Palazzo dei Diamanti pullula di studenti, e di turisti, in questo lunedì di maggio, già preda di afe padane. Man mano che da Nord ci si avvicina al centro, “lento pede”, passando tra viali incantati, acciottolati, immersi nel dannunziano silenzio estense, rarefatti, lietamente transitando dal Parcheggio al Palazzo dei Diamanti, tra severi edifici pubblici e icone della cucina locale (“La Provvidenza”), e tra parchi lievemente cimiteriali, palazzi prossimi ad essere restituiti agli antichi splendori (Palazzo Prosperi, che precede quello dei Diamanti e promette mirabilia quasi pari a quelle ben note del secondo), ci si rende conto che Ferrara non è certo quel “cimitero” come la definì, tra gli altri, Carlo Michelstaedter, ad inizio secolo. Tutt’altro. Come il centro s’avvicina turisti d’ogni paese infittiscono le loro schiere, avidi di Rinascimento. Si mescolano a drappelli allegri di studenti. Come dar loro torto? Provengono da Paesi proni a lasciar andare in rovina – sia pure la Chiesa ove il nuovo Papa crebbe in età e nello Spirito – il loro patrimonio artistico. Qui, il settecentesco viale degli Angeli e il suo quadrivio avvolgono nelle spirali dell’Arte. Che è poi difficile abbandonare. “Loderò le tue vie piane/ grandi come fiumane, – così la cantava il Vate, come è noto – che conducono all’infinito/ chi va solo col suo pensiero ardente…”
A Palazzo dei Diamanti una mostra “doppia”, dedicata a Mucha e Boldini. Chiude il 20 luglio e vale davvero la pena d’esser visitata. 11 sale per Mucha, 3 per Boldini, discretamente separate. Quasi un atto d’omaggio verso il genio straniero: quello “del luogo” – Boldini nacque a Ferrara l’ultimo giorno dell’anno 1842, ma si spense nella Parigi che lo aveva ricolmato di denaro e successo nel 1931 – occupa uno spazio minore. Le loro vite nella Parigi della Belle Époque si sono certamente incrociate. Anche se a Mucha stava nel cuore il suo mondo slavo, la sua epopea di redenzione di una civiltà immensa e parcellizzata, cui dedicò, tornato in patria, le sue estreme energie, nell’epopea in venti “stanze” – immensi pannelli in un ciclo trionfale – quasi, quasi poetica, della Slovanská epopej, realizzata tra 1910 e 1928. Un inno a quell’indipendenza dei popoli slavi, e quello ceco in particolare, ora in un museo moravo neppure di prima grandezza, in cui Mucha credeva. Eppure era nato nella Moravia imperial-regia del 1860, aveva assistito alla creazione dell’Impero austro-ungarico nel 1867, e aveva avuto la sfortuna, dopo il breve periodo di creazione e indipendenza della Cecoslovacchia, di morire sotto una nuova occupazione tedesca, nel 1939, pochi giorni dopo l’invasione hitleriana. Un’occupazione molto peggiore rispetto a quella in cui aveva visto la luce. Imprigionato per brevissimo tempo, morto però di crepacuore, vittima ancorché indiretta del nuovo brutale regime. Il 14 luglio peraltro, data che da rivoluzionario nazionalista gli era forse cara. Avrebbe apprezzato il destino toccato alla Moravia nella Cecoslovacchia comunista? Ne dubitiamo.
Mucha, Boldini. Il trionfo della bellezza, soprattutto femminile, nel grande, coinvolgente –profano nella sua sacralità, e assai spesso sacro nella sua mondanità – estetismo dei tempi. Le donne sembrano fiori, nell’uno e nell’altro. Ma soprattutto in Mucha. Sono colorate, emanano profumo. Mucha le realizza e commercia: è un grandissimo imprenditore di se stesso. Le sue bellezze slave, così delicate e sensuali, così provocanti, portano l’erotismo all’estremo con un solo sguardo, e divengono pienamente icone occidentali. Divengono immagini di perfezione. E come tali circolano. Nei teatri di Sarah Bernhardt sua grande amica e mentore, che gli apre le porte del successo; e poi in almeno 120 poster pubblicitari. Mucha diviene tutt’uno con l’immagine liberty. E promuove sapone e cioccolato, biciclette e imprese turistiche. Di tutto un po‘. Lo „Stile Mucha“ diventa marchio registrato, lo adottano perfino negli USA dove egli si reca trionfalmente, forte della sua fama europea. E lì lo perfezionano. Il mondo della pubblicità, nascente, trova il lui il suo miglior rappresentante. E poi, dimenticato dalla morte nel 1939 fino alla grande mostra retrospettiva del 1963, Mucha risorge: come modello per l’immagine pubblicitaria, ma non solo. Si ispirano a lui artisti e perfino fumettisti, si pensi alla grande scuola di disegnatori intorno a Stan Lee, il creatore della Marvel (Sal Buscema, ad esempio). Ma anche nel mondo dell’erotismo puro, il suo modello è presente: nel nostro Milo Manara, ad esempio. Parzialmente, almeno, in Hugo Pratt. O nel fotografo inglese Hamilton con le sue ninfe giovanissime, riprese in „flou“. Bellezze taglienti, assolute, mortalmente languide, spietate. Peccatrici redente e irridente, come nel poster, splendido, per „La Samaritaine“ di Edmond Rostand, sacrilego „vangelo in tre atti“ del 1897. Poi ripreso nell’opera di Max d’Ollone del 1937. Una mistica della bellezza, prima che una bellezza mistica. E allora come così tanti altri artisti della propria generazione Mucha si piega allo spiritualismo, al simbolismo, si dedica alla massoneria. Una foresta di simboli. Tutto (forse) alieno dal sincero nazionalismo, e patriottismo ceco, e slavo in generale. Ma forse, non del tutto.

La sezione della mostra su Mucha ci dispiega tutto il suo straordinario percorso, con tanto di sala „emozionale“. Meno amplia, ma vivissima ed eloquente, la sezione su Boldini. Il „genius loci“ è pittore più contenuto, in soggetti e committenti, è il ritrattista delle bellezze dell’aristocrazia all’estremo tramonto dell’Antico Regime (giustamente, la Rivoluzione francese viene fatta terminare da Furet e altri nel 1870…ma forse è perfino troppo presto, a ben vedere: chiude i battenti nel 1919, se va bene). Tentato da fughe futuristiche, Boldini ci mostra un universo femminile di dive patrizie: non una Sarah Bernhardt figlia del popolo e musa di Mucha. Qui la sensualità è certamente molto presente, ma assume colori umani, movimento, agitazione e passione, e perde l’algida fissità delle figurine stilizzate di Mucha. Sono donne belle e vive e frementi, e per questo, per me almeno, assai più attraenti, le altolocate modelle di Boldini. In questo, è davvero erede compiuto e aggiornato della Rinascenza estense. Come ha scritto il critico Paolo Spirito anni fa: „Donne che si pettinano, donne alla toeletta, che danzano o si adagiano languide e sensuali su morbidi cuscini di seta, donne dai seni piccoli e dalla vita strizzata in rigidi busti di stecche di balena (i famosi “vitini di vespa”), donne in vaporose mise di chiffon che amano trascorrere esistenze dorate fra i suoni e i divertimenti di una società fatta a loro immagine e somiglianza. Femmes fatales sensuali e seducenti, belle tra le belle, alle quali Boldini, nella sua casa-atelier in Boulevard Berthier, non esitava a rifinire i fianchi, assottigliare i colli, tornire gli zigomi e gonfiare le labbra, sempre molto attento ad assecondare e lusingare le sue affezionatissime clienti, che così non esitavano a ricompensarlo facendo aprire i portafogli dei mariti becchi o degli amanti di turno.”
Non stupisce dunque che il ritorno di Boldini sia dovuto all’altro “genius loci” ferraresi, stavolta vivente, Vittorio Sgarbi.
Misticismo, spiritualismo, mercato. Mucha e Boldini ossequiano gli idoli del tempo. Sono refrattari alle spinte modernistiche. Tutti intenti a creare, soprattutto Mucha, un’arte immortale e senza tempo, non si accorgono che sono perfettamente immersi nel loro tempo stesso. “Non sarai migliore del tuo tempo, ma sarai il tuo tempo nel modo migliore”. Così si augurava il giovane Hegel. Entrambi lo furono. Mucha divenne designer, impresse il suo stile su ogni sorta di oggetto, perfino le scatole di sapone, le bottigliette di profumo. La sua lezione è ben presente ancora nei profumieri di oggi, nel mondo dell’industria globale. Eccome. Furono entrambi figli di un’epoca che celebrava ancora i riti del regime antico con gli strumenti spirituali e financo tecnologici e di mercato dati dalla modernità. Una modernità, con l’avvento del cinema, l’affermarsi della fotografia, e di altre tecnologie, che non viene rifiutata né dall’arte, né dalla Chiesa, in un crogiuolo spiritualistico significativo, onnicomprensivo, forse estetizzante, magari lievemente eretico, ma certamente fomite di riflessione anche oggi. Il cinema vide attore perfino l’anziano Leone XIII, poco prima di morire. Uomo intelligente.
Sia Mucha sia Boldini sopravvissero ampiamente alla loro stessa epoca. I loro ultimi decenni di vita li vedono come degli illustri sopravvissuti. Sono gli ultimi eccelsi cantori visivi del regime antico, nella sua aristocratica bellezza, poi piegata al gusto e al portafoglio borghese (ma mai “per tutti”, come riteneva l’ingenuo Mucha). E l’aristocrazia è femmina. Boldini muore nel 1931, l’anno in cui Dalì dipinge la “Persistenza della memoria”. Orologi liquefatti, tempo che si sfarina, coscienze distrutte nel tentativo di seguirlo. Il surrealismo, eccolo. Mucha nel 1939. In quell’anno Picasso dipinge e ridipinge, quasi un’ossessione, Dora Maar, divenuta sua amante. Un’altra festa del surrealismo, del mondo stravolto, quel mondo che invece Mucha e Boldini, ognuno a modo proprio, avevano idealizzato. In fondo, l’antecedente è Guernica, è la distruzione. Dello stesso anno “Le due Fridas” della Kahlo. Ormai la bellezza è stranita, sdoppiata, spezzata. Forse, irrecuperabile. Ma, alla fine, tornerà. Anche nei modi e nelle forme di un Mucha e di un Boldini. Cantori di un tempo che fu, alla perfezione. Anticipatori delle pubblicità del nostro. La bellezza, senza tempo. E forse anche, per Mucha almeno, senz’anima.
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