Mi piace talvolta ascoltare con poesia,

con malinconia,

guardando per le ciglia socchiuse

la pelle rosea o bruna

di una bambina devota

che non conosco;

mi piace talvolta nelle chiese deserte,

ascoltare con poesia,

con malinconia,

le lunghe lente note

di musiche ignote…

Aleardo Kufutà, “La voce degli organi”, da “Il castello delle voluttà”, 1919.

Si deve all’instancabile talento critico, e alla profonda cultura artistico-letteraria di Francesca Cagianelli la riscoperta – una delle molte a suo credito – di un artista, pittore, letterato quasi sconosciuto, Aleardo Kutufà d’Atene. “L’ora delle lampade” è una mostra a lui dedicata a Collesalvetti, presso la Pinacoteca Comunale Carlo Servolini, nello splendido, romito complesso di Villa Carmignani. Visitabile sino al 7 agosto 2025, ad ingresso gratuito, il giovedì pomeriggio.

Nel valzer incerto, talora perverso, dei “minori” e dei “maggiori”, dei “minimi” e dei “massimi”, che i costruttori di canoni, più o meno liberi, ma assai spesso al soldo di qualcuno, o qualcosa, mettono più o meno affrettatamente – e affettatamente – in scena, sembra esserci stato finora poco spazio per questa personalità livornese, ma in realtà europea, che ebbe vita relativamente lunga e multiforme produzione. Assente dai repertori maggiori – dal “Dizionario biografico degli Italiani” al più recente “Wikipedia” – se ne reperiscono in rete o nelle biblioteche tracce sbiadite, contradditorie, che confondono anziché illuminare. C’è chi vuole che il suo nome, legato al mondo greco, sia stato uno pseudonimo, e si chiamasse in realtà Filippo Argenti (come il campione dantesco d’ira e cieca rabbia, che Dante maltratta assai, all’Inferno; peraltro, anche Argenti era pseudonimo, si sa, anzi nomignolo, per il legame cieco dell’iracondo immerso in fanghi inameni, col lusso e il denaro); c’è chi ne accorcia o allunga la vita, o chi ancora lo vede soltanto come poeta, e non anche come raffinatissimo artista, legato al divisionismo, e poi a tutta la varia costellazione simbolista che dal Belgio giunge alla Francia, per tornare poi magari in Boemia – passando per Livorno – in un “loop” che lascia davvero senza fiato.

Immagine di A Kutufà dal libro Elegia delle città morte del 1928 -dall’edizione digitalizzata dalla Biblioteca Berio di Genova – libero accesso

Qui Francesca Cagianelli mette i puntini sulle i. Individua precisamente data di nascita e di morte di Aleandro (1891-1972), e ne delinea il cerchio di amicizie e committenze, che include gran parte del mondo dell’arte e dell’architettura, nonché della letteratura livornese, e italiana, a cominciare da Ettore Serra, lo spezzino scopritore di Ungaretti. E i celebri versi ungarettiani di “Commiato”, che conviene ripetere perché davvero belli, “Gentile/Ettore Serra/poesia/è il mondo l’umanità/la propria vita…” ben s’addicono anche ad Aleardo. Che aveva nel cognome stesso l’eco dell’antica parola greca, κουφτης, ovvero “leggerezza” (con inversione sillabica, s’intenda). Carlo Servolini ne intuì la grandezza, stigmatizzando anche l’oblio caduto su di lui. Era erede di tutta una tradizione estetica. Ruskin, D’Annunzio, Oscar Wilde, Flaubert. Magari indagando a fondo si troverà anche qualche traccia di Montesquiou. Insomma, tutto il pantheon dell’estetismo e decadentismo, che poi magari scivola per alcuni in futurismo, per altri, come Kutufà stesso, nelle movenze talora quasi crepuscolari delle sue poesie. O del suo bellissimo, lungo romanzo “La melodia del dolore”, del 1953, che passò quasi inosservato ma andrebbe davvero ripubblicato. Magari in un volume che raccolga tutta l’opera letteraria di questo straordinario talento.

La mostra è stata resa possibile anche dalle ricerche di Stefano Andres in quella miniera ancora in parte inesplorata che è il Fondo Grubicy-Benvenuti al MART. Nelle quattro sezioni della mostra, una più attraente dell’altra, si osserva il percorso di Aleardo tra i simbolismi e i topoi letterari del tempo, percorso collettivo, quasi iniziatico, percorso con tanti sodali e amici, prima di tutti Dal Molin Ferenzona. La Bruges “morta” di Georges Rodenbach, tutto il simbolismo medievistico belga, le città “del silenzio” dannunziane, le beghine, l’esoterismo, la massoneria. La mostra inizia doverosamente con la Venezia di Ruskin, così fondamentale per tutti i movimenti di pensiero e arte successivi, almeno per quel che riguarda estetismo, decadentismo e simbolismo.

E qui, nella prima sezione della sala, appare anche quel che è forse la “pièce de résistance” dell’intero percorso: il “Trittico” pittorico che documenta “la mia dimora distrutta”, ovvero il Palazzo delle Colonne a Livorno. 1: Il vestibolo; 2: Il salone, in vista: La stanza dei fondi oro; 3: Il salone, in vista: La sala da pranzo con Polittico. Un fitto intreccio di simboli, richiami, raffinatissimi labirinti per la percezione e l’identificazione, davvero un omaggio al mondo di Ruskin (almeno, il mondo della sua mente).

Una sala della mostra. Foto di P. Bernardini

La seconda sezione si ispira alla poetica di Aleardo come viene esposta nel libro del 1944 che forse è l’opera a lui legata più nota e discussa, quella su Benvenuto Benvenuti, “Un colloquio di Aleardo Kutufà d’Atene”, pubblicata a Lucca da Lippi nel 1944. Ove il motivo delle laudi dannunziane è sviluppato in una forma sinfonica, quasi sistematica, per citare l’autore, “le sinfonie della realtà, del panteismo, del misticismo, delle voci primordiali, del mistero tragico, del sogno, della morte”. E qui entra in giuoco anche quella figura di storico dell’arte ma soprattutto teoreta fondamentale per tutto il gruppo di artisti intorno a Benvenuti, Angelo Conti (1860-1930), il personaggio-chiave per comprendere quell’ascesi estetica, quel culto del bello, segno di quei tempi, esasperato forse ma estremamente prodigo di capolavori in tutte le arti, almeno nei suoi fondamenti teorici: Platone, Schopenhauer, in parte Kant. “La beata riva”, uscito nell’ “annus mirabilis” 1900 (muoiono Wilde e Nietzsche, s’apre il secolo nuovissimo) è il manifesto dell’estetica di Conti. Non a caso, Francesca Cagianelli ha utilizzato la locuzione nella mostra del 2022, nella medesima sede, su Gino Romiti e lo spiritualismo a Livorno (la Scuola di Micheli, il Caffè Bardi, Bottega d’Arte…). Quella “beata riva” condizionò l’estetica e la letteratura per decenni. Giovanni Piazzi utilizzò il medesimo titolo per un fortunatissimo manuale illustrato di letteratura, arti, estetica – non concepite come divise – che venne pubblicato e adottato a lungo (dal 1911 almeno fino al 1923), e che era inteso anche per gli istituti tecnici, e “scuole affini”, a testimonianza del livello che ebbe (un tempo) l’insegnamento superiore in Italia.

Non dirò più oltre per non togliere al visitatore il piacere unico della scoperta, in questa piccola, densa, assai suggestiva mostra di Collesalvetti. Carlo Servolini mise Aleardo nella “sfilata dei dimenticati”. Ma ora Francesca Cagianelli lo ha sfilato, per dir così, da tale teoria, con agilità e perizia, approntando tutti gli strumenti per voci enciclopediche, quantomeno, siano esse d’antica tradizione, il citato “Dizionario biografico degli italiani”, o di più recente e libero conio (“Wikipedia”). Gli studiosi di arte potranno andare a braccetto con quelli di filosofia e soprattutto estetica. Cosa sosteneva ad esempio Kutufà nel libretto del 1911, certamente ispirato da Conti, ma non solo, “Metafisica teologica”, teorie estetiche poi riprese nel 1928 nella prefazione di proprio pugno alla “Elegia delle città morte”, ove si autodefiniva “caposcuola” della (misteriosissima)“arte sinarchica”, conferendo all’artista una profonda, forse eccessiva “missione nella storia umana” (Leonardo da Vinci nume tutelare di tutti questi artisti, che “consiglia di guardare fissamente una macchia in una parete per far scaturire da quella macchia una pittura”)? Qual era la sua posizione politica nei confronti della questione triestina? (Appose un suo scritto al poemetto di Camillo di Carovigno “Trieste”, pubblicato nel 1915 sempre a Livorno). Perché poi si fece prendere dal crepuscolarismo, con toni quasi gozzaniani? (come nella poesia citata qui in limine?). Perché lo si dà di solito per morto nel 1950 e nato nel 1888? Forse ad un certo punto smise di produrre e si chiuse in un romitaggio spirituale come riteniamo fosse d’attendersi da una simile personalità? Nel 1953, uscì un volume di scritti su lui, “Aleardo Kutufà d’Atene nell’arte e nella vita: giudizi di personalità e commenti della stampa estratti dai libri, dagli autografi e dai quotidiani”, che sembra davvero una celebrazione postuma (ma ancora non lo ho potuto vedere). Che cosa intuiva poi egli stesso nella splendida Lucca mia città del cuore anche se mai vi ho vissuto, che cantò in un rarissimo, prezioso volume del 1922, “La cerchia paradisiaca” – con copertina del sodale Dal Molin Ferenzona – per celebrare il sesto centenario della morte di Dante?

Insomma, i materiali sono davvero tanti. La magnifica stagione otto-novecentesca dell’arte livornese, italiana, ed europea, senz’altro, grazie a questa mostra, s’arricchisce d’un personaggio che d’ora innanzi non si potrà più ignorare. Paradossalmente, l’elogio maggiore se lo dovette, per iperbole, tessere egli stesso, nel volume del 1928 ora citato: “pensatore profondo, e artista molteplice, di una raffinatezza estrema”. “Egli impersona ‘L’Emigré’ di Paul Bourget, uomo d’altri tempi nelle sue vedute e nei suoi giudizi”. Era anche musicista, ed esecutore. Gli nocque forse un carattere peculiare, poco incline all’estroversione, (rancoroso?) insomma, un D’Annunzio alla rovescia. Così ci pare, superficialmente, forse.

Ora abbiamo tutti o quasi i tasselli per riscoprirlo.

Grazie a Francesca Cagianelli anche per questo.

La curatrice Francesca Cagianelli con Paolo L. Bernardini. Foto di Roxana Anton
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