Si apre il giorno 1 luglio a Milano, nel Palazzo Lombardia, la mostra “Sguardi di luce”. Curata da Giovanni Gazzaneo la mostra propone centoventi fotografie raccolte in sei sezioni tematiche: Sguardi di luce, Istanti, Incontri, Lo spazio dentro, Forme senza tempo, L’altra metà del lavoro.
In Sguardi di luce Mandel coglie particolari, anche minimi, e li traduce in immagini quasi astratte: giochi di luce e ombra su una parete, fiori in una vasca, aerei di carta in volo nella Galleria Vittorio Emanuele a Milano. Immagini raccolte nel corso di numerosi viaggi, dall’Europa, al Medio Oriente, all’Asia. Istanti raccoglie una serie di fotografie realizzate tra il 2016 e il 2018 con il telefono cellulare. Con Incontri protagoniste sono le persone. In Lo spazio dentro l’occhio del fotografo si sofferma sulle suggestioni legate alle linee e ai volumi degli edifici, mentre in Forme senza tempo protagonista è la scultura. Infine, L’altra metà del lavoro raccoglie la ricerca di Mandel sul lavoro femminile: una serie di intensi ritratti in bianco e nero. Lo sguardo fugge un approccio retorico e la persona si offre in dialogo con il fotografo proponendo oggetti o simboli legati alla sua attività.
Il progetto della mostra è di Fondazione Crocevia con Fondazione La Rocca, in collaborazione con Regione Lombardia.
Da martedì 1° luglio (inaugurazione ore 18.00) a lunedì 21 luglio 2025.
Spazio Isola Set – Palazzo Lombardia, Piazza Città di Lombardia, 1 – MilanoLa presentiamo riproducendo l’intervista di Giovanni Gazzaneo a Max Mandel, pubblicata col titolo “Questione di orizzonti” nel volume “Sguardi di Luce”, edito da Fondazione Crocevia.
Lo sguardo è la vita. Questo è l’unico, vero segreto di Max Mandel. L’armonia, l’essenzialità, il tutto nel frammento, la bellezza delle piccole cose, e la pace nelle piccole cose, la grazia che tutto tiene e sostiene, l’ombra che nasce solo dalla luce. La sua fotografia è questo. Ma prima ancora è la sua vita. Ho conosciuto Max nel 1989 quando, per una copertina di “Luoghi dell’Infinito”, avevo scelto una sua foto. Allora facevo anch’io fotografia per i reportage del mensile che avevo ideato. Dopo l’incontro con Max ho smesso. Se qualcuno sa fare quello che tu fai con più armonia, più profondità, più verità, la cosa migliore è camminare con lui e guardare il mondo con i suoi occhi, perché anche gli altri possano vedere quel che guardano e non vedono. Lo sguardo di Mandel è orizzonte, non solo orizzonte infinito, ma soprattutto orizzonte del quotidiano. Scoprire con Max la bellezza del quotidiano è avventura che vale la pena vivere, perché proprio nel quotidiano, e non nello straordinario, si gioca la vita di ciascuno di noi.
Come nasce il tuo amore per la fotografia?
Nasce in casa: tra le varie cose di cui mio padre si è occupato, c’è anche la fotografia: architetture, opere d’arte, paesaggi. Ha girato tutta l’Italia, il Medio Oriente, l’India. In casa c’erano macchine fotografiche – da quelle “formato Leica” alle 6×7, fino al formato 10×12 –, treppiedi, lampade e, naturalmente, tante fotografie. Mio padre era inoltre pittore, incisore, ceramista, amico di artisti, e docente di Storia dell’arte, nonché scrittore e psicoanalista: in casa si respirava l’arte. E non solo in casa: le nostre vacanze avevano come meta anche musei, luoghi archeologici, monumenti. Mio padre e mia madre mi hanno dato modo di avvicinarmi con piacere e naturalezza alla bellezza del mondo. Ricordo la prima volta che, da bambino, sono stato a Petra, in Giordania: ancora si dormiva all’interno del sito archeologico, nelle grotte e nelle tende montate vicino al Qasr al-Bint. E poi Venezia, Parigi, il Sud della Francia, la Spagna, la Grecia, la Turchia… Quando ci passano davanti agli occhi queste bellezze, credo sia inevitabile pensare a un certo punto di registrarle con la macchina fotografica.
Quali sono i maestri che hai avuto, ideali e reali?
Il mio primo maestro, come dicevo, è stato mio padre. Non lo accompagnavo nei suoi viaggi fotografici, ma quando a casa fotografava quadri o statue gli facevo da “garzone di bottega”. Alle fotografie di documentazione di opere d’arte, con le lampade e gli apparecchi di medio e grande formato, mi sono avvicinato così: quando penso all’illuminazione delle opere d’arte, mi si riaffacciano alla mente le grandi lampade con le parabole di metallo, ormai “vintage”.
Poi, per quanto riguarda la fotografia di archeologia, padre Michele Piccirillo, l’archeologo francescano che, fino alla prematura scomparsa, ha diretto le campagne di scavo dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme in Giordania. Nel 1988 sono giunto sul Monte Nebo in veste di “manovale volontario”, spinto dall’interesse per l’archeologia. Poi Michele mi ha affidato le foto di scavo, di cui prima si occupava direttamente lui, e da allora è cominciata una collaborazione, e un’amicizia, proseguita per anni.
Oltre ai maestri nel campo professionale, vorrei ricordare che nel mio percorso hanno camminato accanto a me coloro che fanno parte della mia vita: i miei genitori, come ho detto, la mia nonna Nellina, le mie sorelle, Paola e Gabriella, mia moglie Isabella, i miei amici, che hanno per me un’importanza fondamentale, e tutte le belle persone che ho avuto la fortuna di incontrare nel corso degli anni.

E i tuoi maestri per le immagini “astratte”, dal ciclo Sguardi di luce a Istanti?
Direi che fondamentali sono state le opere d’arte viste nei musei. In effetti, alla fotografia sono arrivato in un secondo tempo: il gusto, l’attenzione per la distribuzione delle forme e dei colori nello spazio, per le inquadrature, mi derivano probabilmente, oltre che da una fortunata predisposizione personale, dalla sorpresa e dal piacere di cogliere la bellezza nei dipinti, nelle sculture… E quindi, potrei dire che in questo i miei primi maestri, ideali, sono stati Giotto, Van Gogh, gli scultori greci… Non vorrei sembrare presuntuoso, ma ho cominciato a guardare le opere dei grandi maestri della fotografia quando ormai avevo imboccato una mia strada. Le ho guardate e le guardo non tanto come fonte di ispirazione, quanto per il piacere di vedere qualcosa di bello. Magari trovando uno sguardo in cui mi riconosco.
Come nasce la tua fotografia creativa, che parte dalle piccole cose per farne orizzonti e dà dignità a frammenti del reale che per coloro che guardano appaiono assolutamente insignificanti?
Semplicemente, nasce dal fatto di trovarmi con la macchina fotografica davanti a qualcosa che richiama la mia attenzione. Alla base ci sono, come dicevo, i viaggi, le opere d’arte viste nei musei, ma anche l’affinamento dello sguardo attraverso la ricerca. E ad un certo punto, mi sono accorto che quello che richiamava la mia attenzione erano particolari, ombre, luci… Non mi sono posto il problema se queste immagini, spesso molto, forse troppo, soggettive, piacessero o no agli altri. Non cercavo il consenso, mi dava soddisfazione farle, e mi sembrava inevitabile.
Puoi raccontarci il rapporto tra il viaggio e le tue fotografie?
Tra i miei primi impegni professionali c’è stato proprio un viaggio, all’inizio degli anni Ottanta, in cui ho affiancato mio padre nella realizzazione di un reportage fotografico sulle orme di san Paolo, commissionato da don Antonio Tarzia per la rivista “Jesus”: da Tarso, a Smirne, a Efeso… È stato il mio primo incontro con la Turchia.

I reportage dedicati all’architettura e alle arti, e ai tanti “luoghi dell’infinito” visitati insieme a te, sono stati anche un’occasione per realizzare alcune delle mie fotografie più creative, che presento in Sguardi di luce.
In viaggio ci si trova ovviamente di fronte a realtà, situazioni, persone, nonché condizioni di luce, completamente diverse dal solito, che costituiscono quindi uno stimolo non indifferente. Basti pensare a cosa rappresentava la luce del Belpaese per i pittori del centro e del nord dell’Europa. Inoltre, i viaggi mi offrono delle occasioni in più per fare fotografie. Quando sono a casa, non esco al mattino in cerca di un bello scatto, non vivo con la macchina fotografica al collo. Invece quando viaggio, per lavoro o per vacanza, la porto con me, ed è quindi più probabile che l’abbia sotto mano se trovo un’immagine che vale la pena di riprendere.
C’è naturalmente differenza tra i viaggi di lavoro e quelli di svago. Durante le prime vacanze fatte con mia moglie passavo non poco tempo a fotografare edifici, opere d’arte… Le nostre giornate erano spesso programmate in funzione delle condizioni di luce adatte per riprendere la facciata di una chiesa, o le torri di un castello. Non perché mi fossero state commissionate: direi che era una “deformazione professionale”. Poi, però, con Isabella ho compreso l’importanza di restituire al tempo libero la sua giusta dimensione. Del resto, non ho mai considerato la fotografia come qualcosa di assolutamente totalizzante. Non tutto è fotografabile; non tutto va fotografato; e, soprattutto, esistiamo anche al di là della macchina fotografica. Se da una parte fotografare un’opera d’arte permette di coglierne appieno i particolari (ricordo le ore passate davanti alle Tentazioni di sant’Antonio di Hieronymus Bosch al Museo Nazionale d’Arte Antica di Lisbona, o al paliotto di Volvinio nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano), dall’altra visitare una cattedrale senza necessariamente cercare gli scorci fotografici migliori è per me altrettanto fondamentale.
Cosa pensi di questa moltiplicazione delle immagini grazie agli smartphone e ai social network?
Nel mondo in cui viviamo siamo di fronte a una sovraesposizione di immagini, un inquinamento iconografico che, anche se fotografo, o proprio perché fotografo, mi trova molto critico. Si dice che un’immagine vale mille parole. Naturalmente dipende dall’immagine. Siamo sommersi da immagini che di parole non ne dicono che poche, o magari ne dicono molte, ma di nessuna consistenza. Non dimentico mai un aforisma di William Saroyan: «Un’immagine vale mille parole, certo, ma solo se quando la si guarda si dicono o si pensano queste mille parole». È un po’ drastico – perché un’immagine parli non è necessario che sia ascoltata –, ma è assolutamente vero che in un dialogo è necessario l’impegno, la partecipazione di chi ascolta…
D’altronde, non tutte le situazioni belle da vedere possono diventare delle belle fotografie: per fare l’esempio più banale, non di rado dei tramonti stupendi, imprigionati nelle due dimensioni di qualche decina di centimetri quadrati, si riducono a cartoline stereotipate. Un bravo fotografo non è solamente quello che sa quando fotografare, ma anche quello che sa quando non fotografare.
C’è una grazia, una levità non solo in Sguardi di luce, ma in tutte le tue foto. Da cosa nasce? È nel tuo modo di guardare te stesso, gli altri, il mondo?
Non so spiegarlo. Anche se la mia fotografia non può che nascere, appunto, dal mio modo di guardare me stesso, gli altri, il mondo.
Gli ambiti originari della tua fotografia sono l’archeologia e l’architettura. Oltre a indicare le ragioni di questa scelta, mi puoi dire se questo ha influenzato il tuo modo di vedere le cose e il mondo: un continuo andare dall’insieme al particolare e dal particolare all’insieme…
L’archeologia è un’altra delle cose che ho respirato in casa da bambino. E per l’architettura ho sempre avuto una passione. Tanto è vero che, per l’università, fino all’ultimo sono stato incerto se iscrivermi ad Architettura; poi ho scelto Lettere antiche con indirizzo archeologico, frequentando corsi di archeologia greca, romana, etruscologia, geografia del mondo antico… Ma non ho terminato gli studi. Poi, come dicevo, c’è stato l’incontro con padre Piccirillo e ho potuto riaccostarmi all’archeologia come fotografo. Credo però che il mio modo di vedere il mondo non sia legato solo a questi aspetti, ma a tutto l’insieme di cose che mi ha portato a essere quello che sono.
La storia della fotografia è un orizzonte in te ben presente. È oggetto del tuo studio, del tuo collezionismo. Come porti in te questa storia?
Quando tengo dei corsi, mi piace partire proprio dalla storia della fotografia. Ricordare in primis che è un’invenzione molto particolare. Le fotografie nascono quando l’apparecchio per realizzarle esiste già da anni. Mi riferisco naturalmente alla camera ottica, utilizzata da pittori come Canaletto, Vermeer… È diventata macchina fotografica quando Niepce, Talbot, Daguerre hanno trovato il modo di fissare “automaticamente” le immagini su un supporto. La fotografia nasce quindi accanto alla pittura. E le mie fotografie nascono anche a partire dalla frequentazione dei dipinti.

Il cinema muto è una delle tue passioni. Vedi qualche parallelo tra il tuo fotografare e le origini della settima arte?
Il cinema trae origine dalla fotografia: nasce come una sequenza di fotogrammi che scorrono davanti ai nostri occhi e, grazie al meccanismo del proiettore, ricreano il movimento. Il cinema muto è immagine e movimento. Ma la mancanza del parlato non è una “carenza”. Certo, man mano che si procede negli anni, gli intertitles – le “didascalie”, quelle scritte che appaiono sullo schermo e riportano i dialoghi – si fanno sempre più numerosi, perché le situazioni si fanno più complesse. In realtà non c’è una regola precisa: i film dei fratelli Lumière, della fine dell’Ottocento, non hanno intertitles; Steamboat Bill Jr., di Buster Keaton, del 1928, ne ha una sessantina; Girl Shy, con Harold Lloyd, del 1924, ne ha quasi cento, e ormai anticipa le grandi commedie del sonoro. Ma Der letzte Mann di Friedrich Murnau, sempre del 1924, ne ha solamente tre. Sono le immagini a parlare. Come, credo, nelle mie fotografie. Aggiungo che non è “impegnativo“ vedere un film muto; può essere impegnativo vederlo nel più completo silenzio, senza cioè l’accompagnamento musicale, che è fondamentale. Presentando film muti con accompagnamento dal vivo ho avuto occasione di conoscere musicisti di grande valore. La musica è armonia, come tutte le arti, come il cinema, come la fotografia. È anche una delle mie passioni: io e mia moglie andiamo spesso a sentire concerti. Tra l’altro, ho studiato chitarra classica, e mi sono anche rivolto al liuto: confesso che però ormai non dedico loro molto tempo.
Torniamo al viaggio. Le tue foto, che hai chiamato originariamente Appunti di viaggio, sono anche frutto del tuo metterti in cammino tra Oriente e Occidente. Molte di queste immagini, penso al tovagliolo con bottiglia, agli attrezzi da cucina, al sacchetto con le cipolle, alle ombre e ai riflessi, potevano nascere in casa o sotto casa… e invece sono come “scoperte“ che necessitano di un cammino, quasi un esercizio dell’occhio e dello sguardo per arrivare a vedere proprio quella cosa lì. Puoi raccontarci la necessità di creare, non una distanza, ma un percorso tra te e ciò che ritrai. Quasi un cammino a tappe, dove la tappa diventa l’immagine che è insieme scoperta e rivelazione.
No, non potevano nascere in casa o sotto casa, perché non sono costruite, non sono create. Foto come quelle di Sguardi di luce le trovo, non le cerco: nascono dall’incontro casuale con una realtà che scopro all’improvviso e mi colpisce. E quindi non potevano che nascere là dove sono nate. E sono frutto di un cammino che mi ha portato a essere là, nel momento giusto. Penso alla bicicletta di monaco di Baviera. Non appena ho scattato la foto, ho sentito un rumore di metallo al di là del vetro: il proprietario della bici era arrivato, ha tolto la catena che la bloccava, e in un secondo è sparita. Ma a quanti mi dicono «se tu fossi arrivato più tardi, cosa avresti perso!», rispondo che, in un certo senso, non avrei perso nulla; o per lo meno, non saprei di avere perso qualcosa: avrei visto una finestra uguale a tante altre finestre, e sarei passato oltre. La vita è fatta anche di queste situazioni; ma quello che conta, sono gli appuntamenti a cui sono arrivato in tempo.

Per quanto riguarda l’esercizio dell’occhio e dello sguardo, direi che c’è più esercizio nelle foto di opere d’arte, pitture, sculture, architetture: i trucchi del mestiere, il bilanciamento del colore, delle luci, gli obiettivi adatti. Sono immagini più “faticose”: nelle foto di Sguardi di luce, molte delle quali non a caso nascono mentre sono in vacanza, c’è divertimento, non fatica.
Diverse immagini di Sguardi di luce sfuggono a una comprensione immediata.
In effetti, immagini che per me sono frutto di una lettura che nasce spontanea, per molti non lo sono. In alcuni casi, è lo stesso soggetto della foto che non viene percepito come “fotografabile”. Porto come esempio l’immagine del ristorante in Marocco, del 1996: stavamo pranzando, ho visto il bicchiere, il tovagliolo, la tenda gialla sullo sfondo, e li ho fotografati, senza pensare ad altro. Mi ha raccontato poi mia moglie che le persone che erano con noi si sono rivolte a lei, alcune incuriosite, alcune perplesse, cercando di capire cosa stessi riprendendo.
In altri casi, è il risultato dello scatto che, senza una spiegazione ad hoc, risulta poco “decifrabile”. Per quanto riguarda ad esempio l’immagine alle pagine 138-139, in un primo tempo avevo scritto nella didascalia semplicemente Ciclista. L’ho poi modificata in Il passaggio del ciclista; ma è comunque opportuno spiegare che, mentre fotografavo la saracinesca, è passato velocemente un ciclista, e tutto quello che di lui è rimasto impresso nell’immagine è una scia orizzontale lasciata dal suo caschetto bianco… O ancora, il riflesso in Villa Manin: metà della vasca era riparata da un muro, e quindi nella foto si riescono a vedere i sassolini sul fondo, mentre nella metà non schermata si riflette una parte della villa, con il cielo e una delle statue alla sommità; le due ombre orizzontali che vediamo sono appunto quelle delle statue. Invece, gli aeroplanini nella Galleria Vittorio Emanuele erano stati “catturati” da una rete traforata posizionata per un restauro. E l’immagine con la palma e la nave a Malaga è riflessa in una finestra deformata. Dovrei continuare con molti altri esempi… Ma vorrei solo aggiungere che spesso le persone mi chiedono se si tratta di immagini costruite, o modificate successivamente al computer. No: come dice Henri Cartier-Bresson, sono proprio “parte della realtà”. Una realtà che è assolutamente affascinante senza che sia necessario apportarvi alcuna modifica.
Cosa ti fa dire “questa è una buona fotografia”?
Il termine “buona” indica un giudizio di qualità, più che di impatto visivo. Che è altro dalla “bella fotografia”. Se parliamo di “buona” fotografia, direi: l’esperienza. Quando ho cominciato a fotografare c’era per me il fascino della novità, della scoperta: era più facile considerare “buona” un’immagine. Eravamo io, il mondo che mi stava intorno e la macchina fotografica. Le mostre nascevano dall’entusiasmo di condividere con gli altri le mie “scoperte”. Ora, le cose sono un poco più complesse: una buona fotografia è un’immagine che non dice qualcosa di già detto, di già visto. È più difficile… Se poi non sono fotografie “per mio uso e consumo”, ma vanno anche in mostra, divento ancora più selettivo.

Parlami dei cicli che presentiamo in questa monografia.
In breve, Sguardi di luce racchiude le immagini che ho presentato nelle prime mostre come Appunti di viaggio: particolari, riflessi su un vetro o su una lamiera, giochi di luce e ombra… Con Incontri protagoniste sono le persone. In Lo spazio dentro mi soffermo sulle suggestioni legate alle linee e ai volumi degli edifici, mentre in Forme senza tempo l’attenzione è rivolta alla scultura. Istanti è dedicato alle fotografie realizzate con il cellulare. Ritengo che questi cicli siano strettamente connessi tra loro: si tratta di immagini che nascono tutte dal mio modo di vedere la realtà. E si rispecchiano tutte nelle parole di queste pagine.
Per quanto riguarda Istanti, posso ampliare un poco la riflessione: come ho detto, non porto sempre con me l’apparecchio fotografico; non vado a caccia di immagini. La reflex è spesso a casa. Ma, naturalmente, capita sempre l’immagine che mette tutto in discussione: “perché non ho portato la macchina fotografica?”. Lo smartphone è stato un po’ l’uovo di Colombo, che ha messo pace tra il fotografo e l’“iconoclasta” che mi porto dentro. Anche grazie al formato quadrato di Instagram, nel realizzare queste immagini ho rivissuto il gusto delle prime fotografie, la sorpresa dell’inquadratura, la meraviglia dell’inaspettato.
Infine, L’altra metà del lavoro: ritratti in bianco e nero. E qui il discorso è diverso…Per un certo periodo di tempo, la figura umana non ha occupato uno spazio di primo piano nelle mie fotografie. Immagini come quelle alle pagine 196 e 197, o a pagina 202, sono indicative: la figura faceva parte del paesaggio o, meglio, dell’inquadratura, della scena. Ma non era in diretta comunicazione con me. Poi, nel 2007, ho esposto al Caffè letterario Assenzio, a Rimini, e l’anno dopo, sempre a Rimini, mi hanno chiesto di affiancare con una mia personale una mostra di donne artiste, “Manifesta”. Ho accettato subito, salvo poi rendermi conto che non potevo ripresentare le mie solite immagini, ma avrei dovuto proporre qualcosa che si collegasse con l’esposizione. Un mio sguardo sulle donne. È nata così L’altra metà del lavoro. Ho cominciato con persone a me vicine: mia madre Carla, Luisa che mi ha presentato Alba, Andrea… Poi Chiara, feltraia, mi ha proposto di fotografare lei e le sue colleghe in Val Pellice: e lì sono arrivate anche Paola, Valdina, Nadia… E poi a seguire. Da allora ho scoperto il ritratto, con grande gioia.
Bianco e nero e colore sono due modi non solo di fotografare ma di esprimere la realtà: come li vivi nella tua ricerca?
Sono partito dal colore, dalle diapositive. Alcuni dicono che il bianco e nero è più difficile del colore. Non sono d’accordo, come spesso non sono d’accordo su quei giudizi tranchant che vogliono trovare una ricetta che vada bene per tutto, senza considerare le mille sfumature che possono esserci. Il colore è difficile, perché un’immagine in cui le diverse tinte siano tutte in gradevole rapporto tra di loro, e non prevarichino la composizione, non è poi così facile da ottenere. In ogni caso, fotografo a colori (anche perché le immagini di dipinti o architetture mi vengono richieste per lo più a colori), ma mi piace, poi, trasformare in bianco e nero le immagini che si prestano. Certo, il bianco e nero raggiunge l’essenzialità; ma dipende anche dal soggetto: molti soggetti sono essenziali anche a colori.
In te Oriente e Occidente trovano una sintesi che viene da lontano, dalla nobiltà afghana. Raccontaci di questo mix di culture, lingue, religioni…
La mia famiglia paterna è di lontane origini afghane, più precisamente della regione dell’Helmand. Parliamo di secoli fa, già il padre di mio nonno era nato in Ungheria e mio nonno in Italia. Questo non ha però impedito loro di mantenere contatti con l’Afghanistan, tanto che mio padre nel 1938 e nel 1939 vi passò le vacanze estive, ospite di un lontano parente. Mio padre era musulmano e sufi; sua madre era ebrea, e in casa nostra non mancavano incontri con dotti amici rabbini. Come non mancava il mondo cattolico, da parte di mia madre (il catalogo di una mostra di mio padre al Centro San Fedele a Milano, nel 1991, aveva la presentazione del cardinale Carlo Maria Martini). Ho quindi avuto la fortuna di crescere in un ambiente con ampi orizzonti, umani e culturali, e ho respirato da sempre l’aria dell’incontro, non dello scontro. Penso che sia grazie a questo mix che l’“altro” per me non è mai stato “altro”. Preferisco la collaborazione alla competizione. Purtroppo, vediamo sempre più intorno a noi una competizione che sfocia in violenza: a livello di Stati, di individui, ma anche in ambiti che dovrebbero esserne lontani, come ad esempio gli spalti di uno stadio. Bisognerebbe ricordarsi sempre che le competizioni sportive sono definite anche “incontri”. Non “scontri”. I contendenti si incontrano e gareggiano nel segno di una passione che li accomuna.
Per tornare all’Afghanistan, purtroppo le note e troppo spesso dimenticate vicende che lo hanno martoriato hanno impedito per lunghi anni a mio padre di ritornarci e a me di visitare questo paese così ricco di archeologia e di storia. Ma in un raro momento di quiete, nel 2008, ho avuto l’eccezionale occasione di presentare una mostra delle mie fotografie all’Ambasciata d’Italia a Kabul.

Ti senti un ponte, un abbraccio, un alpinista che guarda dall’alto e sa di cogliere orizzonti altrimenti impossibili?
Sono definizioni molto poetiche: un ponte e un abbraccio le sento mie; l’alpinista in parte sì (amo trascorrere le vacanze in montagna), ma mi piace pensare che gli orizzonti siano sempre e comunque possibili.
Max è così, lui non concepisce orizzonti che non siano alla portata di tutti. Sì, la bellezza che sa esprimere è la bellezza del quotidiano, la bellezza che hai sotto gli occhi. Ma guardare non basta per vedere. La visione è come la capacità di comprendere, come la capacità di ascolto: è un cammino, è un processo, a volte graduale, a volte arduo e lungo, a volte istantaneo, ma sempre richiede una ricerca, un desiderio di andare oltre, la forza di non dare nulla per scontato, di non rassegnarsi alla prigionia della superficie delle cose, della natura, delle persone. Vedere è un esercizio di libertà. E perché la visione sia libera (e liberata) sono necessarie tante cose: l’intelligenza, lo studio, l’esperienza, l’intuizione, il gusto… Tre cose però sono davvero indispensabili: l’umiltà, la gratitudine, la gioia. Prima che negli occhi sono nel cuore. E lo sguardo di Max ha la trasparenza della vita.

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