Difendere il più debole, la vittima di soprusi e di indiscriminate persecuzioni. Giusto, al di là delle variegate motivazioni politiche che possono spingere alle più diverse manifestazioni. E la proposta: due popoli due stati: non c’è altra soluzione possibile al conflitto di Gaza.

Ma qui si desidera porre il problema, se non manchi qualcosa alle tante manifestazioni di sostegno al popolo palestinese. Se non sia il caso di chiedersi che cosa porta Israele a una condotta che si presenta come intollerabile da tanta parte della comunità internazionale.

Si dice che il modo con cui Israele conduce la sua guerra a Gaza sia conseguenza della strategia di Benjamin Netanyahu, accusato di corruzione, frode e abuso di potere, per procrastinare il momento in cui dovrà affrontare il giudizio dei tribunali. La storia è piena di casi di potenti che utilizzano la loro posizione e si servono anche di efferate avventure militari allo scopo di difendere i propri interessi. Ma limitarsi a questo, più che semplicistico, è fuorviante – come sono semplicistiche e fuorvianti tante analisi che impazzano sui mass media e sui social, vittime dalla ricerca di visualizzazioni a tutti i costi.

Netanyahu non è un autocrate: è stato ripetutamente e regolarmente eletto in un paese dove i processi democratici sono ben radicati. Al di là delle sue motivazioni egoistiche, vi sono altre ragioni che riguardano non solo lui, ma l’insieme della comunità israeliana. E derivano dall’identità di questa, dalla sua storia, dalla sua cultura condivisa. Ci sono le esperienze, non così lontane nel tempo, che sono alla base della formazione di Israele: innanzi tutto le vicende legate alla Germania nazista e in secondo luogo quelle derivanti dai primi decenni di vita del suo stato in Medio Oriente. Citiamo due casi paradigmatici.

I bombardamenti di Dresda

Il primo caso. Durante la seconda guerra mondiale, gli Alleati rasero al suolo molte città tedesche. Lo suggeriva la logica della guerra. Emblematico è il caso di Dresda nel febbraio 1945: quasi 4000 tonnellate di bombe. Dopo un primo raid aereo, la popolazione usciva dai rifugi, rientrava dai margini urbani dove si era rifugiata, cercava le cose disperse tra le macerie, soccorreva i feriti. Ma a breve distanza di tempo arrivava una seconda ondata: serviva a colpire i sopravvissuti che speravano che per quel giorno le bombe non cadessero più. La Germania era già in ginocchio e quei bombardamenti probabilmente non erano necessari sul piano militare, tanto più che distruggevano in prevalenza obiettivi civili. Quanto avvenuto a Dresda è rimasto come il paradigma dell’attacco alla popolazione civile condotto come una guerra di sterminio. Tutto questo era giustificato dalla necessità di estirpare la radicale malvagità del regime nazista.

Oggi, dal punto di vista israeliano, è facile immaginare che si ravvisi in Hamas qualcosa di simile al regime tedesco di allora, e che questo pertanto giustifichi anche il comportamento delle truppe israeliane verso la popolazione di Gaza. 

E se quello della seconda guerra mondiale è il paradigma che informa tanta parte della cultura israeliana attuale sotto il profilo militare, riguardo invece alla potenzialità di accordi coi popoli vicini, con cui lo Stato della stella di David ha a che fare, rilevante è il caso della pace raggiunta con l’Egitto.

Gli accordi di Camp David

Il secondo caso. La pace raggiunta con l’Egitto è stato un passo di importanza cruciale dopo il conflitto protrattosi dal 1948, che ha avuto nella Guerra dei Sei giorni (1967) e nella Guerra del Kippur (1973) i suoi momenti più tragici. L’Egitto, come tutti gli altri paesi della zona, non riconosceva il diritto all’esistenza dello stato di Israele, per quanto questo fosse stato sancito dalle Nazioni Unite nel 1947 (risoluzione 181). Gli accordi di Camp David (1978) mediati dagli Stati Uniti del Presidente Jimmy Carter posero la base per il riconoscimento mutuo tra Egitto e Israele, e questo avvenne col trattato di pace del 1979 e con lo scambio degli ambasciatori l’anno successivo. Quella pace fu raggiunta dopo un lungo processo bellico e in condizioni nelle quali l’Egitto si era già da tempo configurato come stato, dotato di un’organizzazione istituzionale ben strutturata e stabile.

Gli accordi di Camp David non furono raggiunti da “colombe” progressiste, ma da “falchi” fortemente nazionalisti quali erano Menachem Begin e Anwar as-Sadat: entrambi stanchi delle continue guerre, entrambi capaci di convincere i loro paesi che fosse più opportuno raggiungere un accordo piuttosto che insistere col conflitto. E anche se Sadat nel 1981 fu assassinato da un fanatico terrorista islamico proprio in protesta per il fatto che questi avesse accettato di riconoscere Israele, lo stato egiziano ebbe la capacità di proseguire sulla strada da lui intrapresa. Era maturato come stato capace di garantire continuità istituzionale nel tempo.

Lo stato e il mutuo riconoscimento

Sulla base delle citate esperienze, che formano parte del bagaglio culturale del popolo israeliano e non solo di Natanyahu, si può ritenere che un problema fondamentale per Israele, nel trattare col popolo palestinese, sia che questo non ha ancora uno stato capace di riconoscere il diritto all’esistenza dello stesso Israele. E se non c’è mutuo riconoscimento è impossibile che si stabilisca una pace duratura.

Quello del mutuo riconoscimento al diritto di esistere è un passo inevitabile senza il quale non v’è possibilità di pace vera. Un passo dal carattere istituzionale e identitario prima che politico. E sinché non sarà compiuto, le analisi politiche contingenti (quali l’insistere solo sui problemi dell’attuale leader israeliano, o il limitare le manifestazioni di sostegno a Gaza, al livello della mera protesta per gli attacchi israeliani) non riusciranno a spiegare fino in fondo quanto sta accadendo. E, non giungendo a spiegare le radici dei problemi, non creeranno le condizioni perché la comunità internazionale agisca al fine di eradicarli, identificando e definendo relazioni capaci di una pace duratura.

A Gaza il conflitto è scoppiato a seguito dell’attacco terroristico e della carneficina compiuta nell’ottobre 2023 da Hamas, organizzazione che è andata al potere a seguito delle elezioni in cui è prevalsa su Fatah. Ma Fatah, a differenza di Hamas, era giunto a essere propenso a riconoscere il diritto all’esistenza dello stato di Israele. Conseguenza: dal punto di vista israeliano, a Gaza la popolazione preferisce una forza politica (ritenuta organizzazione terroristica da parte della comunità politica occidentale) che insiste nel volere l’obliterazione di Israele. Come potrebbe in tali circostanze addivenire a un accordo solido con chi governa la striscia di Gaza? Il conflitto non potrà cessare sinché il popolo palestinese non si sarà configurato in un’organizzazione statuale che riconosca il diritto all’esistenza di Israele, e questa non può essere Hamas.

La politica bellicista portata avanti da Israele dopo l’attacco di Hamas si muove secondo direttrici simili a quelle che informarono l’azione degli Alleati nella Germania del ‘45. Bisogna tenerne conto.

E le forze politiche desiderose di fare gesti concreti per favorire la pace in Palestina, dovrebbero esercitare pressioni sia su Israele sia sulle forze politiche palestinesi, nei modi propri della diplomazia, al fine di configurare un mutuo riconoscimento tipo “Camp David 1978”.

Lo scopo è di raggiungere, dall’una e dall’altra parte, condizioni di stabilità politica, e queste richiedono istituzioni statali ben radicate, durature e desiderose di ottenere la pace anche se questa è percepita come un “male” perché l’altro è visto come un occupatore delle tue terre o come una minaccia per la tua sicurezza. La pace non è mai un male, ma se proprio la si vuole intendere per tale, la si intenda come il male minore.

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