e lavori di ricerca nei settori prina indicati, dei sistemi edilizi e dell’urbanistica. Si è impegnato anche in diverse esperienze di riferimento culturale, amministrative (Presidente dello IACP della Provincia Comasca, membro del Direttivo del Centro di Cultura Scientifica Volta, Consigliere Comunale della città di Como) e pubbliche (organizzando mostre e convegni su architettura, design, e arte).

 

FIGURE e DIDASCALIE

39 e 40 – Nello Studio di Decorazione per Facciata del 1911, il virtuosismo ornamentale santeliano sfoggia tutta la sua piena adesione al sececcionismo otto- wagneriano (relativo alla molto precedente, del 1898-99, Seconda Casa di Maiolica a Vienna che Otto Koloman Wagner ha estrosamente ricoperto di esuberanti ed originali piastrellature floreali) [Allegato 39 – Figura 39; Figura 40]

41 e 42 – La esemplare semplificazione plastica – quasi da sintetizzazione geometrica astratta – dei volumi architettonici santeliani, il cui impianto stereometrico (nello Schema di Edificio Industriale del 1913, tra l’altro colorato da Mario Chiattone che proprio quell’anno era diventato collaboratore di Studio di Sant’Elia) ha condotto alla definizione espressiva della forma architettonica da costruire (Disegno Preparatorio per Teatro del 1914)[Allegato 41 – Figura 41; Allegato 42 – Figura 42]

43 – La modernissima configurazione tecnica del Funzionalismo nascente, nelle partiture in muratura, ferro, e vetro, della Fabrica Fagus progettata da Walter Gropius con Adolf  Meier nel 1910 e compiuta tre anni dopo (nel 1913, quando Sant’Elia si accingeva a definire la sua modulazione di nuova tendenza futuristica), in una fotografia del 1925 [Allegato 43 – Figura 43]

44 – La poderosa Fonderia (in un disegno del 1917) della Città Industriale per Lione che Tony Garnier ha progettato nel 1900-04, alimentandola da un impianto energetico della Diga con Bacino Idrico che si vede sullo sfondo del disegno [Allegato 44 – Figura 44]

45 – La famosa Casa a Gradoni parigina di Henri Sauvage realizzata nel 1912-14, che ha fatto da modello tecnico-formale per i Caseggiati santeliani della Città Nuova [Allegato 45 – Figura 45]

46 – Lo schema tipologico proposto nel 1907 dal medico francese David Sarason per consentire la massima insolazione libera nei terrazzi dei Sanatori antitubercolotici [Allegato 46 – Figura 46]

47 – Una delle tavole futuristiche di Mario Chiattone (Costruzioni per una Metropoli Moderna del 1914), le cui risoluzioni urbanistico-architettoniche risultano evidentemente influenzate dalle composizioni contrmporanee dell’amico-collega Sant’Elia [Allegato 47 – Figura 47]

48 – Una Città Futurista, del 1919, di Virgilio Marchi, nella sua tipica formula di caratterizzazione espressionistica con inflessioni goticistiche nelle arcature a punta [Allegato 48 – Figura 48]

49 – Tullio Crali, Stazione per Aeroporto Urbano del 1931, disposta anch’esso (sul suggerimento propositivo santeliano) a strade sovrapposte non interferenti [Allegato 49 – Figura 49]

50 – Altro impianto urbanistico del Futurismo, nel suo periodo tardo: la Città Unica a Linee Continue di Italo Minos-Spiri, disegnata nel 1934 [Allegato 50 – Figura 50]

51 – La Metropolis di Quirino De Giorgio, eseguita nel 1931: un dopo-Lang (il regista del film Metropolis del 1927) che si configura come un originale post-Sant’Elia [Allegato 51 – Figura 51]

52 e 53 – La suggestione futuristica ha coinvolto anche alcuni autori stranieri: ad esempio nella progressione progettuale evolutiva dell’architetto sovietico Iacov Cernicov, partito da una assimilazione formale del volumetrismo plastico di referenza santeliana nel proprio Costruttivismo iniziale (tipologie edilizie varie del 1928-31, di cui risulta esemplare la Fabbrica del 1929-30) e giunto ad un estraniato utopismo fantasioso post-bellico, di personalistica corrispondenza espressiva con le morfologie complesse e monumentali di epocalità stalinistica (come si riscontra nell’acquarello dei Palazzi del Comunismo, disegnati tra 1942 e 1948 per il Pantheon degli Eroi Patriottici morti nella Seconda Guerra Mondiale) [Allegato 52 – Figura 52; Allegato 53 – Figura 53]

54 e 55 – Un paragone di corrispondenza figurativo-formale tra un disegno espressionistico di Erich Mendelsohn (Edificio Pubblico del 1917) ed un progetto santeliano (una Villa, generalmente datata al 1909-10 ma a mio parere appartenente alle due annate successive, 1911-12) [Allegato 54 – Figura 54; Allegato 55 – Figura 55]

56 – Un altro schizzo di Edificio Industriale erich-mendelsohniano eseguito al fronte russo nel 1917, di chiara attinenza santeliana [Allegato 56 – Figura 56]

57 e 58 – I due possibili disegni di Grattacieli di Vetro disegnati da Ludwig Mies Van Der Rohe (entrambi proposti per Berlino nel 1921: a Pareti Appuntite sulla Via Friedrich, e a Superfici Ondulate) indicati espressamente dal regista cinematografico Fritz Lang quali riferimenti modellari per gli edifici del proprio film Metropolis del 1927 (iniziato nel 1924)[Allegato 57 – Figura 57; Allegato 58 – Figura 58]

59 e 60 – I due Grattacieli in solida muratura progettati da Hugo Häring sempre per la Stazione Friedrich a Berlino nel 1921, dalle sagomature parietali più figurativamente corrispondenti ai disegni scenici dell’artista Erich Kettelhut (le cui piene sagomature tonde si riscontrano nelle curvature plastiche delle sue tavole sceniche preparate per le quinte filmiche della Metropolis langana (di cui tipico è il Paesaggio Urbano del 1925) [ Figura 59;   Figura 60]

61 – Un tipico bozzetto scenico di Kettelhut per la Città dei Figli di Metropolis, disegnato anch’esso nel 1925 [ Figura 61]

62 e 63 – Due vedute di scena della Metropolis di Lang: l’apparato urbano della città (alquanto simile alla concezione multi-viaria di Sant’Elia) come doveva venire realisticamente osservata nel filmato, e la sua finzione a dimensione ridotta per la ripresa filmica, durante lo scrupoloso lavoro di preparazione delle sistemazioni in miniatura [Figura 62; Figura 63]

64 – L’immagine di arch-déco disegnata nel 1926 dal grafico Heinz Schulz-Neudmann per il manifesto annunciante l’uscita del film Metropolis [Figura 64]

65 – La sensazionale infilata prospettica (di effetto sorprendentemente santeliano) allestita dallo scenografo Stephen Goosson per le riprese del film musicale Just Imagine del 1930 diretto dal regista David Butler (uscito 3 anni dopo soltanto dalla prima proiezione pubblica di Metropolis): una interessante specificazione tecnica (tra futuristicità santeliana e massiccità volumetrica alla Hugh Ferriss) decisamente più formalmente sofisticata rispetto agli approntamenti urbani di maggiore rozzezza figurativa impiegati dalla drammaticità espressionistica di Lang [Figura 65]

 66 – Una caratteristica rappresentazione epocale dell’urbanistica futura degli Anni Trenta statunitensi, in un disegno di Francisco Mujica (La Città del Futuro) del 1929, improntata nell’aspetto stereotipato dell’architettura déco adattata all’avvenirismo santeliano di Metropolis [Figura 66]

67 e 68 – La visione popolare della Metropoli del Futuro: raffigurata nel 1939 dall’illustratore statunitense Julian Krupa (Città di Domani)- con suggestivo realismo ipotetico – sul diffuso giornale di racconti fanta-scientifici Amazing Stories; e presentata nel 1933 dal disegnatore Sydney Oxberry in una differente immagine avveniristiva di trasformazione nuova del paesaggio urbano newyorkese normalmente noto (pubblicata sulla anch’essa lettissima rivista di divulgazione scientifica nord-americana Popular Science) [Figura 67; Figura 68]

69 e 70 – Il generico e vago stile internazionale moderno della città di Superman, disegnata dal vignettista Joe Shuster nel 1938 sul primo numero delle avventure del super-eroe venuto dallo pazio. Il contesto cittadino supermaniano è scialbo e limitato, per nulla avveniristico e soltanto convenzionale, e rimarrà tale fino alle evoluzioni grafiche (computerizzate) delle storie di questo Fumetto subentrate col Terzo Millennio [Figura 69; Figura 70]

71 – L’immagine – ancòra di fioca definizione terrestremente déco – della città astrale del pianeta Krypton dove abitava Superman bambino, in distruzione irrimediabile per un dissesto geologico interno, come appare nel primo riquadro fumettistico delle avventure supemaniane, disegnato sempre da Shuster nel 1938. Questo crollo distruttivo dei grattacieli décoistici segnala, involontariamente ed allegoricamente, anche la fine dell’Arch-Déco, sostituita poi dall’avanzamento incalzante dello Stile Internazionale [Figura 71]

72 – Una veduta, centrata su un percorso interno, della Città Radiosa progettata da Le Corbusier nel 1930 [Figura 72]

73 – La Metropolis di Superman al 1975, nella versione tardo-moderna di Curt Swan, con edifici e grattacieli rapportati all’International Style maturo, sostituenti la precedente immagine déco [Figura 73]

74 – La finalmente davvero avveniristica Metropolis di Superman disegnata da Canny Knack nel 2016, in un roboante assemblaggio eterogeneo di recente antologizzazione esemplare del repertorio architettonico più significativamente spettacolare di Dubai (edifici esistenti, e quelli in esecuzione come fossero già realizzati) la cui espressione altamente scult-architettonica più disparata ormai supera anche le ultime attuazioni delle maggiori città internazionali (quali Londra e New York, o Shanghai e Pechino, e perfino Abu Dabi o Doha) [Allegato 74 – Figura 74]

75 – La novellamente immaginata visione urbana della Metropolis supermaniana concepita dall’illustratore artistico Jason Paz nel 2015, dove le realtà cittadina ha rinunciato a continuare la tradizione del riferimento ai grattecieli terrestri, preferendo una avveniristica collocazione di ambientamento interstellare (magari sulla influenza avanzante della filmografia di Guerre Stellari) [Figura 75]     

76 e 77 – Un paio di vedute aeree di Toronto (rispettivamente del 1919 e del 1929) nelle due fasi di sviluppo urbano entro il 1924 (anno di spostamento del cartonista fumettistico Shuster a Cleveland). Si può notare come l’aspetto grattacielare della città canadese sia alquanto ridotto e modesto, e decisamente più folto – invece – un quinquennio dopo la partenza del disegnatore [Figura 76; Figura 77]

78 e 79 – Un confronto significativo tra la Cleveland del 1927 (tre anni dopo l’arrivo shusteriano) e la New York di prima del 1938 (data di iniziale uscita della serie fumettistica di Superman) in una foto del 1932 (cui ho tolto appositamente la sagoma del Grattacielo Chrysler completato un biennio avanti, per conferire all’immagine una impronta non viziata dalla presenza slanciata dell’edificio déco: in essa si può notare tutta la possibile evenienza di un riferimento convenzionale di Shuster, per la sua Metropolis supermaniana, verso la più popolare – e internazionalistica – raffigurazione urbana statunitense incentrata nella ormai ampiamente diffusa newyorkesità [ Figura 78;  Figura 79]

80 e 81 – La nuova configurazione inventiva della recente Metroplis di Supernan del Duemila, elaborata dal 1999 da Eliot Brown – che è anche il disegnatore famoso di Batman – nella immagine di una sorta di isola soprelevata sopra un altopiano a piattaforma dal perimetro scosceso, contenuta entro una enorme diga sovrastata da due altissimi edifici accoppiati, di lontana morfologia santeliana (e di sagomazione newyorkese correlata alle Torri Gemelle) [ Figura 80;Figura 81]

82 – Una pagina (del 1909) del fumetto Piccolo Nessuno disegnata dal favoloso illustratore statunitense Winton McKay, raffigurante il preoccupante sogno delle case camminanti [ Figura 82]

 

 

 

 

 

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