La piccola mostra comasca dedicata a Helleu, chiusa il 25 maggio, e ospitata nella Pinacoteca Civica di Palazzo Volpi, in piena città murata, è stata – credo – l’occasione per diverse riflessioni. Oltre, naturalmente, a costituire un omaggio a Helleu, in un momento storico in cui in Italia, e non solo in Italia, la Belle Époque è tornata in auge, anche nei suoi protagonisti “minori”, o quantomeno meno conosciuti. Tra questi non figura, sappiamo bene, il nostro Helleu: che di tale epoca fu protagonista, tra i più noti e grandi, al pari di un Mucha – le fanciulle eroticamente accese di Mucha divengono, ci pare, le signore elegantemente vestite e “realizzate” in matrimoni dorati e famiglie numerose, di un Helleu e del suo amico e sponsor Boldini, si coprono con classe d’abiti e d’anni, anche se molte sono ancora ritratte come adolescenti perfettamente consapevoli del proprio fascino e del proprio potere, che traspare dalla perfezione sensuale dei volti –, prolifico e fortunato, anche nella carriera. Il decano dei francesisti italiani Alberto Beretta Anguissola, in un bel libro del 2006 pubblicato da Skira, ha fissato una trinità artistica precisa: “Boldini, Helleu, Sem: protagonisti e miti della Belle Epoque”. Da cui occorre poi sempre ripartire.

Un figlio della costiera Vannes, la piccola città bretone con un passato molto peculiare – di cui ora dirò – divenne così ricco, con la propria arte, ambita a Parigi e in tutta Europa, da permettersi diversi yacht, su cui trascorreva, navigando, molto tempo. Alcuni li dipinse, in splendide marine. Ebbene Vannes è città fondata dai Veneti, quelli che proseguirono dall’Illiria alla Venetia (ove molti si stanziarono, dando origine alla civiltà veneta), e questo popolo indoeuropeo, originario forse delle zone dell’attuale Turkmenistan, come ci ha insegnato il compianto Gabriele Rossi Osmida, l’archeologo scomparso nel 2020, aveva poi costituito uno dei primi modelli di civiltà marittima perfino sull’Oceano atlantico. Lo racconta anche Giulio Cesare. «In tutta la parte costiera di quelle regioni i Veneti godono del massimo prestigio, perché posseggono il maggior numero di navi con le quali son soliti far rotta verso la Britannia, sono superiori agli altri per scienza nautica ed esperienza di navigazione e posseggono i pochi porti che si aprono su quel mare tempestoso e sull’Oceano sconfinato, cosicché quasi tutti coloro che vi navigano sono loro tributari.» Erano una popolazione poi divenuta celtica, per l’incontro con le civiltà del luogo originarie, e vi sono dispute, naturalmente, se si tratti davvero dei medesimi veneti che si insediarono nel Veneto attuale (molti dubitano, ma perché?). Ma perché non dovrebbe trattarsi della medesima popolazione, giunta, come dice il titolo del maggior libro che li riguarda nel loro insieme, “dalle steppe all’Oceano”? Mi riferisco naturalmente allo scritto di André Martinet, il massimo linguista francese del Novecento, “Des steppes aux océans” (Paris, 1986). Cesare li distrusse totalmente, vendendo come si usava i loro figli come schiavi. Scrivere su Helleu, che a Vannes nacque nel 1859, per spegnersi nella Parigi ove visse e lavorò tutta la vita nel 1927, fa pensare anche alla Vannes ora bretone (il nome bretone ha ampie eco paleovenete, Gwened, “wen” è la radice indoeuropea di “Veneti” e deriva dal verbo “amare”) un tempo veneta, e a questa magnifica popolazione di marinai; di cui evidentemente Helleu si sentiva parte. Almeno come diportista.

Poi, la mostra in qualche modo ci spinge quasi necessariamente su percorsi centrifughi. Sono solo otto bellissimi ritratti femminili, di quell’archetipo borghese che Helleu sviluppa sistematicamente, in infinite variazioni dello stesso modello, come Mucha fa con le fanciulle in fiore (o ancor più giovani di queste). Ritratti di signore, ove l’abito fa il monaco eccome. Ritratti per ricchi salotti, ricche famiglie francesi, e non solo. Ma è allestita in modo da illustrare anche il mondo del collezionismo comasco, assai importante anche se spesso sottovalutato (anche per la naturale riservatezza dei comaschi stessi). Risale ad esattamente 40 anni la donazione che fece dei disegni Nedda Mieli al Comune di Como. Mieli era la vedova di Carlo Grassi, commerciante di tabacco e industriale, spentosi nel 1950 ancora relativamente giovane, e assai ricco, proprietario tra l’altro di una vasta tenuta a Lora, poi donata all’Opera Don Guanella. Alle spalle, una tragedia: il figlio Gino – eponimo della “Casa di Gino”, ben nota struttura educativa dell’Opera, e centro della tenuta Grassi – era morto nella Seconda guerra mondiale, arruolatosi come volontario, a soli diciotto anni. Si vede bene come la vicenda della famiglia Grassi sia legata a doppio filo con Como. E questa mostra omaggia non solo il genio di Helleu, ma anche quest’importantissima famiglia. Ma non solo. La mostra ci ricorda anche uno storico dell’arte dalla vita lunghissima e dalla scienza altrettale. Parliamo di Alberto Longatti. Che scrive l’expertise per il Comune in merito alla raccolta Grassi. La lettera è esposta qui. Parla di Helleu come di “disegnatore e incisore, più che pittore”; di “eleganza salottiera”, “un virtuoso della Belle Époque”, con affinità, ben note ora, con Monet. L’ispiratore – insieme a Monet – della peculiare figura del pittore Elstir nella Recherche di Proust. Insomma, Longatti in poche righe dà una raffigurazione precisa di Helleu, in tempi in cui su quel periodo, e sull’illustrazione e l’incisione, gravavano ancora molte riserve. Ora dissipate. Longatti è morto a 92 anni ad inizio 2024. Giova ricordarlo perché non scrisse solo d’arte, o di architettura, e non scrisse solo di ambito comasco (suo un bellissimo articolo su D’Annunzio e l’architettura), ma anche di Volta, di cui ci apprestiamo a celebrare il secondo centenario della morte nel 2027. E abbondantemente sui due Plinii, cosa che ricordiamo volentieri dal momento che nel 2023-2024 vi sono state le celebrazioni per il bimillenario della nascita del Vecchio. Longatti scrisse dottamente e appassionatamente, in pratica su ogni aspetto della storia millenaria di Como, e su moltissimi dei suoi protagonisti. Avventurandosi talvolta anche in Svizzera, come nel libro “Viaggio pittorico in Engadina”, del 1999, che ebbe molta eco, e che riguarda la raffigurazione dell’Engadina dal Seicento al Novecento. Fu scritto, tal ricco volume, insieme ad una valente storica dell’arte svizzera, Dora Lardelli. Che purtroppo ci ha lasciato in relativamente giovane età nel 2023.

Gli otto ritratti esposti e la testa opera di Troubetzkoy. Foto di Paolo L. Bernardini

Si vede bene come otto eleganti e ammiccanti ritratti di donna di una celebrità bretone, racchiusi insieme alla testa bronzea di Helleu scolpita dall’amico Paolo Troubetzkoy, aprano diverse strade alla riflessione. Sullo scultore russo-italiano forse si sarebbe dovuto dire qualcosa, in quanto figura anch’egli centrale dell’Epoca Bella, dalle origini assai particolari: nacque nel 1866 a Intra, sul lago Maggiore, dal principe russo Pëtr P. Troubetzkoy, diplomatico, allora in missione (era anni cruciali per i rapporti tra la neonata Italia e l’Impero russo) in Italia, e dalla cantante lirica Ada Winans, cittadina statunitense. Si spense nel 1938, nella Francia centro dell’arte del tempo. Il culmine della fama lo raggiunse nel 1900: all’Esposizione universale di Parigi era presente nel padiglione russo e in quello italiano, avendo doppia cittadinanza, e gli venne conferito il Grand Prix per il “Tolstoj a cavallo”, forse non una delle sue opere migliori. Oggi si trova al Musée d’Orsay. Nella stessa piccola sala della Civica comasca, oltre alla scultura, una raffigurazione di Boldini, suo grande amico, di Helleu, nel suo studio, al lavoro. Due rappresentazioni in due dimensioni diverse che ce lo rendono davvero bene.

Studiare l’arte dell’Ottocento è immergersi in quel secolo “borghese”, che ha avuto forse in Peter Gay – se cerchiamo una sintesi generale, piena di intuizioni – il suo interprete migliore, nel ciclo in cinque volumi “The Bourgeois Experience: Victoria to Freud”, pubblicato tra 1984 e 1998.

In ultimo, prima di lasciare spazio a qualche riga di critica del tempo che meglio ci illustra Helleu e il suo genio, due considerazioni sull’arte e la città di Como.

La prima, è che la Pinacoteca Civica dovrebbe essere maggiormente valorizzata. Contiene capolavori particolarissimi, si pensi alla “Giuditta” dello Gnocchi, o alla scena di battaglia tra ottomani e cristiani del Calza (che io rinominerei “Assedio di Buda”, perché sembra svolgersi proprio a Buda nel 1686, il trionfo di Eugenio di Savoia): ricordo Antonio Calza, veronese, poiché tra l’altro in questo 2025 cade il terzo centenario della sua morte; e poiché fu uno dei maggiori “battaglisti” del tempo suo. Erano momenti in cui l’Occidente si scontrava con l’Oriente in modo definitivo: se Vienna fosse caduta, se Buda – dopo un primo tentativo fallito e lungo assedio – non fosse stata riconquistata, le cose per noi sarebbero andate molto diversamente (molto male).

La seconda: che si dovrebbe valorizzare tutto il mondo artistico comasco e lariano in generale, cosa che non solo aumenterebbe il flusso turistico già alto, ma lo farebbe crescere anche in livello culturale; le gemme museali ci sono ma – tutte – andrebbero valorizzate viepiù. La Pinacoteca Civica è una di esse, ma ve ne sono diverse altre. Forse un maggiore rapporto di collaborazione con l’Università dell’Insubria presente in città dal 1998 sarebbe auspicabile. In essa non mancano storici e storici dell’arte in grado di dare il loro apporto alle realtà museali comasche, alcune peraltro in situazione molto incerta (come il Museo Garibaldi, vicinissimo alla Pinacoteca Civica).

Finalmente, Helleu. Che si parli di lui in questo 2025 ci ricorda che è anche l’anno del centenario della morte del suo sodale e concorrente John Singer Sargent, produttore a ciclo industriale di opere per la borghesia francese, “expat” americano d’eccellenza, anche se era effettivamente nato a Firenze (da genitori statunitensi). Ma vorrei concludere con qualche riga dal critico e collezionista, poeta e dandy famosissimo, un Wilde francese, che meglio colse e valorizzò l’opera di Helleu, Robert de Montesquiou (splendidamente ritratto da Boldini in posa assai nobile e fiera, con bastone da passeggio, in opera anch’essa ora al Musée d’Orsay). Nel suo libro del 1913, “Paul Helleu, peintre et graveur” (pubblicato lo stesso anno della biografia sulla contessa di Castiglione, “divine comtesse”, poi uscita in italiano con prefazione di D’Annunzio, e recentemente ripubblicata a cura di Maurizio Ferrara), l’assoluta consacrazione per il pittore di Vannes, Montesquiou scrive:

Les adolescentes aux cheveux serpentins, Helleu les aime. J’admire une d’elles dans le salon de la Marquise de Dion, une autre chez la Baronne Deslandes, qui lui donne pour pendant sa propre silhouette, moulée en une robe d’un crêpe de ce rose saumon, qui fut cher au Second Empire, les yeux alanguis, la bouche tendrement attristée, le buste infléchi, les bras au geste évasé comme des ailes alourdies de pluie, prêtresse d’un culte inconnu, semi-agenouillée au devant d’une divinité invisible.”

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