di Paolo L. Bernardini e Elisa Bianco
La mostra, inaugurata, il 3 maggio 2024 a Como, “Il catalogo del mondo. Plinio il Vecchio e la storia della natura”, curata da Gianfranco Adornato della Scuola Normale Superiore di Pisa, allestita presso la ex-chiesa di San Pietro in Atrio e al Broletto del Duomo – ma anche mostra diffusa in città con diverse opere collocate in punti strategici – chiuderà alla fine di agosto 2024. Punto fermo di due anni di celebrazioni del bimillenario pliniano dalle dimensioni decisamente internazionali – il Vecchio nacque certamente a Novum Comum, ma non si sa se nel 23 o nel 24 d.C. – la mostra è accompagnata da un ricco catalogo, curato con attenzione dal medesimo Adornato, che ci conduce nelle vicende della ricezione, trasmissione, trasformazione della Naturalis Historia, vicende già abbondantemente indagate dalla letteratura, e ora riprese dall’intensa attività del Comitato Plinio2023 – presieduto da Luca Levrini della Fondazione Volta e dell’Università dell’Insubria, e con un presidente onorario d’eccezione, uno dei maggiori latinisti europei, Gian Biagio Conte, anch’egli della prestigiosa Scuola Normale pisana, e artefice, con Italo Calvino, dell’edizione Einaudi dei primi anni Ottanta: tuttora l’unica edizione completa della Naturalis Historia in italiano, in attesa che, nel 2025, probabilmente, veda la luce presso La Nave di Teseo la nuova edizione, culmine e lascito, insieme, perenne, dell’attività del Comitato. Da non dimenticare il contributo di Massimiliano Mondelli presidente dell’Accademia Pliniana, che da molto tempo tiene viva in città, e non solo in città, la memoria del grande autore. Il catalogo è pubblicato, con ricche e dettagliate illustrazioni, dalle edizioni IlSole24 ore Cultura.
Questo premesso, doverosamente, per cronaca, occorre dunque chiedersi, tra l’altro, per scendere verso un discorso maggiormente teoretico, cosa resti davvero di Plinio all’inizio del millennio terzo, perché (e se) il politico, lo scrittore, l’osservatore e l’erudito del primo secolo, il cantore scientifico dell’Impero al suo esordio e già vicino al suo apogeo, possa ancora, detto banalmente, e brutalmente, “dirci qualcosa”. “Cosa è vivo e cosa è morto in Plinio”, dunque, parafrasando il Croce interprete di Hegel. Sono rare le monografiche dedicate a personaggi della romanità, e ancor meno quelle che riguardano il mondo greco classico. Anche per la difficoltà, oggettiva, nel trovare oggetti da mostrare, come appare ovvio. In qualche modo, occorre spesso se non sempre riferirsi ad una tradizione successiva. La tradizione ad esempio qui degli incunaboli, delle illustrazioni basate su ipotesi e congetture, che si accompagna alla tormentata vicenda ecdotica, patria della filologia. In fondo il lascito ha sempre una sua materialità, una sua concretezza, e nulla di più concreto, diceva Hegel, del concetto, del pensiero, che sembra all’opposto immensamente astratto. Per rimanere in ambito classico e imperiale: un fine enogastronomo genovese, Umberto Curti, in un libro di diversi anni si chiedeva che cosa restasse di Apicio – del primo chef stellato e compilatore di ricettari del mondo occidentale – “in cucina”. Il volume, del 2010, Tempo mediterraneo. Quel che resta di Apicio in cucina, prende in esame il contenuto, e la tradizione apiciana attraverso il destino dei frammenti rimasti del de re coquinaria, l’opera per cui andava famoso. Nato a cavaliere tra il primo secolo a.C. ed il primo dell’era cristiana, Apicio, crapulone ed eccessivo, non credo sia stato amato molto da Plinio (che ne mette in luce, tra l’altro, lo snobismo in NH, XIX, 137). Ma in fondo anch’egli era animato da spirito enciclopedico, almeno per quanto riguarda la cucina, tema peraltro che torna spesso nella Naturalis Historia, con singolare attenzione per quel che dalla natura, in concreto, si può ottenere. Cosa resta, dunque, di Plinio, nella scienza naturale, nella filosofia, nella storia della cultura?
Una chiave di lettura la fornisce proprio questa mostra, oltre al catalogo che l’accompagna, e insieme ci dischiudono mondi davvero inquietanti, a saper guardare oltre le righe, le tele, i marmi. Non solo inquietanti, forse angoscianti, abissi veri e propri, della coscienza prima che del pensiero. Tutto nasce dall’incontro, dialettico, potenzialmente micidiale, tra la fissazione del sapere sulla carta, o altrimenti, con lieve sfumatura di differenza, ma profonda analogia concettuale, della bellezza e dell’umanità nella pietra – la scultura classica che domina la scena in questa mostra, e nel catalogo che l’accompagna, con le sue inquietanti rivisitazioni moderne, di cui parleremo – e l’eterno fluire della vita. Per quanto Plinio abbondantemente parli di scultura e pittura, ebbene al centro della sua opera vi è la natura viva, “natura naturans” e “natura naturata”, per usare categorie epistemologiche, ma anche euristiche, di epoca più tarda. Tale dialettica non poteva che esplodere in un secolo di apparente armonia, conciliazione, soddisfazione di sé, autocompiacimento nell’Impero che aveva fatto “di tutto il mondo una città sola”, tanto che quando essa cadde, col primo di tanti sacchi, nel 410 (l’ultimo fu nel 1527) Girolamo ebbe a scrivere: «Quando in verità la luce fulgidissima di tutte le terre fu distrutta, anzi fu troncato il capo dell’Impero romano e, per dirlo ancora con più chiarezza, in una sola città tutto il mondo è perito, tacqui e ne fui prostrato». Ma nel primo secolo non solo le genti, ma anche la natura sembra dominata, al servizio dell’Impero, e dei suoi cittadini (nella natura vanno compresi gli uomini non liberi, ovvero gli schiavi, e gli stessi nemici non ancora sopraffatti di Roma). Questo senso di dominio dell’uomo sulla natura lo esprime bene Plinio, in diverse occasioni. La natura è fatta per servire l’uomo. Anche se occorre rispettarla, obbedirle se la si vuole dominare. “Natura, non nisi parendo, vincitur”, dirà Francesco Bacone, lettore di Plinio, ad inizio Seicento. Come Plinio, Bacone scriveva entusiasta e fedele suddito di un Impero che stava sorgendo, allora, quello inglese, e che sarà tale da oscurare ampiamente, non per durata, ma senz’altro per dimensioni, quello romano stesso. Il mondo nuovo ancora non v’era, ai tempi di Plinio, anche se, come dimostra una dei bei saggi all’interno del catalogo, gli strumenti concettuali per affrontarlo, almeno tra geografia e natura, li aveva forniti già Plinio un millennio e mezzo prima di Colombo. La tradizione ebraica, assente forse del tutto in Plinio, considerata sapere poco scientifico e ignorata, forse inserita tra le superstizioni del passato, in fondo, aveva detto lo stesso: proprio all’inizio del libro della Genesi: “Poi Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza, e abbia dominio sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».” Questa posizione verrà ripetuta spesso: “Dio benedisse Noè e i suoi figli, e disse loro: «Crescete, moltiplicatevi e riempite la terra. Avranno timore e spavento di voi tutti gli animali della terra e tutti gli uccelli del cielo. Essi sono dati in vostro potere con tutto ciò che striscia sulla terra e con tutti i pesci del mare. Tutto ciò che si muove e ha vita vi servirà di cibo; io vi do tutto questo, come l’erba verde»”.
La natura, tuttavia, il ciclo della vita, la sua immensa varietà, può certamente essere fissata nel sapere, ma nel suo infinito evolversi essa non solo muore, ma costringe alla morte anche quel sapere stesso, che non riesce a tenerle dietro. L’eternità è solo nella mutazione, l’elemento della morte – che la filosofia stoica vedeva in un dissolvimento atomistico non meno di quella epicurea – è solo apparentemente esorcizzato dal momento enciclopedico, dall’onniscienza che Plinio, forte di quell’arroganza del pensiero che si troverà poi per esempio nell’idealismo di un Fichte secondo Adorno – pensa di possedere, o ha creduto di raggiungere con la propria opera. La natura è disordine, mutamento, trasformazione continua: è decadimento, marcescenza, putredine. Qualcosa che si teme, poiché si ritiene il mondo fissato per sempre sotto le ali rassicuranti dell’aquila imperiale. Sembra un mondo perfetto. Eppure la mutabilità viene ricordata, assai spesso e quasi con tenerezza, mista a paura, nell’opera pliniana. Si pensi solo alla descrizione dei cuccioli dell’orsa – che hanno ispirato anche Giotto per il ciclo della Cappella degli Scrovegni come mirabilmente ci dice Giuliano Pisani in uno dei saggi del catalogo – che sono una massa informe, ma vivissima, una specie di ectoplasma indistinto, ma pulsante, ma vivo, che le cure di mamma orsa rendono distinto, scindendo la massa vivente in creature particolari, dando loro dunque prima vita, poi forma (la “natura naturans”, si potrebbe dire, che diviene “natura naturata”). Ma una vita destinata alla morte, l’immortalità sembra essere solo quella del marmo, del bronzo, materiali pure alla lunga deperibili, e finalmente della parola, della scrittura, questa davvero immortale, se anche periscono i codici, le membrane, i papiri su cui il testo è scritto. Ma il testo permane.
Siamo dunque, che se ne abbia percezione o meno, ad un crocevia della Storia. La splendida, perfetta fusione tra filosofia morale e naturale stoica e costruzione politica dell’Impero sembra dare un equilibrio sia al mondo, sia all’individuo, all’individuo che come Plinio in esso, nella sua potenza ed estensione, si riconosca e vi occupi una posizione se non centrale, quantomeno di rilievo. Vi è purtuttavia un’infinita tristezza in questo mondo di atomi e di soldati, di confini e di leggi. Che lo si voglia catalogare interamente per disfarsene, per cercare di anelare, quantomeno, se non raggiungere un mondo nuovo? Che la figura di Cristo e la nuova religione “di carne e sangue” non giunga come una necessità in questa “satietas” politica e intellettuale tutta intesa a concepire il futuro come perpetuazione di se stessa, e di eliminare il passato che non sia assimilato, il mondo greco che si vede come maestro, ma insieme come qualcosa che si è totalmente assimilato, neutralizzato, incorporato come una conquista? Certamente, ancorata com’è a quella vita e a quella morte così inspiegabili, così disordinate, così “umane” perché naturali, la nuova religione non rientra, con le sue sciocchezze, come dice Plinio che qualcosa dall’Oriente aveva evidentemente orecchiato, riguardo, ad esempio, all’ “immortalità dell’anima”. Il mondo pagano giunge al suo culmine nel primo secolo, ma inizia anche, in questo modo, la sua decadenza. Il magmatico bollore degli orsetti fusi insieme, palpitanti, caldi, informi, gelatinosi quasi, preme come una necessità storica, prima che come semplice istanza di vita. Plinio cataloga, ma, dolorosamente, sente sfuggirgli qualcosa.
La mostra ci porta, e non potrebbe essere altrimenti, non la natura, che poi è tutt’intorno a noi, mutata ma neppur troppo rispetto ai tempi di Plinio – non la natura che l’oggetto principale del catalogo frenetico, ossessivo quasi di Plinio – ma proprio la sua negazione, l’arte, con una quantità davvero notevole di busti e sculture. Il tentativo dell’uomo, onesto ma patetico, di fissare il transeunte, di ambire all’eternità, intesa come fissità.
Non è casuale quindi che due notevoli artisti contemporanei abbiamo voluto, nella mostra, inserire l’istanza della vita, della marcescenza, del transeunte, nel paradosso dell’eternità di un marmo o ancor più di una fotografia. Fabio Viale e Luigi Spina meritano un’attenzione particolare, nel contesto del nostro argomento. Fabio Viale ci re-interpreta il gruppo del Laooconte, l’opera ove più di tutte l’artista ha voluto fissare carne, sangue, dolore, vita, nel materiale morto del marmo. Perfettamente consapevole della sfida. E la vita l’aggiunge ancora Viale dipingendo le spalle del profeta morente, in un incontro impari con serperti anch’essi caduchi. Vi è un moto di disperazione in quest’opera che Viale sottolinea, e aggrava. Mentre il fotografo Luigi Spina ci consegna un’altra dimensione del transeunte, la rovina, che ci dice che non solo la natura va verso la morte, ma anche i manufatti dell’uomo. Una riflessione che accompagna, tragicamente, il mondo classico, anche quello del primo secolo dell’era volgare, perfettamente o quasi appagato di sé (finché magari il Vesuvio non si desta, e l’uomo d’armi e di penna e scienza va ad ammirarlo e viene epicamente stroncato da quelle forze che egli stesso aveva cercato di catalogare). Da molto tempo si parla di una “estetica delle rovine”, e l’opera di Spina è parte di questa tendenza, da cui può essere agevolmente studiata.
Plinio, insomma, divenuto anch’esso per tanti aspetti rovina, sorprende ancora, mostra una modernità straordinaria che peraltro si può pensare imperitura, anche in tempi di AI e duplicazione delle facoltà intellettuali dell’uomo. La sua è una battaglia contro ciò che sfugge e muta, oggetto di fascino e di terrore. La Natura. La Scrittura, qualsiasi essa sia, anche e soprattutto poi quella scientifica, cerca invano di starle dietro, di misurarla. Quella letteraria, senza pretese, è meno caduca, perché volontariamente più debole. E dunque alla fine più veritiera, nella debolezza. Plinio sarà senz’altro al centro di un universo concettuale anche tra due mila anni.
Nota: Il presente articolo è nato dalle discussioni all’interno del seminario di Storia Moderna dell’Università dell’Insubria, per cui ringraziamo i partecipanti, tra cui Federica Beretta, Erica Baricci, Davy Marguerettaz, Marco Moraglio, Valentina Zolesio, Marianna Iannaccone. Senza il loro apporto in termini di suggerimenti, riflessioni e ripensamenti, esso non stato sarebbe possibile. Un ringraziamento particolare anche a Max Mondelli, anima pliniana in città, e a Luca Levrini.
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