La Via della Seta sulla quale la Cina si è impegnata costituisce l’ancora di salvezza, la possibile via d’uscita dalla tempesta nella quale è sempre, e sempre più invischiato il Medio Oriente. Questa la nota positiva suonata da Lucio Caracciolo, Direttore di Limes, a conclusione della conferenza tenuta il 10 giugno a Milano, presso il Palazzo Edison. Perché i flussi commerciali dal Lontano Oriente con vantaggio passerebbero attraverso un Medio e Vicino Oriente per attraversare l’area mediterranea, avendo come terminale l’Europa centrale e settentrionale.

L’opposizione tra condizione di conflitto e possibilità di commerciare liberamente e fruttuosamente, tra possibilità di creare ricchezza o distruggerla, è sempre esistita. La facilità dei trasporti e delle comunicazioni offerta dalle tecnologie attuali non fa che rendere più pressante l’alternativa, mentre getta ancor maggiore responsabilità sulle spalle degli esponenti politici, per solito incapaci di perseguirne le potenzialità positive impegnati come sono nelle continue campagne elettorali di corto respiro.

Il quadro tracciato da Caracciolo partiva dalla constatazione che gli Stati Uniti, per motivi di peso geopolitico sempre più attratti verso la Cina, appaiono sempre meno interessati a intervenire nella regione mediorientale.

Dati i nefasti risultati sortiti dall’opera statunitense in tale regione, questa non può che essere una buona notizia: basti ricordare come le invasioni in Iraq compiute nel 1991 e poi ancora nel 2003 sono le operazioni che non solo sono risultate in almeno 600 mila morti in quel Paese che era tra i pochi retti da regimi “laici” e relativamente tolleranti della zona, ma hanno anche propiziato prima l’emergere di Al Qaeda, e poi, dopo il 2003, dello “Stato Islamico” costituito dagli ex ufficiali della Difesa irachena che sono stati insipientemente licenziati in tronco da Lewis P. Bremer. Trovatisi caduti nella polvere, quegli ufficiali si sono pian piano riorganizzati: ora con lo “Stato Islamico” la loro politica mira al controllo dell’antica Mesopotamia, ovvero della zona fertile irrorata dalle acque del Tigri e dell’Eufrate il cui “oro bianco” è non meno prezioso dello “oro nero” in quelle zone desertiche.

Nelle condizioni in cui molti Stati arabi sono stati distrutti (dalla Libia alla Siria, con l’Egitto in condizioni agoniche), ora l’Iran, il Paese la cui cultura è quella più favorevole all’Occidente diviene il perno su cui far leva per cercare una nuova condizione di equilibrio nella zona. In tal senso si stanno muovendo gli Usa, ha riferito Caracciolo.

Ovviamente questa tendenza non può che essere temuta e osteggiata da Israele e da Arabia Saudita: in particolare quest’ultima è minata all’interno dal crescente numero di seguaci e ammiratori dello “Stato Islamico”, mentre è a tutti evidente che in prospettiva l’importanza del petrolio sulla scena geopolitica mondiale tenderà sempre più a ridursi.

Riapertasi la corsa alla supremazia nel mondo islamico, che sembrava sopita dal tempo della scomparsa di Nasser, nell’agone in questi ultimi anni si è gettata la Turchia, ora impegnata nella destrutturazione della Siria come strumento per ottenere il proprio obiettivo.

Ma la “buona notizia” della tendenza statunitense a ritirarsi dal Medio Oriente potrebbe essere tale solo se l’Europa volesse riempire quel vuoto con proprie proposte, coerenti e ben organizzate – ovvero assai diverse dall’atteggiamento scompaginato tenuto al momento della “primavera araba”, che vide drammaticamente contrapposti gli interessi francesi e italiani, a discapito della stabilità del Magreb.

Se l’Europa volesse cogliere la palla al balzo e proporsi come potenza unitaria sulla scena del mondo, oggi potrebbe farlo meglio di quanto poté negli anni passati.

Lo farà? È assai dubitevole. Sinora s’è mostrata prona a soccombere alla strampalata tendenza statunitense di cercare di sfruttare l’attuale condizione di debolezza della Russia di Putin per dare addosso a quest’ultima con il pretesto della crisi in Ucraina.

Si sente molto la mancanza di un sano atteggiamento da “Realpolitik” su entrambe le sponde dell’Atlantico. Mentre si attende che l’intesa sempre più stretta tra i BRICS porti a frutti economici effettivi e pertanto a una maggiore stabilità economica per la Russia.

Intanto, nel silenzio generale, stanno cominciando a viaggiare i treni merci che attraverso la Siberia consentono scambi commerciali sulle diverse, nuove “Vie della Seta”. Ma continuano imperterriti i traffici di droga, armi, e di quella nuova forma di schiavo che è individuata come “migrante” nella pubblicistica attuale, cui lo “Stato Islamico” aggiunge anche i commerci di oggetti d’arte e antiquariato potentemente propagandati dalle immagini di distruzione dei siti archeologici diffusi sui mass media mondiali.

Forse, prima ancora che tra pace e guerra, l’alternativa sta nel tipo di operazione commerciale che i governi e le organizzazioni internazionali vogliono favorire. Al riguardo è assai rilevante che pian piano proceda la condanna dei tanti mercati off-shore. Recentemente (17 giugno 2015) la Comunità europea ne ha pubblicato un elenco come segnale di attenzione e indirizzo: la rilevanza con cui tale fatto è stato riportato sugli organi di stampa rende chiara l’idea di quale sia il peso che la politica attuale attribuisce ai sistemi corruttivi istituzionalizzati operanti a livello internazionale. Resterà purtroppo sempre il problema che i tempi della corruzione sono più rapidi di quelli della buona organizzazione.

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