La UE nasce dalla necessità di superare i nazionalismi, responsabili delle due guerre mondiali sul continente, tramite la creazione di un grande stato federale. Oggi, quel disegno originario si è incagliato e nessuna forza politica intende rilanciarlo non capendo, però, come solo la nascita degli Stati Uniti d’Europa rappresenti la soluzione reale ai pericoli incarnati dall’espansionismo imperiale russo, dallo strapotere economico cinese e dalla lunatica politica della Casa Bianca. Un saggio lucido e documentato analizza come le varie forze nazionaliste, che operano all’interno della UE per consolidare il potere e l’influenza dei singoli stati, minino in realtà la nascita dell’unica soluzione possibile, quella di uno stato federale.

 Sergio Fabbrini, uno dei più noti scienziati della politica in Italia, è professore emerito di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Luiss di Roma, ha insegnato a Harvard e Berkley ed è editorialisti del Sole 24 Ore. Nel suo ultimo saggio fornisce un contributo importante, basando la sua analisi sugli eventi storici e sulla comparazione delle varie teorie elaborate dagli studiosi, in modo da sottrarre l’attuale dibattito sull’Europa alla faziosità delle argomentazioni dei nazionalismi che, dall’interno delle istituzioni europee, puntano a sabotare il disegno generale elaborato dai Padri fondatori dopo la Seconda guerra mondiale. Bisogna ammettere, però, che i progetti autolesionisti delle destre sono fortemente aiutati dall’inconcludenza e dalla tragica miopia di quelle forze che continuano a definirsi europeiste.

Dalle stelle (europee) allo stallo

 La classe politica emersa dalle immani distruzioni della Seconda guerra mondiale si era temprata nella lotta contro i totalitarismi e aveva ben chiaro che non si sarebbe mai potuto tornare ai vecchi nazionalismi così come era evidente che gli strumenti tradizionali della diplomazia o dell’equilibrio tra le potenze non potevano più garantire la pace del continente. Questa nuova leadership, rappresentata dal ministro degli Esteri francese Robert Schuman, dal Primo ministro italiano Alcide De Gasperi e dal Cancelliere tedesco Konrad Adenauer, era cosciente che sarebbe stato necessario percorrere nuove strade, come quella dell’integrazione europea, inizialmente interpretata come la creazione di una federazione europea. Molto indicativo a questo proposito è il discorso che un altro dei Padri fondatori, Jean Monnet, consigliere di Robert Schuman, tenne a una riunione del Comitato francese di liberazione ad Algeri il 5 agosto 1943, precisando che «non ci sarà pace in Europa se gli Stati verranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale […] gli Stati europei sono troppo piccoli per garantire ai loro popoli la necessaria prosperità e lo sviluppo sociale. Le nazioni europee dovranno riunirsi in una federazione».

«Agli inizi degli anni Cinquanta –scrive Fabbrini– erano stati soprattutto gli americani dell’internazionalismo liberale, impegnati a costruire un nuovo ordine occidentale in funzione antisovietica, che spingevano per avviare l’Europa occidentale verso la federazione. Per le nuove leadership europee, comunque, il progetto integrativo costituiva la risposta alle guerre fratricide tra europei, ma anche al demone che le aveva generate, il nazionalismo». La minaccia sovietica aveva costituito un formidabile incentivo per far entrare la Germania occidentale nella NATO e per accelerare il processo di integrazione economica dell’Europa occidentale. Il progetto, che intendeva coniugare sia il versante economico-industriale sia quello politico-militare, si concretizzò nel 1951 con il Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e, nel 1952, con il Trattato della Comunità europea della difesa (CED). Ma una prima, importante battuta d’arresto si ebbe nel 1954 quando, sulla base di cavilli procedurali, il Parlamento francese decise di non mettere ai voti il progetto federalista della CED che, da allora, rimase lettera morta. Oggi, anche alla luce del pericolo rappresentato dall’aggressività russa e dall’aver puntato soltanto sulla NATO per la difesa europea, si capisce quanto fosse miope e suicida quella decisione che privava l’Europa di un sistema comune di difesa dagli attacchi esterni.

La nascita di un mercato comune aveva rappresentato un grande successo, a cui si sarebbe dovuta affiancare anche la creazione di una difesa comune. Ma la bocciatura della CED privò il progetto europeo dell’altra gamba su cui si sarebbe dovuta reggere la strategia per realizzare un’unione federale. Sul piano economico, l’approccio funzionalista prese il posto di quello federalista. Invece di partire dalle istituzioni, si decise di puntare sulle politiche. Secondo Jean Monnet si sarebbe dovuto iniziare dalla soluzione di problemi concreti e intorno ad essa si sarebbe sviluppata una solidarietà tra europei. Così, a Roma nel 1957, fu approvato il Trattato istitutivo di una Comunità Economica Europea o CEE. Fabbrini spiega che «tra il Trattato di Roma e l’Atto unico europeo del 1986, si è formalizzato un triangolo istituzionale basato su un legislativo bicamerale (il Consiglio dei ministri, in quanto camera di rappresentanza dei governi e costituito da formazioni differenziate di ministri, e il Parlamento europeo, in quanto camera di rappresentanza dei cittadini) ed un esecutivo (la Commissione, oggi con un commissario per ogni stato membro), con il Consiglio europeo dei capi di stato e di governo degli stati membri che interviene quando vi sono dispute tra stati membri che sono difficili da risolvere attraverso la comitologia».

Nel 1992 il Trattato di Maastricht rappresentò una risposta ai grandi cambiamenti innescati dal crollo dell’Unione Sovietica e, per la prima volta dal 1954, venne riconosciuto che il progetto di integrazione aveva un carattere politico e non esclusivamente economico. Si parlò di unione politica, tant’è che la denominazione di Unione Europea verrà introdotta proprio per marcare la distanza dalle precedenti denominazioni di Comunità Economica Europea (CEE) e poi Comunità Europea (CE). Il problema fondamentale è che da Maastricht in poi è stato adottato uno strumento di governance destinato a indebolire, non a rafforzare le politiche per una crescente integrazione tra gli Stati membri. Le grandi decisioni vengono infatti prese dal Consiglio europeo, formato dai capi di Stato e di governo, al cui interno ci sono forze totalmente contrarie a qualunque forma di cessione di sovranità politica e, visto che i provvedimenti devono essere approvati all’unanimità, hanno un potentissimo strumento di veto. L’Ungheria di Viktor Orban rappresenta il caso più eclatante a questo proposito.

Il Parlamento europeo, l’unica istituzione a essere eletta direttamente dai cittadini e che ha assunto un ruolo sempre più rilevante nelle discussioni politiche cruciali, ha una grande debolezza strutturale perché continua a essere privato del fondamentale potere di raccogliere le tasse con cui sostenere le proprie politiche. Può approvare mozioni coraggiose che tengano conto dei desideri dei cittadini, ma non può stanziare fondi per raggiungere gli obiettivi desiderati. Fabbrini nota che questo è «un esempio di representation without taxation la cui sindrome antidemocratica non è dissimile di quella che condusse alla rivoluzione americana del 1776». Nella politica economica è stata creata una struttura sovranazionale come la Banca centrale europea che ha il potere di prendere decisioni autonome dal volere dei vari governi nazionali e quindi agire a favore degli interessi strategici dell’Unione Europea. A livello politico, però, dobbiamo ricordare che la politica europea non è altro che la somma della totalità delle esigenze nazionali imposte dai quei governi che non hanno nessuna intenzione di cedere, anche in minima parte, la loro sovranità.

L’Europa sta vivendo nel periodo più drammatico dal secondo dopoguerra ma invece di ritornare alle radici della scelta federalista «l’Unione intergovernativa è andata invece in direzione opposta, portando i governi nazionali direttamente nel luogo della decisione sulle politiche strategiche dell’UE, con l’effetto (tra gli altri) di contrapporli invece di ricomporli. Con l’Unione intergovernativa si sono create le condizioni per la rilegittimazione dell’interesse nazionale, presentato come la linea rossa dei singoli governi nazionali. Tutti i governi nazionali hanno brandito il concetto di interesse nazionale, ma raramente lo hanno definito. In molti casi, esso è coinciso con l’interesse della maggioranza parlamentare di turno, mentre dovrebbe eventualmente rappresentare l’interesse permanente dello stato membro, espressione della sua identità intangibile. Nelle pratiche negoziali all’interno dell’UE, i governi nazionali dichiarano di agire in nome dell’interesse nazionale del loro stato membro, ma in realtà sono preoccupati della loro rielezione».

Quel è il destino della UE?

L’invasione dell’Ucraina ha mostrato definitivamente che il nazionalismo russo prevede la guerra come strumento per preservare quelli che percepisce come i propri interessi nazionali che vanno difesi dalla politica aggressiva dell’Occidente. Fabbrini dimostra però che il crollo dell’URSS non ebbe nulla a che vedere con le campagne degli odiati capitalisti ma fu causato dalla incapacità del sistema sovietico di reggere i ritmi di sviluppo delle società occidentali. L’entrata dei Paesi dell’Est nella NATO non fu una provocazione ma il semplice desiderio di nazioni piccole di garantire la propria sicurezza. D’altronde, Putin non ha mai nascosto la natura del suo progetto come fece nel discorso del 21 febbraio 2023, quando dichiarò che voleva «rimediare agli errori di Lenin», il principale dei quali era stato il riconoscimento del principio dell’autodeterminazione dei popoli. Dietro la strategia del nuovo zar e del suo sistema di potere vi è il rifiuto di accettare la principale conseguenza della sconfitta russa della Guerra Fredda, la normalizzazione del Paese e la sua trasformazione in uno stato nazionale territorialmente delimitato.

Lo statista italiano Alcide De Gasperi (1881-1954) sosteneva che la realizzazione di un sistema di difesa comune europea doveva essere espressione di un progetto finalizzato a costruire un’unione politica tra stati.

Questa nuova situazione rende necessario affrontare urgentemente la creazione di un sistema di difesa comune che non significa coordinare le spese militari tra i Paesi aderenti ma creare ex novo una vera e propria difesa europea che superi le singole difese nazionali, come aveva teorizzato De Gasperi. Riassumendo il pensiero dello statista trentino, Fabbrini afferma che una sistema per preservare la pace e la difesa del continente «dovrà acquisire le caratteristiche di un organismo che fonde le difese nazionali nel sistema costituzionale dell’unione politica. De Gasperi ritiene dunque che un sistema di difesa derivato dal coordinamento tra le difese nazionali non potrà essere efficace in quanto dipenderebbe dai contingenti interessi o volontà dell’uno o dell’altro governo nazionale in carica». Il 1° maggio 2004 entrarono nella UE dieci nuovi membri: Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia e Slovenia. Durante la Guerra Fredda, sette di essi facevano parte del blocco comunista, uno della Repubblica della ex Jugoslavia, mentre i rimanenti due sono piccole isole del Mediterraneo. Ma questo allargamento non coincise con un potenziamento delle strutture decisionali e, ai fini pratici, rappresentò un allontanamento dalla filosofia originale dell’Unione.

Se da un punto di vista economico le nuove adesioni, come pure le successive, furono un successo, non si può dire la stessa cosa a livello politico, in particolare per quanto riguarda i Paesi ex comunisti.  «In questi ultimi Paesi – scrive Fabbrini– si è venuta ad affermare, proprio in coincidenza temporale con la loro crescita economica, una reazione negativa nei confronti dell’UE e dei suoi sistemi regolativi ed istituzionali. La leadership liberale della transizione postcomunista, che aveva affermato la necessità che l’Europa dell’est si avvicinasse al modello economico-politico dell’Europa dell’ovest, è venuta ad essere gradualmente sostituita da nuove leadership nazionaliste, di un nazionalismo a forte carattere etnico, motivate da un risentimento verso un’UE percepita come cosmopolita e tecnocratica, se non imperiale». La rinascita del nazionalismo nei Paesi dell’Europa orientale (un nazionalismo a lungo soffocato dalla dominazione sovietica) è arrivato quindi a contrapporsi al progetto post-nazionale promosso dalle leadership dei Paesi fondatori dell’UE. Si è venuto così ad affermare un nazionalismo nei Paesi entrati che molti, tra i promotori degli allargamenti a Bruxelles, non si aspettavano. Un nazionalismo a forte carattere etnico-culturale, basato sull’idea che l’entrata nell’UE fosse la condizione per ricostruire e proteggere la propria (appena riacquisita) sovranità nazionale, non già per ridimensionarla.

All’interno della UE ci sono oggi sensibilità molto diverse per quanto riguarda un possibile futuro federale dell’Europa. La motivazione principale che ha spinto le nazioni che avevano subìto per decenni il tallone d’acciaio di Mosca era soprattutto economica, non certo ideale. Il saggio nota giustamente che «con l’allargamento a Paesi (a cominciare dall’Ucraina e per finire con la Serbia) con una forte cultura etno-nazionalista, l’UE è destinata ad accelerare la sua trasformazione in un’organizzazione internazionale, non più sovranazionale. I nuovi Paesi che entreranno rafforzeranno la componente sovranista all’interno dell’UE, in quanto tutti loro avranno convenienza a rimanere nella UE pur difendendo la loro sovranità nazionale». Il rischio di trasformare l’Unione Europea in una semplice organizzazione internazionale, come le tante altre esistenti, è molto concreto soprattutto perché non sta emergendo una leadership in grado di proporre una visione adeguata per un futuro federale.

Da studioso autorevole, Fabbrini propone un nuovo paradigma europeo in cui esistano tre livelli (qualcuno li chiama cerchi). Il primo livello include tutti gli stati europei, gli attuali ventisette membri dell’UE più i Paesi che sono all’esterno di quest’ultima, che hanno interessi in comune nel campo della sicurezza, della protezione ambientale, dell’indipendenza energetica, del libero scambio, e che non vogliono rinunciare al pieno controllo della propria sovranità nazionale. Il secondo livello dovrebbe includere gli stati che sono interessati a partecipare al mercato singolo, rispettando i termini della visione di una futura Europa federale come venne definita nel Trattato di Roma del 1957. Questa Comunità dovrebbe essere aperta anche ai Paesi che non hanno aderito all’euro, come la Norvegia, e per farne parte, oltre che accettare la logica sovranazionale del mercato singolo, occorre garantire lo stato di diritto e il rispetto delle decisioni prese a Bruxelles. Nella Comunità non sono accomodabili regimi domestici illiberali. Infine, il terzo livello include esclusivamente gli stati che condividono l’obiettivo di creare una Federazione. La Federazione non consiste nella fusione delle sovranità nazionali per dare vita a quella europea, bensì nella formazione di capacità sovranazionali, distinte e indipendenti dai singoli stati membri, come la fiscalità, la difesa, la politica estera, la politica migratoria.

Il saggio passa poi a specificare che il Patto sancito «dovrà precisare le ragioni dell’Unione, in particolare il superamento dei nazionalismi dei propri stati membri, i valori politici che la costituiscono, il sistema istituzionale che ne dovrebbe organizzare i rapporti orizzontali e verticali, con la Corte europea di giustizia nel ruolo di risolutrice di ultima istanza delle contese. Poiché la Federazione si baserà su stati demograficamente asimmetrici, il suo sistema decisionale dovrà essere necessariamente antigerarchico e antiegemonico. Poiché la Federazione si baserà su comunità nazionali culturalmente differenziate, la sua cittadinanza dovrà essere necessariamente politica. A tenere insieme gli stati membri della Federazione dovranno essere i valori della democrazia liberale». Fabbrini conclude affermando che «se l’europeismo ha onorato la sua funzione storica, nello stesso tempo deve riconoscere che la storia ha generato nuove sfide. La sfida dei nazionalismi va affrontata con una ridefinizione costituzionale del processo di integrazione, così da promuovere un nucleo federalista in cui sia possibile conciliare la sovranità degli stati che ne fanno parte con la sovranità della Federazione. Alla nuova sfida sovranista, gli europeisti dovrebbero rispondere con una nuova prospettiva federalista». Con la classe politica che ci ritroviamo sembra una mission impossible, ma quali sono le alternative?

Sergio Fabbrini
Nazionalismo 2.0
La sfida sovranista all’Europa integrata
Mondadori Università, pp. 256, euro 18

 

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