di Matteo Salonia*
Mentre mi trovo ad Hangzhou e cammino sotto un sole di maggio ancora magnanimo, lungo sentieri che tra un mese saranno avvolti dal tipico caldo umido di Zhejiang, il mio pensiero si rivolge da una parte ai poeti come Su Shi (1037-1101) che qui scrissero molti capolavori della ricchissima letteratura cinese, e dall’altra a Cristoforo Colombo. Sto salendo la collina Wushan, che si trova dietro alla zona più turistica, e dalla quale spero di osservare sia il famoso Lago dell’Ovest sia le verdi montagne che lo circondano. Non resto deluso: raggiungendo la cima, circondato dagli sguardi curiosi di coppie di anziani e di bambini, mi trovo di fronte al Padiglione del Dio Cittadino. Questo tempio che una volta si trovava alle pendici del piccolo monte fu ricostruito completamente negli anni ’90 per renderlo un punto panoramico, ed ora si erge su questo colle a beneficio di visitatori che desiderano la rinfrescante brezza o lo sfondo perfetto per una foto. Qui vicino, già Bo Juyi (772-846), ufficiale della dinastia Tang, scrisse poesie dedicate all’amena vista lacustre, come questa (qui nella sua traduzione inglese curata da A.C. Graham):
Now spring is here the lake seems a painted picture,
Unruly peaks all round the edge, the water spread out flat.
Pines in ranks on the face of the hills, a thousand layers of green:
The moon centred on the heart of the waves, just one pearl.
Threadends of an emerald-green rug, the extruding paddy-shoots:
Sash of a blue damask skirt, the expanse of new reeds.
If I cannot bring myself yet to put Hangzhou behind me,
Half of what holds me here is on this lake.
E qui, alle pendici del colle, per secoli i vibranti mercatini di Hangzhou offrivano agli abitanti e ai visitatori una miriade di prodotti, dalle sete preziose ai giocattoli per bambini, come ricorda un piccolo museo con statue a grandezza naturale alla base del Padiglione.
Nulla di più lontano da Genova e dalle Americhe, a prima vista. Eppure Hangzhou non fu una città come le altre, un mercato come gli altri. Hangzhou rappresentò il simbolo dell’esplosione commerciale cinese a seguito dell’apertura economica durante la dinastia Song. I Song erano costantemente sotto attacco lungo i confini settentrionali dell’Impero, e furono in un certo senso costretti a stimolare la produzione industriale e il commercio nei porti del Sud, per racimolare seta e denaro con cui corrompere, tenere a bada i “barbari” che premevano a Nord. Una storia che lascio agli specialisti della civiltà cinese.
Torniamo ad Hangzhou, e a Colombo. Tra il dodicesimo (quando divenne capitale dei Song) e il quattordicesimo secolo, Hangzhou si trasformò in una delle città più ricche del mondo. Visitata da Marco Polo, che la chiamava Quinsay e la descrisse con entusiasmo, Hangzhou era la vera destinazione cercata da Colombo. Il genovese in qualche modo convinse la Regina Isabella di Castiglia che il mondo in fondo era abbastanza piccolo, che l’Oceano tra le coste iberiche e quelle asiatiche era traversabile in poche settimane, e che era possibile stabilire rapporti commerciali e diplomatici con il Gran Khan, l’imperatore della dinastia mongola che aveva alfine sommerso i Song e che era parsa così cosmopolita e illuminata a Marco Polo.
Ovviamente, né Colombo né gli esperti alla corte di Isabella e di suo marito Ferdinando potevano sapere che la dinastia mongola era stata rimpiazzata dai Ming, o che Hangzhou era molto più lontana di quanto immaginato dall’intrepido e testardo genovese.
Dalla terrazza all’ultimo piano del tempio, mi affaccio sulle verdi onde di fronde mosse dal vento, mentre il gong risuona nell’aria e il mio sguardo si muove verso destra per incontrare prima la grande pagoda Leifeng e poi lo specchio d’acqua del Lago, attraversato da imbarcazioni turistiche di diverse dimensioni.
Se Colombo fosse arrivato ad Hangzhou invece che nelle isole caraibiche, cosa avrebbe fatto, e come avrebbe reagito? In Cina, Colombo si sarebbe trovato più a proprio agio che non nelle isole americane. Qui tuttavia, il genovese e Martín Alonso Pinzón e gli altri piloti, avrebbero probabilmente faticato non poco per farsi dare dagli ufficiali Ming il permesso di risalire il fiume Qiantang e di entrare ad Hangzhou. Inoltre, la Hangzhou che mi trovo davanti oggi è diversa da quella del periodo medievale e moderno, perfino nel suo tratto più essenziale. Quell’unione lago-città, che i cinesi chiamano il modello ‘Shan-shui’ (in realtà letteralmente montagna-acqua), non esisteva prima del Ventesimo secolo. Per secoli poeti e ufficiali e artisti visitarono il Lago Occidentale uscendo dalla città, e non come parte integrante del tessuto urbano. Solo a seguito della caduta dell’Impero, con la rivoluzione del 1911, il quartiere dei dominatori Qing fu smembrato, e le mura che correvano lungo il suo lato occidentale furono distrutte per permettere la costruzione di un moderno mercato. È dunque a partire dagli anni ’20 del Novecento che la nuova tradizione turistica di Hangzhou prende forma, come recentemente spiegato dalla ricerca di Shulan Fu ed altri “urban historians” cinesi.
E allora mi rendo conto che mito e storia, ipotetici incontri ed equivoci rendono i miei pensieri non meno tortuosi ed errati delle misure del globo e delle coordinate geografiche del testardo Cristoforo. Meglio scendere lungo i viottoli curatissimi della collina Wushan, per reimmergermi nella zona più turistica, dove migliaia di cinesi passeggiano lungo la riva del lago, affiancata dai grandi vialoni alberati che conducono al bellissimo Museo Nazionale della Seta, ma anche dai centri commerciali enormi, e ultimamente da caffè e perfino breweries – che la sera si popolano di giovani interessati a provare soprattutto birre IPA.
Mi dirigo quindi verso l’insenatura del bufalo dorato, dove una statua semisommersa ricorda a tutti i passanti la leggenda secondo cui, durante l’antica dinastia Han, in periodi di siccità un bufalo d’oro emergeva dalle profondità del Lago Occidentale e sputava acqua per riempirlo nuovamente, salvando sia il raccolto dei contadini sia l’ispirazione di pittori e letterati. Mi siedo su una panchina per osservare la statua e confesso di sentirmi tranquillo, rassicurato dalla certezza del mito che parte dall’impossibile per rivelare verità nascoste. Eppure, so che l’indomani vorrò muovermi verso la sponda nord del lago, dove la storia nuovamente mi attrae, per sbirciare ville cinesi dell’Età Repubblicana, periodo di grande apertura e cambiamenti, come ci ha raccontato Frank Dikötter nel suo libro più breve, ma forse anche più incisivo e sorprendente: The Age of Openness: China Before Mao. Nuovamente, la mia immaginazione non si accontenterà dei giardini curati, o degli interni di ristoranti storici come il 1913 Keting, che ricreano l’atmosfera degli anni ’30. Di nuovo, passeggiando cercherò di riscrivere e ipotizzare storici incontri mancati e voci che solo il Lago Occidentale ancora ricorda, prima forse di attraversare la lingua di terra che porta verso la grande pagoda, con i suoi soffitti e pannelli dorati, per rifugiarmi in altre leggende.
*Matteo Salonia è Assistant Professor and Deputy Head at the School of International Studies of the University of Nottingham Ningbo (China)
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