Considerate di solito luogo dell’abbandono, a un’osservazione più attenta si rivelano ben altro. Luoghi del possibile cambiamento, dove i cittadini sono più propensi al dialogo per modificare l’ambiente urbano, nella collaborazione solidaria: qualcosa che spesso manca nei quartieri agiati. Una serie di articoli pubblicati su Avvenire ( http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/periferi-e-bellezza-5.aspx ) riapre il dibattito.

Del resto la città è sempre cresciuta attraverso le sue periferie, per espansioni più o meno concentriche. Come accade per tutti gli organismi viventi (e in fondo la città è il più complesso organismo generato da mano umana), partono da un nucleo originario e via via si allargano.

Il fatto che tra una ventina di anni ci si attende che il 70 per cento della popolazione mondiale viva in aree urbane non fa che confermare: se stanno sorgendo e sorgeranno nuove città, quelle esistenti si allargheranno sempre di più. Le conurbazioni aumenteranno di numero e si diffonderanno occupando porzioni sempre maggiori di territorio.

Il futuro della città sta in periferia.

L’argomento è stato affrontato in dialogo con diversi esperti su una serie di articoli pubblicati sulle pagine culturali di Avvenire tra la fine di dicembre 2015 e l’inizio di gennaio 2016.

Tutti questi servizi sono visibili al link: http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/periferi-e-bellezza-5.aspx

 

Ne discendono alcune considerazioni. Periferia è un termine generico cui di solito si attribuiscono connotazioni negative. In realtà di periferie ve ne sono molte più di quante siano le città cui queste afferiscono, e ogni ambiente urbano, sia esso centrale o della cintura, ha caratteristiche proprie.

Ma il centro storico della città europea è tipicamente “bloccato” nella sua condizione che, almeno in parte, è museale, e in parte si evolve per effetto del turismo e del commercio. La vita nei centri storici è data dalla presenza delle persone e dalla varietà che esse imprimono ad architetture generalmente di grande pregio ma che di per sé restano come testimonianza del passato: grande, importante, rilevante. Ma pur sempre espressione del passato… Si pensi al dipinto rinascimentale “La città ideale”: nella pura geometria dei suoi volumi si trova proporzione, armonia, perfezione del disegno. Ma manca la vita.

Nella periferia v’è un’intrinseca necessità di dinamismo che deriva forse anche dal disagio, ma comunque dal senso di incompiutezza. La periferia non è luogo da conservare, ma da cambiare. È potenzialità e possibilità.

A volte la periferia ancora guarda su brani di campagna: si apre a un dialogo col verde che a sua volta può ancora conquistarla. È più facile comporre nuovi parchi nelle periferie, che nei centri urbani.

La bellezza nei centri storici ha a che vedere solo con le architetture e i monumenti, nelle periferie riguarda invece, anzitutto il verde. Ma è proprio il verde (giardini, tetti e facciate pieni di piante), quanto più è consono alla salute umana. Non a caso i “healing garden” (giardini terapeutici) sono divenuti aspetti centrali nella progettazione degli ospedali. Nel rapporto col mondo vegetale l’essere umano trova un riscontro di benessere che altrove gli manca: è questa la grande scoperta compiuta da Roger Ulrich con lo studio da lui pubblicato su Science nel 1984. Da allora il tema del giardino ha assunto una dimensione nuova nella progettazione non solo di ospedali, ma della città nel suo complesso.

Una città che, per essere veramente per l’essere umano, non può non essere partecipata dall’essere umano.

Al riguardo ricordiamo alcuni aspetti emersi nei servizi pubblicati su Avvenire. Un ragazzino di borgata, portato a visitare il centro storico di Roma, notava come dovesse essere triste vivervi: come si fa a giocare nelle strade trafficate, a vivere nelle case-monumento? Invece in borgata si corre per i prati e coi legni e le cianfrusaglie che si trovano abbandonate in giro si costruiscono piccoli mondi pieni di avventura. Anche in questo la periferia è luogo del possibile, e il centro è luogo da “guardare ma non toccare”.
La partecipazione della gente è essenziale. Ottavio Di Balsi, che da molti anni si occupa delle iniziative di Renzo Piano per le periferie e in particolare del quartiere Ponte Lambro a Milano, notava che qui è stato il suggerimento di una signora a dare una svolta importante. Questo quartiere era noto per essere in gran parte penetrato da trafficanti di droga. La signora ha proposta di deviare il percorso dell’autobus, così che questo passasse nella via dove maggiormente operavano spacciatori e trafficanti. È bastato questo per allontanarli: se in una via, in una piazza, in un caseggiato vi sono tante persone impegnate nella vita e nel lavoro di tutti i giorni, le attività criminali, che devono scegliere l’anonimato e l’ombra, difficilmente vi si diffondono. Un piccolo intervento a “costo zero”: ma ha cambiato molto nella vita del quartiere.

Il coinvolgimento delle persone è tanto più possibile là dove esse non solo possono, ma hanno necessità di migliorare il loro ambiente.

Il fatto che il coinvolgimento degli abitanti consente di svolgere interventi a costi molto ridotti è un grosso vntaggio. Ma qui sorge il problema della corruzione: con bassi costi non si attirano capitali speculativi avidi di profitti a breve e pertanto proni alla corruzione. Infatti ove vi sono fondi pubblici disponibili, questi tendono a essere spesi per grossi progetti eclatanti, che consentono di far circolare molto denaro: le circostanze ideali perché porzioni di questo finiscano in busaelle e tangenti. Pertanto non è detto che tutti gli amministratori delle città siano disponibili alla logica del basso costo.

Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ nota tra l’altro che nelle favelas, di per sé ambiente paradigmatico dell’emarginazione dei poveri e dell’arte di arrangiarsi in spazi di risulta, v’è una vita sociale attiva. Qualcosa che perlopiù manca nei condomini delle famiglie abbienti, che spesso neppure conoscono i vicini di casa. Nelle favelas si fa vita di strada (certo lì il clima aiuta) e da questa può nascere quella solidarietà senza la quale si perde l’umanità.

 

Una favela a Rio de Janeiro (foto Wikipedia)
Una favela a Rio de Janeiro (foto Wikipedia)

 

C’è poi droga, degrado e altro: ma la cocaina anzitutto s’è diffusa nelle classi abbienti, sin dai primi anni Sessanta del secolo scorso, tra persone che vivono nei centri città. Il vizio e la criminalità non sono fenomeni tipici delle periferie: sono fenomeni tipici dell’essere umano degradato e, soprattutto, desideroso di facili guadagni e di vivere una vita di illusioni e di fantasie.

Nel complesso, le periferie vanno rivalutate: sono luoghi dove il cambiamento non solo è possibile, spesso è sentito come necessario.

Il tavolo atorno a cui si raccoglie il grupop di lavoro sulle periferie nello Studio di Renzo Piano al Senato
Il tavolo attorno a cui si raccoglie il gruppo di lavoro sulle periferie nello Studio di Renzo Piano al Senato

Il grande merito dell’iniziativa di Renzo Piano chiamata “G 124” (dal numero della stanza assegnatagli nel Senato e da lui destinata a luogo di incontro per chi porta avanti il suo progetto di sistematico intervento nelle periferie) è di aver riscoperto le periferie come luogo del cambiamento possibile.

Forse è questo l’unico elemento che unisce le periferie più diverse: quelle delle nuove città cinesi e quelle delle antiche città italiane.

E che città sarebbero, se non fossero aperte e desiderose di cambiare? (LS)

 

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