A mezzogiorno di mercoledì 3 marzo 2011 l’agenzia Xinhua annunciava che 35.860 cittadini cinesi, perlopiù operai e tecnici, erano stati evacuati dalla Libia dove si trovavano per lavorare alla costruzione di infrastrutture. Il governo cinese mobilitò una nave passeggeri, 20 aerei civili e quattro militari, e l’operazione fu conclusa con esemplare rapidità. Oltre ai propri cittadini, i cinesi evacuarono anche più di 2000 cittadini di altri paesi, mentre si infiammava il conflitto che avrebbe portato alla caduta del regime di Gheddafi e precipitato il paese nordafricano in un caos del quale ancora non si vede soluzione.

Tenere a mente questo fatto aiuta a leggere, per contrasto, quella grande quanto tardiva e decadente manifestazione di neocolonialismo occidentale, messa in campo da Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna nell’ambito di quell’ondata di rivolte nota come “primavera araba”. La vasta e intricata operazione neocoloniale è descritta con ampio uso delle fonti disponibili sulla scena massmediale da Paolo Sensini nel volume “Libia. Da colonia italiana a colonia globale”.

I fatti, ridotti all’osso, sono noti: nel febbraio del 2011 gruppi anti Gheddafi hanno dato luogo a una ribellione contro il regime con l’evidente sostegno della Francia di Sarkozy. Nel volgere di alcuni mesi il conflitto interno si è allargato. Nel mondo quanto stava avvenendo in Libia è stato presentato come brutale repressione operata dal regime contro gli insorti tanto che la stessa Onu si è espressa con una risoluzione contro Gheddafi (n. 1973, 17 marzo 2011, la risoluzione stabilisce una “no fly zone” sui cieli libici in tal modo consentendo l’intervento aereo delle forze occidentali a sostegno degli insorti). Si è costituita una coalizione di diversi paesi, alla quale ha aderito anche l’Italia, che ha apertamente sostenuto gli oppositori del regime, fino a che la caduta di Tripoli e la cattura di Gheddafi e il suo barbaro assassinio non hanno messo fine alla dittatura di quest’ultimo, aprendo un periodo di instabilità conflittuale tra le 140 tribù esistenti nel territorio libico: qualcosa che ricorda vagamente quanto già in passato avvenuto in Somalia.

L’Italia, che colonizzò la Libia nella prima metà del ‘900, dopo la presa di potere di Gheddafi (1969) grazie in particolare all’Eni era riuscita a mantenere un rapporto equilibrato col regime ma, dopo i fatti del 2011 ha perso i vantaggi acquisiti e lo sfruttamento delle risorse naturali libiche è passato sotto il controllo di compagnie petrolifere angloamericane e francesi. Oltre all’Italia è rimasta scornata anche la Cina, cui Gheddafi aveva promesso concessioni negli anni futuri, e in simile situazione si trovano la Russia e la Germania, che a loro volta avevano prospettive di rapporti privilegiati con la Libia.

Rapporti privilegiati che invece, evidenzia Sensini nel capitolo sulle cause della guerra, il più interessante del volume, Gheddafi aveva negato alla Francia per quanto in un accordo del 2007 avesse preso impegni anche verso il paese transalpino.

Nel 2011 la Lybian Investment Authority (Lia) disponeva di un capitale di 200 miliardi di dollari, che investiva in diverse aziende occidentali, tra le quali la Finmeccanica, il maggiore produttore di armi in Italia. Non solo, Gheddafi usava i capitali di cui disponeva per investimenti tramite la Lybian Arab African Investment Company in 25 paesi dell’Africa subsahariana, “programmando di accrescerli – scrive Sensini – soprattutto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni”. In pratica, Gheddafi si stava profilando come un cospicuo finanziatore per lo sviluppo economico indipendente del continente nero: l’ultimo grande bacino di sviluppo ancora da industrializzare – insieme con la Siberia, la zona del mondo che presenta le maggiori prospettive di crescita nei prossimi anni.

Secondo Sensini, Gheddafi mirava a costituire un blocco continentale africano che includesse anche gli stati arabi e l’Iran. In tale prospettiva gli investimenti libici erano stati fondamentali per realizzare i primi due satelliti per le comunicazioni continentali operati dalla Regional African Satellite Communications Organization (Rascom). Non solo, gli investimenti libici erano stati cruciali anche per la realizzazione della Banca africana d’investimento (con sede a Sirte, in Libia), del Fondo Monetario Africano basato a Yaoundé in Camerun e della Banca Centrale Africana con sede in Abuja, la nuova capitale nigeriana.

In pratica, dalla fine del primo decennio del XXI secolo in Africa, anche – forse soprattutto – grazie alle iniziative e ai quattrini libici si è messo in moto un processo di armonizzazione economica che favorirà – quando e se potrà continuare – la nascita di un mercato comune africano. Ma questo inevitabilmente toglierà di mezzo i residui del vecchio colonialismo europeo, a partire dall’influsso che la Francia continua a esercitare sulle sue ex colonie tramite il franco, che esse usano per le loro transazioni.

Ecco dunque le ragioni per le quali, non appena ne ha colto l’opportunità, l’allora presidente francese Sarkozy s’è dato daffare per rovesciare Gheddafi. E l’interesse americano per i 200 miliardi di dollari del fondo sovrano libico, in condizioni di crisi finanziaria, ha fatto il resto.

Sarkozy e Cameron, capi dei governi francese e britannico all’epoca dei fatti.

I ribelli anti Gheddafi, dimostra Sensini con ampia dotazione di prove, appartenevano al gruppo terroristico al Qaeda il cui centro principale in Libia, Bengasi, è il luogo in cui si raccoglieva il numero maggiore di potenziali attentatori che operano nel mondo e dal quale si sono diramate verso Irak e Siria le propaggini militari che hanno promosso il Daesh.

Ne viene un desolante quadro in cui il paese guida del mondo occidentale, gli USA, pur di mantenere le proprie posizioni di privilegio in campo economico e in particolare in quello delle materie prime e del mercato degli armamenti, favorisce, come prese a fare con la guerra antisovietica in Afghanistan nei primi anni ’80, il fanatismo terroristico islamista lasciando, man mano che diffonde tale strategia, un seguito di paesi destabilizzati, sconvolti, distrutti, in preda alle convulsioni della violenza fanatica.

Un fenomeno che recentemente Noam Chomsky ha descritto, parlando dei contorcimenti della dirigenza del Partito democratico Usa che si ostina a sostenere la Hillary Clinton, come la tendenza di chi, nel Titanic che affonda, anziché cercare di salvare il salvabile, sgomita per mantenere i privilegi della Prima classe.

Ma la Cina, ch’è stata in grado di portar via dalla Libia con impeccabile manovra logistica i suoi 35000 cittadini, non se ne andrà dall’Africa, dove da tempo s’è insediata con operazioni che le rendono nota non quale potenza coloniale ma quale partner economico. E in tali circostanze resta la domanda, se l’Europa voglia insistere in imprese violente quanto autodistruttive come quella compiuta in Libia nel 2011 (tra l’altro, smembato lo stato libico, le mafie che gestiscono il traffico dei migranti sono prosperate quanto mai avrebbero potuto prima), e dettagliatamente descritta nel libro del Sensini.

Paolo Sensini “Libia. Da colonia italiana a colonia globale”. Jaca Book, 224 pagine, 16,00 Euro

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