di Axel Famiglini

Gli ultimi giorni di una presidenza disastrosa

L’approssimarsi della elezioni americane e la conclusione del mandato del presidente Obama segnano un possibile punto di svolta nell’andamento delle dinamiche geopolitiche in corso a livello internazionale. L’ “ottennato” che sta per giungere alla propria scadenza naturale rappresenta la probabile fine di una fase storica connotata dall’azione di un’amministrazione Usa che si è pervicacemente battuta sia a livello interno che sul piano internazionale con lo scopo di mutare radicalmente la tradizionale politica estera degli Stati Uniti, da un lato promuovendo un disimpegno progressivo della propria azione politico-diplomatica in Medioriente ed in altre aree del mondo (la recente lite tra gli Usa ed il presidente filippino è forse, più di altri elementi in gioco, il vero indice posto a qualificare quale sia stato il ruolo ed il reale peso della nazione “a stelle e a strisce” nel Pacifico in questi anni, al di là del millantato “pivot” verso l’Asia), dall’altro permettendo che i nemici di un tempo, quali Russia ed Iran, occupassero i vuoti lasciati da una Casa Bianca in piena ritirata “ideologica” dal consesso globale. Per taluni commentatori la storia giudicherà il presidente Obama per quello che ha realizzato in  campo internazionale, ciononostante è più verosimile che l’eredità obamiana sullo scacchiere mondiale verrà caratterizzata maggiormente per ciò che non ha fatto e per ciò che ha permesso che accadesse impunemente sotto gli occhi dell’intera comunità internazionale. Se Obama sia stato o meno un presidente intimamente “terzomondista” ed “antimperialista” ed abbia coltivato, quasi si trattasse dell’incarnazione di una sorta di drammatica nemesi storica gravante sulle sorti americane, generatasi a seguito delle sciagurate politiche del presidente G. W. Bush, una sorta di odio “antioccidentale” danneggiando, più o meno consapevolmente, dall’alto del supremo scranno del Paese più potente del mondo, la posizione di Washington sul piano geostrategico nonché riaprendo antiche ferite sul piano sociale e razziale, è argomento di cui probabilmente non pochi dei più aspri critici della presidenza obamiana discuteranno a lungo. La stessa presenza del candidato Trump in corsa per la Casa Bianca testimonia il grave livello di crisi in cui versa la politica americana, uno stato di prostrazione talmente profondo, tale da permettere all’avversario russo di insinuarsi per la prima volta nella storia in seno alla competizione politica “a stelle e a strisce” e di influenzare direttamente l’elettorato americano.

 

Erdogan, gli Usa e la Russia

La crisi siriana indubbiamente rappresenta uno degli elementi più lampanti posti a testimonianza del  sostanziale caos che la politica obamiana ha creato a livello internazionale (e non solo). Il tentato colpo di stato occorso in Turchia nel luglio scorso ha rappresentato probabilmente uno dei tentativi statunitensi di riportare Ankara in seno ai binari di una direzione politica americana che però in realtà è apparsa già da lunghi anni segnata da una sostanziale vacuità e schizofrenia . Non stupisce il fatto che il colpo di stato sia rapidamente fallito, permettendo al presidente Erdogan di riprendere rapidamente il controllo della situazione e di sfruttare tale occasione per inscenare un colossale regolamento di conti interno. Erdogan ha altresì approfittato di tale frangente per allargare i propri orizzonti nel Vicino Oriente, attraverso una politica strategica che indubbiamente non può che suscitare un certo grado di ammirazione per quanto questa sia caratterizzata da una spregiudicatezza assoluta. La crescente vicinanza di comodo che Erdogan ha ricercato con il presidente Putin è stata eminentemente finalizzata ad ottenere l’avallo russo per un ingresso ufficiale della Turchia sullo scenario militare siriano. Infatti, a causa del supporto statunitense posto a favore dei Curdi siriani che lottano contro l’ISIS con il fine di legittimare le proprie aspirazioni nazionali, Ankara si è sentita progressivamente minacciata dalla crescente potenza curda, essendo questa direttamente correlata sia alla capacità di destabilizzazione rappresentata dalla costola curda ubicata in Turchia ed impersonata dal PKK che all’assai probabile saldatura delle principali entità protostatali curde nel nord della Siria. La vicinanza tra gli Usa ed i Curdi ha influito profondamente sulla decisione turca di ricercare un sostegno russo ai fini di legittimare non solo l’ingresso di truppe turche in Siria ma anche l’occupazione da parte di Ankara, ai danni dell’ISIS (la quale, però, non ha ritenuto opportuno opporre una feroce resistenza alle truppe di Erdogan, ben sapendo quanto sia importante per il sedicente Califfato conservare una minima permeabilità del confine turco-siriano), di una porzione di Siria settentrionale, azioni belliche delegate in massima parte alle locali fazioni dell’Esercito Libero Siriano (FSA) direttamente sostenute dalla Turchia stessa. L’offensiva turca contro i Curdi siriani e l’ISIS, resasi indispensabile agli occhi di Ankara dopo la presa della città di Manbij da parte delle stesse milizie curde siriane sostenute dalla Casa Bianca, ha trovato allo stesso tempo, non senza suscitare non poche perplessità di fronte alle contraddizioni in essere sul piano delle alleanze regionali ed internazionali, l’appoggio di Washington in funzione anti-ISIS. In tal modo la rimarchevole operazione politica di Erdogan si è potuta coronare con un pieno successo, permettendo l’intervento turco anti-curdo ed anti-ISIS in Siria settentrionale sia con l’approvazione del Cremlino che della Casa Bianca. Parimenti l’utilizzo delle milizie del FSA nell’offensiva compiuta contro ISIS e Curdi per conquistare territorio prezioso utile a mantenere separate le province controllate nel nord della Siria dai Curdi stessi, ha conferito ai ribelli siriani nuovo lustro migliorandone la posizione sul piano strategico e permettendo alla Turchia di continuare ad avere un ruolo fondamentale sullo scenario siro-iracheno, accompagnando al mero utilizzo delle armi una più raffinata diplomazia (ad esempio ammorbidendo la propria posizione sul destino di Assad al fine di creare un canale privilegiato di comunicazione con la Russia, pur continuando a richiedere l’allontanamento dal potere del dittatore siriano, paragonato dal governo turco stesso al PKK e all’ISIS). Erdogan oltretutto non può permettersi di scaricare i ribelli siriani solo per cercare un accomodamento temporaneo sia con Mosca che con Teheran, dato che questi ha necessità assoluta di fare ampio uso di queste forze combattenti per poter far sentire il proprio peso sul tavolo delle trattative siriano e del più vasto Medioriente. Infatti non a caso l’offensiva turca contro l’ISIS e l’YPG è stata condotta primariamente dai “federati” siriani di Ankara. Erdogan, nonostante qualche “mal di pancia” studiato ad arte, ha altresì urgenza di supportare le istanze geopolitiche dei Paesi del Golfo perché questi contribuiscono massicciamente agli approvvigionamenti dei ribelli siriani di cui lui stesso si serve. Per cui, transizione politica più o meno “soffice” a parte, la Turchia ad ogni modo dovrà sostenere la “dipartita” finale del regime di  Assad finché Riyad ed alleati saranno di questa idea. Parimenti la temporanea rottura dell’assedio di Aleppo non si sarebbe mai potuta verificare se la Turchia, assieme ai tradizionali Paesi del Golfo quali Arabia Saudita e Qatar (il quale ha probabilmente organizzato, al fine di danneggiare la propaganda russa e di tentare di placare la diffidenza americana, la fuoriuscita “strategica” di Al-Nusra da Al-Qaeda, rinominandola Jabhat Fateh al-Sham), non avesse fornito ai ribelli siriani l’aiuto necessario per coronare con  successo una simile operazione. Sarebbe in tal senso fuorviante ritenere che l’apparente “luna di miele” tra Erdogan e Putin sia costituita da presupposti sinceri. Semplicemente Erdogan ha in questo modo messo una spina nel fianco sia di quegli Americani che vedono nella Russia il nemico di sempre (e nella Turchia un baluardo contro di essa) che di quella porzione dell’amministrazione americana che considera la Turchia di Erdogan un mero ostacolo politico ai propri piani nell’area con Russia ed Iran. Allo stesso tempo Putin ha utilizzato Erdogan per alzare la posta sul tavolo delle trattative con Washington la quale, ad ogni modo, necessita di conservare l’alleanza strategica con l’apparato militare turco in seno alla Nato. In definitiva Erdogan ha guadagnato una forza ed un’influenza sul terreno che indubbiamente ha accresciuto notevolmente la propria importanza a livello politico-diplomatico come mai prima d’ora. L’interesse russo teso a realizzare importanti convergenze di comodo con Ankara è stato vieppiù testimoniato dal sorprendente attacco dell’aviazione siriana contro i Curdi dell’YPG nella città di Hassakeh. I Curdi, per quanto alleati di Mosca (così come di Washington), evidentemente sono stati considerati non solo quali utili pedine manipolabili dal governo russo ma anche come attori sul campo utilmente sacrificabili dallo stesso Cremlino (e da Assad il quale, come Erdogan, non sostiene le ambizioni separatiste curde) con il fine di lanciare un amo ad Erdogan (il quale è consapevole che la guerra civile siriana sta sia influenzando negativamente il futuro del suo Paese che destabilizzando il suo governo e la tenuta politico-sociale della Turchia). E’ altrettanto sintomatico della confusione sovrana che regna in seno alle strutture di governo americane quanto accaduto sul terreno in Siria in relazione ai rapporti tra Usa e Russia. Gli Americani hanno da un lato sostenuto i Curdi siriani sia contro l’ISIS che contro le truppe di Assad quando queste li hanno attaccati, ma dall’altro lato hanno preso le parti dei Turchi contro gli stessi Curdi siriani quando Ankara ha dichiarato che la propria operazione militare in Siria era finalizzata, oltreché a ricacciare i Curdi ad est dell’Eufrate, ad allontanare i terroristi dell’ISIS dal confine turco-siriano visti i continui attacchi terroristici sofferti dalla Turchia per opera degli uomini di Al-Baghdadi. I Curdi probabilmente hanno mutato troppe volte il proprio schieramento di appartenenza, non valutando il fatto che il disorientamento americano e la spregiudicatezza russa avrebbero potuto schiacciarli nel mezzo dato che Russia ed Usa avrebbero potuto trovare un comune terreno di accordo sul fatto che né Assad né Erdogan intendano cedere territorio ai Curdi stessi. Alla fin fine la Turchia, volendo analizzare la questione da una prospettiva più ampia, starebbe semplicemente cercando di rimediare alle conseguenze del sostegno offerto dagli Americani ai Curdi con l

‘aiuto degli Americani stessi, i quali, scissi al loro interno ai massimi vertici, da un lato vorrebbero chiudere la partita con l’ISIS ed accomodarsi con  le potenze regionali corse a supporto di Assad e dall’altro temono come non mai di perdere l’alleanza con una Turchia che guarda non solo alla Siria ma che possiede una propria forza militare anche in Iraq nei pressi di Mosul, nonostante le proteste di Baghdad.

Finte tregue

Come noto la rottura dell’assedio di Aleppo è stata di breve durata e i bombardamenti russo-siriani volti a costringere alla resa la parte orientale della città si sono intensificati fino a livelli a dir poco disumani. In questo frangente il tentativo volto alla realizzazione di un nuovo cessate il fuoco, operato da Russi ed Americani, ha costituito uno degli ultimi esempi di come Casa Bianca, Pentagono e Cremlino abbiano gestito una situazione in un clima di piena confusione generale. Lo sforzo estremo teso a pervenire ad un accordo con Putin per una cessazione delle ostilità è stato primariamente caratterizzato dall’offerta americana, a lungo covata in seno alle diplomazie russo-statunitensi (e temuta dagli alleati degli Usa), di costituire un coordinamento comune tra Mosca e Washington teso a stabilire missioni militari congiunte, finalizzate al bombardamento e alla distruzione delle milizie islamiste operanti in Siria. In cambio la Russia ed il regime di Damasco avrebbero dovuto far cessare i bombardamenti sui ribelli moderati, permettere l’accesso alle agenzie umanitarie nelle zone poste sotto assedio da Assad, liberare i prigionieri politici incarcerati nelle prigioni del regime e garantire l’approvvigionamento di aiuti alle popolazioni civili. E’ certamente arduo ritenere che gli Stati Uniti potessero pensare seriamente di richiedere a Russi ed alleati la sospensione delle ostilità ed un così alto numero di concessioni in un momento caratterizzato da un ampio vantaggio tattico da parte di Mosca e Damasco, senza che Washington ponesse sul tavolo delle trattative, in caso di mancato rispetto dei termini dell’accordo, una concreta minaccia di intervento militare da parte di quei Paesi occidentali e mediorientali che sostengono i ribelli siriani. Dopo anni di bombardamenti indiscriminati con ogni genere di arma a disposizione, comprese le armi chimiche impiegate su abitazioni, scuole ed ospedali, nonché a seguito di un sostanziale reiterato disinteresse al rispetto degli accordi internazionali da parte di Russia, Iran e regime siriano, il fatto che Washington potesse ritenere ancora una volta che Damasco, Mosca e Teheran fossero finalmente pronte ad anteporre seriamente una soluzione politico-diplomatica alla crisi siriana ai propri reali interessi geostrategici a fronte di una pervicace ed assurda inazione occidentale e di una martellante campagna militare pro-regime senza esclusione di colpi, può solo testimoniare o l’estrema ingenuità dell’amministrazione Obama o l’ennesimo tentativo di chiudere la questione siriana (e di incassare il presunto successo ottenuto a fine mandato – fra i pochissimi enumerabili – da parte del presidente Usa), accordandosi al ribasso con Russia ed Iran dopo aver mostrato una parvenza di interessamento nei confronti dei desiderata dei propri alleati europei e mediorientali che supportano da anni la rivoluzione in Siria. La breve offensiva aerea condotta dalla Russia contro le postazioni ribelli siriane a partire dalle basi iraniane, compreso il consenso iracheno al sorvolo degli aerei russi sopra il proprio territorio, lascia altresì supporre che Russia, Iran ed Usa fossero inizialmente in un certo qual modo d’accordo nel condurre tale tipo di operazione (poi sospesa in quanto l’Iran si sarebbe sentita soverchiata dal dilagante “presenzialismo” militare di Mosca anche a seguito di una potente campagna stampa compiuta in Occidente tesa a sottolineare il grado di subalternità che Teheran avrebbe assunto nei confronti della Russia). Il fatto che l’accordo russo-americano, per via sia delle falle che avrebbe potuto provocare a livello di “intelligence” che per le più che evidenti inedite ripercussioni geopolitiche che avrebbe potuto produrre su scala planetaria,  non piacesse affatto ad una parte consistente dell’establishment politico americano, oltreché a Regno Unito, Francia e Paesi del Golfo, è probabilmente testimoniato da quanto accaduto nel corso del ultimo tentativo di costituzione di un fragile cessate il fuoco, sostanzialmente fallito per l’impossibilità da parte degli attori in gioco, compresi quelli emersi vittoriosi dalle eventuali precedenti dispute intergovernative occorse, di accettare una qualsiasi soluzione che preveda allo stato attuale una sorta di compromesso che danneggi in maniera irreparabile gli interessi presenti e futuri delle parti in conflitto. Il bombardamento russo-siriano di un convoglio umanitario ad Aleppo e l’attacco “accidentale” da parte della coalizione occidentale di truppe del regime di Assad forse testimoniano da un lato il disinteresse russo per una pace negoziata che in realtà  appare sempre meno preferibile rispetto ad una possibile vittoria totale sul campo di battaglia e dall’altro la necessità da parte di una fazione dell’establishment americano (lo stesso Kerry ha fatto pervenire alla stampa i suoi malumori nei confronti di Obama e del suo entourage, senza però mai minacciare le dimissioni) e di alcuni Paesi alleati degli Usa di evitare un qualsiasi accordo che produca in primo luogo un accomodamento fra Usa e Russia e successivamente una sostanziale cessione del Medioriente a Mosca ed alleati nonché un accantonamento degli alleati storici degli Stati Uniti ed una crisi irreversibile dell’Alleanza Atlantica. In tale prospettiva il presidente Obama, ormai prossimo alla fine del suo mandato e del tutto delegittimato sul piano internazionale, sarebbe stato nuovamente scavalcato da determinati apparati dello Stato, i quali in tale occasione hanno ritenuto imperativo bloccare qualsiasi tentativo di accordo militare con la Russia di cui solo Mosca avrebbe tratto vero beneficio minando la stabilità dell’edificio politico-diplomatico-militare globale degli Stati Uniti. Da questo punto di vista la crisi siriana, a meno di un cambiamento di rotta dettato da eventi ancora del tutto imprevedibili, si avvia a trasformarsi in un conflitto nel quale l’unica soluzione possibile appare essere quella militare, in particolare a fronte del fatto che Mosca, ragionando secondo i dettami di una classica politica di potenza e di sfere di influenza, sembrerebbe tenere in sola considerazione la mera forza militare che i suoi opponenti possano essere disposti a porre sul campo di battaglia a contrasto delle mire geostrategiche del Cremlino. Le proposte di pace profferte e le tregue organizzate in maniera unilaterale dal Cremlino non posseggono nessuna valenza reale dal momento che vengono utilizzate solamente per stemperare il pressing diplomatico che ancora dall’Occidente viene esercitato sulla Russia. L’invio di ulteriori mezzi militari russi in Siria non può che suggerire il fatto che Mosca non consideri in alcun modo l’opzione diplomatica come una soluzione degna di considerazione, perlomeno fino a quando una vittoria russo-iraniana sul terreno non renda scontato l’esito di un qualunque negoziato diplomatico.

 

Francia e Regno Unito

Da questa prospettiva appare indubbiamente critica la posizione dei Paesi europei maggiormente coinvolti nella crisi in Siria, ovvero il Regno Unito e la Francia. La politica franco-britannica sulla questione siriana è rimasta sempre piuttosto costante nel tempo, ovvero tesa a chiedere da un lato la cessazione delle ostilità e l’accesso agli aiuti umanitari e dall’altro l’avvio di una transizione politica che allontani Assad dal potere. La posizione di Parigi e Londra è tuttavia perennemente risultata zoppa, nel senso che essendo questi Paesi ancorati da lungo tempo all’alleanza militare con gli Usa,  si trovano impossibilitati a passare dalle parole ai fatti non sentendosi sufficientemente confidenti di organizzare e guidare un’alleanza militare finalizzata al rovesciamento del regime siriano. In particolare dopo il calamitoso scivolone di Cameron alla Camera del Comuni, la posizione della Gran Bretagna sulla Siria è apparsa perennemente compromessa e scarsamente incisiva nel momento in cui questa avrebbe dovuto fare da testa di ponte tra Usa, Europa e Paesi del Golfo, sulla scia di quanto già accaduto ai tempi dell’intervento in Libia, al fine di coinvolgere le forze armate americane in una spedizione militare contro il regime di Assad. La pretesa di Francia e Regno Unito di sollecitare un intervento in Siria degli Stati Uniti si è scontrato da un lato con i propri gravi limiti interni (politici, militari ed elettorali) e dall’altro con una presidenza americana che perseguiva politiche radicalmente opposte sia alle proprie ma anche a quelle espresse in precedenza dalla tradizione geopolitica di Washington. E’ certamente degna di nota l’azione diplomatica compiuta dal ministro degli esteri britannico Boris Johnson, il quale, una volta divenuto parte del governo di Sua Maestà, si è tramutato in un accanito sostenitore della rivoluzione siriana ed in un aspro avversario delle politiche russe nel contesto mediorientale (è ben noto che Johnson, al contrario, avesse addirittura proposto un accordo con Assad e Putin in funzione anti-ISIS quando, da “civile”, faceva il sindaco di Londra ed il commentatore sul quotidiano “The Daily Telegraph”). Appaiono certamente encomiabili gli sforzi di Johnson, di Ayrault (ministro degli esteri francese), dell’agguerritissima rappresentanza diplomatica franco-britannica in sede Onu (Rycroft e Delattre), volti a mettere la Russia di fronte alle proprie responsabilità e a richiedere la fine delle ostilità, l’implementazione di aiuti umanitari, il rispetto dei diritti umani, la scarcerazione dei prigionieri politici e l’avvio di un serio negoziato di transizione politica. Allo stesso tempo l’importante sostegno diplomatico offerto dal Regno Unito all’HNC (l’Alto Comitato per i Negoziati – organismo di rappresentanza dei ribelli siriani organizzato e supportato dall’Arabia Saudita) è stato fondamentale per conferire all’opposizione siriana una rinnovata legittimità sul piano internazionale con l’approssimarsi di nuovi colloqui di pace. Ciononostante la perenne attesa franco-britannica che la presidenza Obama volga al termine e che Hillary Clinton (la fautrice dell’intervento Usa in Libia) vinca le prossime elezioni americane, unita alla speranza, quasi “messianca”, che questa voglia abbandonare in maniera decisiva l’obamismo imperante in politica estera, rischia di rendere l’azione politico-diplomatica di Londra e Parigi non sufficientemente incisiva sul piano internazionale. La Russia, l’Iran ed il regime siriano stanno purtroppo conducendo una mera politica di potenza che per essere contrastata efficacemente necessita di un’altrettanto importante minaccia militare per essere bloccata. L’Onu, già accusato da più parti di collusione con il regime di Damasco ed ampiamente squalificato dalla lunghissima serie di fallimenti e di politiche contraddittorie da questo sostenute, risulta del tutto impotente nel momento in cui Russia e Cina pongono il veto su qualunque risoluzione sostenuta dall’Occidente che possa in qualche modo ostacolare le ambizioni russo-sino-iraniane nella regione. Se la Russia mira a ristabilire la propria antica potenza a livello globale e l’Iran a garantirsi l’egemonia in Medioriente tramite la costituzione di un corridoio che lo unisca al Mediterraneo (fatto che sta preoccupando non poco Israele), la Cina, dopo anni di attenta osservazione della situazione e sotterraneo sostegno al regime damasceno, è tornata a schierarsi apertamente con Assad a fronte dei successi militari ottenuti da Mosca e Damasco, arrivando addirittura ad accusare la Gran Bretagna di controllare, tramite un proprio ufficiale, l’organizzazione di soccorso umanitario facente capo ai ribelli conosciuta con il termine di “Elmetti Bianchi”.

Le minacce saudite di aumentare il sostegno militare all’opposizione armata e le paventate nuove sanzioni occidentali (su cui l’Unione Europea, lacerata da interessi economici opposti, non sa mettersi d’accordo) contro Russia e regime siriano poco possono ottenere contro una escalation politico-militare che vede giungere sullo scenario mediorientale nuove forze aeronavali moscovite utili a dare il colpo di grazia alle speranze dei ribelli siriani moderati di conservare il controllo di Aleppo nel tempo futuro. Se le forti parole di condanna di Londra e Parigi hanno causato un vivo risentimento a Mosca (con i colloqui parigini saltati tra Hollande e Putin, la pretesa russa di esclusione di Francia e Regno Unito dal tavolo della diplomazia di Losanna ed il contro-vertice di Londra organizzato da Boris Johnson), queste non bastano assolutamente a contrastare i piani russi in Siria, soprattutto a poche settimane dal voto americano, già funestato da una corsa alla Casa Bianca dominato da un clima di totale incertezza e dalle ultime battute di una presidenza Obama che forse trova più in Trump che nella Clinton il proprio reale erede storico.

 

La crisi dell’Occidente

La devastante crisi economica del 2008/2009 e il parziale insuccesso occidentale nei teatri di guerra iracheno e dell’Afganistan hanno messo seriamente in crisi la classe politica americana aprendo la strada al populismo “radical-chic” di Obama e a quello più grezzo ed insidioso di altri attori politici, come il candidato Trump, che preferiscono parlare alla “pancia” della gente piuttosto che promuovere politiche che hanno garantito nei decenni passati autorevolezza, stabilità e benessere. Il drammatico deteriorarsi della situazione politica statunitense si è palesemente ravvisato con l’ingresso più o meno clandestino della propaganda russa in seno alle elezioni politiche “a stelle e a strisce”, contornato sia dagli attacchi informatici promossi dal Cremlino contro gli Usa che dal primo candidato alla Casa Bianca della storia americana recente palesemente  filo-russo. Parimenti l’Europa, prostrata da una lunga recessione e da una stagnazione economica che appare senza fine, politicamente devastata dalla sparizione di interi partiti politici travolti dalle conseguenze sociali della crisi economica, caratterizzata in determinati casi da una sorta di monopartitismo forzato, piagata dalla Brexit nonché divisa praticamente su tutto, è pervasa da movimenti populistici che hanno anch’essi abbracciato il putinismo in seno a quella che potrebbe essere definita una crisi globale della leadership occidentale. La Russia in questi anni di presidenza Obama e di rovinosa e miope egemonia tedesca sull’Europa ha ben compreso quali dinamiche socio-politiche si siano sviluppate non solo nel Vecchio Continente ma anche nel Nuovo. Putin, pur pressato da gravi problemi economici interni, ha colto la palla al balzo e si è insinuato sia in quelli scenari di guerra dove l’Occidente latita che in seno al tessuto politico di numerosi Paesi occidentali, suscitando le simpatie sia di ambienti di destra che di sinistra. In particolare in Europa gli interessi economici di numerosi Paesi presso la Federazione russa (come l’Italia) hanno spinto non pochi  governi (come Roma) ad un atteggiamento sempre meno critico nei confronti di Mosca, di fatto bloccando, come accaduto recentemente, qualsiasi azione politico-economica (come nuove sanzioni contro il Cremlino) che potesse aumentare la pressione sulle macchinazioni moscovite poste ai danni dell’Occidente. Se in Iraq l’ISIS appare ormai prossima a perdere la propria roccaforte di Mosul ed in Siria il sedicente Califfato sta ugualmente cedendo terreno, rimane al contrario centrale quello che sarà il ruolo di più lungo termine delle potenze regionali ed internazionali in seno al vasto conflitto mediorientale in corso. E’ in tal senso chiaro che se, come sta accadendo in Libia o in Yemen, Paesi apparentemente alleati perseguono sul terreno politiche a volte contrastanti (è in tal senso emblematico il ruolo della Francia nel teatro libico), chi si gioverà da una tale situazione saranno coloro che sapranno unire le forze per uno scopo comune (pur non senza alcune differenze), come sta accadendo nel caso di Russia ed Iran. Le elezioni americane potrebbero in tal senso costituire un punto di svolta qualora Hillary Clinton non solo vincesse la presidenza ma avesse l’intenzione e la forza di invertire  l’isolazionismo ideologico obamiano e di riportare seriamente le forze armate americane in Medioriente al fine di porre un alt alle ambizioni russe ed iraniane nell’area, così come gli alleati europei e mediorientali degli Stati Uniti avrebbero voluto da lungo tempo. Si tratterà pertanto di capire se Hillary Clinton sarà in grado di invertire le tendenze obamiane in politica estera (le sue ultime dichiarazioni inerenti il presunto ruolo dell’Arabia Saudita negli attentati dell’undici settembre e gli eventuali risarcimenti potenzialmente da questa dovuti non farebbero ben sperare a dire il vero),  riunificando Casa Bianca e Pentagono sotto un’unica regia e riportando il timone dell’America sulla giusta via, ridando vero slancio al dinamismo dell’economia americana ed arginando quella deriva socio-politica posta in seno alla società statunitense che sta producendo numerosi consensi per Donald Trump e le sue idee “apocalittiche”. Se gli Usa riuscissero ad indurre Putin verso più miti consigli probabilmente anche la situazione politica in Europa migliorerebbe, evitando che il Cremlino si tramuti in un vero e proprio   “faro mondiale” di tutti i sentimenti anti-occidentali imperanti (basti pensare al caso dell’Egitto il quale sta cercando equivoche convergenze con Mosca ed Iran per emanciparsi dal “protettorato finanziario” saudita). Se disgraziatamente Donald Trump dovesse vincere le elezioni americane, l’attuale ordine mondiale probabilmente con il tempo imploderebbe, causando le premesse per l’avvio di una fase storica durante la quale le luci dell’attuale relativa stabilità mondiale cesserebbero progressivamente di illuminare la nostra epoca. Qualunque esito avranno le elezioni americane, occorre augurarsi che l’Europa, a fronte della crisi dell’attuale architettura geopolitica globale, sappia comprendere come l’epoca del “sempiterno” ombrello americano posto a protezione del Vecchio continente sia ormai tramontata e che occorra ripensare le politiche di difesa nazionali e comunitarie in un’ottica di una crescente instabilità sul piano globale.

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