di Axel Famiglini

Come ai tempi della guerra fredda?

Negli ultimi mesi, ovvero da quanto la Russia di Putin ha iniziato le proprie operazioni militari in Siria per puntellare ciò che rimane del regime di Assad, stiamo assistendo ad una costante e surreale propaganda in seno a numerosi mezzi di informazione nazionali ed esteri finalizzata, da un lato, ad esaltare – fino a pervenire all’irrealtà – l’azione militare condotta da Mosca in territorio siriano e, dall’altro, protesa spasmodicamente senza mostrare pudore alcuno – giacché neppure ai tempi dell’Unione Sovietica si era arrivati a tanto – ad ipnotizzare l’elettorato dei Paesi occidentali circa l’inevitabilità “cosmico-storica” ed “escatologica” di una provvidenziale alleanza finale euroasiatica con la Russia finalizzata a combattere il terrorismo islamico e i loro (veri o presunti) sostenitori ovunque questi si trovino. Tale “extrema ratio” si appaleserebbe, stando ai proclami dei novelli russofili domestici ed internazionali, in tutta la sua “irrevocabile” urgenza sia a fronte dei marchiani errori geopolitici che sarebbero stati commessi nei decenni passati dalle innumerevoli sciagurate alchimie politiche occidentali orchestrate in giro per il mondo che, di converso, ponendo a confronto di tali deliranti macchinazioni euro-atlantiche la luminosa e progressiva “buona novella” moscovita tesa al raggiungimento di una “pace perpetua” custodita dal Cremlino sull’intero globo terracqueo. Naturalmente il “deus ex machina” di una tale visione “ecumenica” non sarebbe altri che Vladimir Putin, nuovo “zar” della “Terza Roma” posta a difesa della cristianità ortodossa e, più in generale, dei variegati interessi materiali di “Santa Madre Russia” sparsi nei più svariati angoli del globo. Se tale visione esalta coloro che hanno covato nel tempo un acceso “antioccidentalismo”, “antiatlantismo” ed “antiamericanismo” o, più semplicemente, individuato “corrispondenze di amorosi sensi” con il regime autoritario dell’uomo forte di Mosca, certamente una tale “proposta politica” non dispiace a coloro che hanno tratto fino a tempi recentissimi notevoli profitti dalle relazioni commerciali con la Russia e i cui affari sono stati colpiti dalle sanzioni poste in essere contro il Cremlino da Europa e Stati Uniti dopo l’intervento russo in Ucraina e la relativa annessione della Crimea. Parimenti l’atteggiamento “isolazionista”, ambiguo nonché contraddittorio degli Usa guidati dal presidente Obama ed il parallelo attivismo geopolitico di Mosca hanno suggerito ad una parte dell’ “intellighenzia” economica occidentale che forse il tempo della “nazione guida” americana stesse volgendo al termine, per cui, secondo tali soggetti politico-economici, un’alleanza con la Russia sarebbe potuta risultare conveniente, in particolare per coloro che se ne fossero resi promotori in Patria ed avessero varcato per primi le porte del Cremlino accompagnati da “copiosi doni” da offrire in omaggio alla “corte imperiale”. E’ forse in tal senso che va letto il plauso entusiastico di determinati media verso la “missione civilizzatrice” di Mosca, adesione supportata da influenti gruppi privati e da certa politica ad essi collegata. Indubbiamente l’atteggiamento americano ha fornito importanti elementi indicatori affinché tale scenario potesse apparire plausibile, in quanto il rifiuto americano di risolvere il caos in corso in Medioriente e Nord Africa utilizzando l’intera forza militare, politica ed economica a propria disposizione in attesa, al contrario, che qualche volenteroso lo facesse al posto proprio – indipendentemente da quelle che sono le alleanze in essere – ha aperto la strada nell’area ai competitori regionali ed internazionali come l’Iran e la Russia. Tale situazione ha messo in allarme gli alleati arabi ed alcuni Paesi europei i quali hanno tentato di imbrigliare la tempesta emersa dalle primavere arabe senza tuttavia riuscirci ma, al contrario, contribuendo a creare l’attuale situazione di stallo che vede contrapporsi su più fronti opposte sfere di influenza nel Vicino Oriente ed in Nord Africa. La sorprendente politica americana tesa ad acconsentire che Iraniani e Russi potessero mettere piede sul campo di battaglia mediorientale con la speranza che questi rimettano in qualche modo ordine nella regione “in accordo con Washington” e la contestuale flebile ed “eurodipendente” reazione statunitense all’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca ed alleati locali hanno certamente rappresentato un drammatico spartiacque rispetto alla tradizionale politica “a stelle e a strisce” del secondo dopoguerra, fatto che indubbiamente ha fornito linfa vitale a coloro che chiedono una svolta “filorussa” nelle politiche estere dei propri Paesi di appartenenza; basti in tal senso solo pensare alla posizione di certi partiti populisti della destra europea come il “Front National” in Francia o lo “UKIP” in Gran Bretagna. E’ certamente emblematico il fatto che mentre da un lato gli Stati Uniti dichiarino a parole di supportare le istanze dei propri alleati sullo scacchiere della politica internazionale, dall’altro cerchino a poco a poco un accomodamento con quelli che erano i propri rivali geostrategici storici, come la Russia e l’Iran degli Ayatollah. Il recente accordo sul nucleare iraniano ne costituisce certamente un segnale. Il fatto che gli Stati Uniti continuino a fungere da cassa di risonanza per la richiesta araba ed anglo-francese di dimissioni del presidente siriano Assad in realtà potrebbe semplicemente costituire un utile espediente per la Casa Bianca da un lato per “alzare la posta” con Russi ed Iraniani in merito ad un possibile riequilibrio delle forze in Medioriente e dall’altro per calmare contestualmente le ansie e i timori dei propri alleati storici più e più volte traditi da quello che assomiglia essere sempre più una sorta di doppio gioco “a stelle e a strisce”.

Intrighi diplomatici sulla crisi siriana

L’intenzione iniziale americana, emersa dietro le quinte dell’assemblea generale dell’Onu, di escludere dalle trattative sul destino della Siria i Paesi europei, limitando il tavolo a Russia, Iran, Arabia Saudita e Turchia, ha fornito già una prima indicazione di come gli Stati Uniti avrebbero preferito procedere sull’intera faccenda, ovvero pervenire ad un accordo separato con Russia ed Iran a cui gli “alleati” fossero costretti a sottostare essendo ben noto che né Mosca né Teheran vogliano rinunciare, rebus sic stantibus, alle proprie prerogative in terra siriana. E’ risultato altresì emblematico che Assad si sia recato a sorpresa a Mosca a fine ottobre sia con lo scopo di porgere omaggio a Putin che col fine di ribadire all’interno del consesso internazionale, a beneficio dell’assai poco disinteressata “mano tesa” moscovita, che la protezione russa posta sul regime siriano di Assad implica il riconoscimento del ruolo del Cremlino quale imprescindibile canale diplomatico utile per coloro che intendano giungere ad una soluzione comprensiva del conflitto in Siria, la quale dovrà necessariamente tenere in debito conto i desiderata geopolitici russi per il Paese. L’apertura di Putin (ed Assad) alla diplomazia e ad una collaborazione con l’opposizione moderata siriana va letta nel senso di una richiesta da parte russa verso l’Esercito Libero Siriano (FSA) ed il suo braccio politico di un abbandono della lotta contro il regime e di una sostanziale accettazione dello status quo legata all’eventuale elargizione di qualche beneficio a favore di quegli elementi dell’opposizione disposti a scendere a patti con Damasco ed i suoi alleati. E’ parimenti singolare che mentre Mosca mostrava il suo interesse per un dialogo con i ribelli siriani, questa richiedesse agli alleati occidentali dell’opposizione moderata al regime le posizioni militari sul terreno delle truppe dell’FSA, adducendo come scopo ufficiale la volontà di creare un coordinamento con i ribelli “anti-Assad” sostenuti dall’Occidente ed in lotta contro l’ISIS. E’ purtroppo noto che mentre tali richieste venivano inoltrate (e, fortunatamente, respinte con un cortese diniego) alle cancellerie europee e a Washington, gli aerei russi bombardassero in primo luogo obiettivi legati all’opposizione siriana moderata (infrastrutture civili incluse come ospedali) e solo secondariamente le postazioni dell’ISIS. Che i Russi stiano conducendo una sorta di “gioco delle tre carte” è evidente dal fatto che mentre Assad si è reso disponibile “a parole” a sostenere una transizione politica, egli stesso abbia però specificato che ciò si potrà verificare solo qualora i “terroristi” venissero del tutto sconfitti, essendo ben noto che Assad includa, guarda caso, in seno al termine di “terroristi” proprio i gruppi dell’opposizione moderata siriana con cui si dovrebbe apprestare ad iniziare colloqui di pace. Mentre queste prime mosse prendevano forma, gli Stati Uniti, la Russia, la Turchia e l’Arabia Saudita si incontravano a Vienna nel tentativo di chiudere la partita siriana e mediorientale in seno ad un gruppo ristretto a cui si sarebbe dovuto aggiungere l’Iran in un secondo momento. Tuttavia ciò che deve essersi appalesato ai convenuti è che l’esclusione dalle trattative di importanti Paesi cardine nella crisi in terra damascena non avrebbe certamente contribuito alla risoluzione del conflitto e avrebbe potuto provocare storiche spaccature in seno a schieramenti costituiti da Paesi da sempre considerati come “stretti alleati”. In tal senso, constatato il fallimento di una riunione a quattro e preso atto che la Francia stesse già preparando la propria “contro-riunione” a Parigi, si è ritenuto più opportuno tornare sul tavolo delle trattative nella maniera più plurale possibile il 30 ottobre nuovamente a Vienna. E’ emblematico in tal senso che la Francia si sia proposta ancora una volta come l’effettivo capofila politico di coloro che in Europa e nel Medioriente chiedono che Assad, dopo un eventuale periodo di transizione, lasci il potere a favore di un governo realmente rappresentativo nel quale l’opposizione moderata possa avere un ruolo di primo piano, senza ovviamente dimenticare l’urgenza primaria di sconfiggere l’ISIS e di riportare ordine in una regione scossa da troppi anni di conflitti intestini. Pertanto se da un lato i Francesi, i Britannici ed i Paesi Arabi hanno continuato e continuano tutt’ora a sostenere la richiesta di un rinnovamento ai vertici di Damasco, gli Americani, più che costituire i reali “capocordata” di questa operazione geopolitica, fungono in realtà da mediatori con Russi, Iraniani ed alleati, da un lato cercando di non scontentare i propri partner internazionali ma dall’altro intavolando trattative “sotto banco” con il “nemico” (come già accaduto nel corso delle trattative sul nucleare iraniano) per risolvere la questione nella maniera a loro più gradita. L’annuncio americano dell’invio di un manipolo di truppe speciali in Siria per sostenere lo sforzo bellico di una coalizione di curdi e di locali milizie siriane sostenuta dagli Usa contro l’ISIS è indicativo del fatto che gli Stati Uniti da un lato intendano contrastare le ambizioni del sedicente “Stato Islamico” ma dall’altro non abbiano nei loro piani il proponimento primario di supportare le milizie ribelli che chiedono contestualmente alla sconfitta dell’ISIS la fine del regime di Assad. D’altra parte i gruppi dell’opposizione siriana che sovente sono descritti come sostenuti dagli Usa sulla stampa nazionale ed internazionale il più delle volte ricevono armi di fabbricazione americana che però vengono sovvenzionate e distribuite grazie al supporto reale dei Paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa, senza dimenticare l’imprescindibile sostegno turco. Essendosi gli Usa ritrovati nella condizione, dopo il lungo torpore politico-miliare rappresentato dalla zoppicante coalizione a guida americana “anti ISIS”, di dover arrancare all’inseguimento delle incalzanti iniziative russe in Medioriente, il dispiegamento di una forza simbolica di truppe speciali statunitensi in Siria potrebbe costituire una prima contro-risposta di Washington all’intervento moscovita, una mossa tesa a riaffermare un proprio ruolo primario nella regione e parimenti a porgere una mano tesa verso Mosca con riferimento a quelli che potrebbero essere gli obiettivi comuni da perseguire nell’area. Gli Americani, se vogliamo osservare la realtà per come si presenta, in questi anni hanno più che altro fornito il proprio contribuito ai ribelli siriani moderati con il fine di possedere una sorta di “contrappeso” da poggiare sul piatto della bilancia del tavolo delle trattative e, allo stesso tempo, allo scopo di calmierare le preoccupazioni degli alleati regionali ed internazionali pur dimostrando sovente di condividere solo in parte le loro agende geopolitiche. L’esito dei colloqui di Vienna “allargati” a cui ha preso parte, su invito americano, l’Iran stesso, ha riattivato in maniera importante la macchina della diplomazia sul caso siriano, delegando l’Onu ad organizzare trattative tra il governo di Damasco e l’opposizione al regime e a pianificare un “cessate il fuoco” a cui dovrebbe seguire una transizione politica accompagnata da nuove elezioni. Ciononostante il dilemma del destino del presidente Assad è rimasto irrisolto, giacché questo rappresenta fondamentalmente il nodo centrale di tutta la questione che divide gli schieramenti sul campo di battaglia e sui tavoli della diplomazia.

Terrorismo e politica estera (1)

Il 31 ottobre scorso un aereo di linea russo con 224 persone a bordo, partito dalla località egiziana di Sharm el-Sheikh e diretto a San Pietroburgo, si è schiantato nella penisola del Sinai a seguito di un attentato rivendicato dall’ISIS e condotto con il fine di “punire” Mosca per il suo intervento militare nella regione. Inizialmente sia i Russi che gli Egiziani hanno tentato di negare che l’aereo fosse precipitato a causa di un’azione terroristica, chiedendo che i media e i governi occidentali attendessero la fine delle indagini prima di giungere a delle conclusioni, a loro dire, affrettate. L’Egitto comprensibilmente teme che la paura suscitata da un rafforzamento del terrorismo nel Paese, amplificata dai tragici fatti già verificatisi a più riprese in Tunisia ed in Turchia, possa in qualche modo allontanare qualunque ipotesi di ripresa di un’economia turistica già in parte compromessa dall’instabilità provocata dalle primavere arabe. La Russia di Putin, dal canto suo, già esposta a crescenti problemi finanziari, potrebbe iniziare ad accusare un drammatico calo nei consensi se la classe media, afflitta da tempo dalla crisi economica causata dal crollo del prezzo del petrolio e dalle sanzioni, iniziasse a sentirsi un bersaglio preferenziale del terrorismo a causa di un’avventata politica estera promossa dal Cremilino in Siria ed altrove. Certamente è singolare che l’ISIS, in gran parte risparmiato dai bombardamenti russi, si sia esposto a tal punto all’ “ira di Mosca” col mero scopo di guadagnare un’ulteriore quota di attenzione da parte dei mezzi di informazione a fronte del rischio di subire un maggior numero di bombardamenti da parte dell’aviazione russa impegnata in un’eventuale ritorsione contro il “Califfato”. Parimenti l’ISIS stesso avrebbe avuto a disposizione un lasso di tempo veramente limitato per pianificare l’attentato se pensiamo che i bombardamenti russi in Siria siano iniziati appena il 30 settembre scorso. In tal senso, per quanto sia evidente che l’ISIS cerchi di trarre notorietà da qualunque azione terroristica che raggiunga l’attenzione dei media, rivendicandone legittimamente o meno la paternità, non appare del tutto certo che i mandanti di tale attentato siano ascrivibili realmente al mondo del cosiddetto “Califfato”. Comunque siano andate le cose i primi Paesi che hanno collegato ufficialmente l’avvenuta tragedia aerea con un attentato dinamitardo del terrorismo islamico sono stati, attraverso fonti indipendenti, gli Stati Uniti ed il Regno Unito. In particolare Londra, dopo aver esaminato le informazioni in proprio possesso, in parte derivate dal centro di ascolto britannico del GCHQ collocato sull’isola di Cipro, ha decretato, per ragioni di sicurezza, la sospensione di tutti i voli da e per Sharm el-Sheikh, mandando su tutte le furie gli Egiziani (proprio in quei giorni il presidente Al Sisi era in visita presso la capitale britannica) ma inducendo altri Paesi europei a mettere in campo provvedimenti similari. La reazione russa non si è fatta altresì attendere. In particolare il Ministero degli Esteri russo ha accusato il governo britannico di aver tenuto scientemente per sé informazioni che potevano provare un collegamento diretto tra il disastro aereo ed il terrorismo, evitando di proposito di condividere tali fondamentali indicazioni dell’ “intelligence”, utili per la sicurezza dei cittadini russi, con Mosca. Sembrerebbe in tal senso che il primo ministro britannico Cameron ed il presidente russo Putin abbiano avuto un’accesa discussione telefonica in merito alla decisione del Regno Unito di sospensione dei voli da e verso il Sinai anche se poi, nelle dichiarazioni ufficiali, l’ipotesi dello scontro verbale fra i due leader è stata smentita. Ciononostante, attraverso gli ambienti politici moscoviti è giunta comunque la voce di chi ha accusato Londra di aver sospeso i propri voli verso le località del Mar Rosso al fine di esercitare una pressione politico-diplomatica sulla Russia a seguito del proprio diretto coinvolgimento nella guerra siriana, cercando in tal modo di orientare i bombardamenti russi verso le forze dell’ISIS e non verso quelle dei ribelli moderati sostenuti dall’Occidente. Il Regno Unito, particolarmente esposto agli eventi occorsi in Egitto a causa dell’elevato numero di turisti presenti nel Paese, ha inviato propri esperti “in situ” sia al fine di organizzare il rimpatrio dei numerosi connazionali ivi presenti che per coadiuvare gli Egiziani nel miglioramento dei propri standard di sicurezza aeroportuali. La stessa Russia alla fine, probabilmente pressata da un’opinione pubblica in fermento rispetto le notizie che circolavano sui media internazionali, ha dovuto sospendere i propri voli verso l’Egitto e procedere al relativo rimpatrio dei cittadini russi ancora presenti nel Paese.

Un’offensiva “deludente”

I primi mesi dell’offensiva russa in terra siriana non hanno prodotto i risultati sperati da Mosca. Nonostante l’appoggio aereo fornito al regime di Assad, l’esercito siriano coadiuvato dagli Iraniani, dopo alcuni iniziali successi, è stato respinto su gran parte della linea del fronte dai ribelli siriani sostenuti da Paesi arabi ed Occidente, in particolare grazie alle copiose forniture belliche (basti citare i missili TOW anticarro di fabbricazione americana forniti dalla CIA agli Arabi) che sono state elargite loro in maniera assai generosa col fine di resistere alla nuova offensiva promossa da Mosca e Teheran. Il Cremlino, dato che la situazione sul terreno languiva a proprio sfavore, ha inizialmente preferito cambiare tattica, tentando l’approccio diplomatico e, in questo caso, riaffermando nuovamente la possibilità che Assad potesse dimettersi, favorendo così una transizione politica nel Paese. L’Iran, alleato di ferro del regime di Damasco, avrebbe in tal senso fatto sapere al “compagno d’armi” moscovita che non intende in alcun modo rinunciare ad Assad, avendo l’Iran importanti interessi geopolitici nel Paese, a cominciare da un’essenziale via di transito in direzione Libano ove opera Hezbollah, anch’esso pesantemente coinvolto nella guerra civile siriana a sostegno del regime. La diatriba, condotta tutta apparentemente “sottobanco”, tra Iran e Russia sul destino di Assad è tornata più volte alla ribalta a seconda di quali segnali i Russi abbiano deciso di lanciare ai loro interlocutori geopolitici. Tuttavia se le proposte russe e le lamentele iraniane siano reali o un mero gioco delle parti (o una via di mezzo fra le due) rimane da chiarirsi dato che contemporaneamente la Russia ha più volte tentato, sempre a livello diplomatico, di proporre risoluzioni Onu che in qualche modo legittimassero la permanenza di Assad al potere. Allo stesso modo la Russia ha nuovamente ribadito la propria intenzione di rifornire l’Iran con missili terra-aria S-300, fatto che testimonierebbe relazioni più che cordiali fra i due Paesi. Mentre Russi ed Iraniani probabilmente si esercitano in un mero gioco delle parti (senza però tralasciare, forse, qualche legittimo sospetto reciproco) e gli Americani danno “un colpo al cerchio ed uno alla botte”, i ribelli siriani hanno più volte chiesto a Francia e Regno Unito di supportare le loro istanze sullo scacchiere occidentale. In tal senso è indicativo che il governo britannico, a lungo pressato per un suo coinvolgimento nei raid aerei contro l’ISIS in Siria, sia da lungo tempo parzialmente sotto assedio da parte di una frangia di parlamentari conservatori ribelli (alcuni dei quali presenti nell’influente “Foreign Affairs Select Committee”) che vorrebbe concentrare le forze occidentali contro l’ISIS stringendo un’alleanza con Russi, Iraniani ed Assad. Dal canto suo il governo britannico ha sempre risposto che i Russi hanno degli obiettivi geopolitici assai differenti rispetto a quelli del Regno Unito e che pertanto una tale ipotesi non sarebbe né percorribile e tanto meno politicamente coerente ed accettabile. Ciononostante gli stessi media britannici, come quelli francesi, sono pervasi da numerosi e sospetti “megafoni” giornalistici e radiotelevisivi, per non parlare di internet, richiedenti un’adesione alla linea moscovita, fatto che ricorda, in un certo senso, le analoghe pulsioni filotedesche che attanagliavano parte della stampa e della politica britannica attorno agli anni dello scoppio della seconda guerra mondiale. In tal senso è evidente nel caso inglese (ma non solo ovviamente) che le importanti relazioni economiche che si sono sviluppate nei decenni passati tra Mosca e Londra in parte collidano con una politica estera posta in buona misura in opposizione rispetto a tali interessi e ciò si è verificato, non senza gravi “dissidi interiori” da parte britannica, a causa delle ricorrenti crisi internazionali che hanno progressivamente danneggiato le già storicamente altalenanti relazioni anglo-russe. E’ altresì da rammentare che se da un lato esistono legami economici con la Russia, da un altro ne sussistono di ancora maggiori e di più profondi con i Paesi arabi; in tal senso è palese che il Regno Unito debba necessariamente condividere le aspirazioni e le istanze degli attori del Golfo persico se intende continuare ad alimentare solide alleanze di vecchia data con il Vicino Oriente, simboleggiate, in ultima istanza, dalla nuova base navale britannica in costruzione nello stato del Bahrein.

Terrorismo e politica estera (2)

Per quanto in talune circostanze si cerchi in tutte le maniere di evitare discutibili “dietrologie”, a volte si verificano fatti che destano comunque il legittimo sospetto che in qualche modo possano conoscere una diretta ed inquietante correlazione tra di loro. Il primo di questi fatti è rappresentato dall’uccisione di Mohammed Emwazi, altrimenti conosciuto come “Jihadi John”, il boia dell’ISIS. L’eliminazione di questo pericoloso terrorista, occorsa il 12 novembre scorso per opera di droni americani, ha avuto un alto valore mediatico e simbolico nella lotta contro l’ISIS anche se forse, in realtà, sembrerebbe che lo jihadista fosse già da tempo caduto in disgrazia in seno all’organizzazione di Al-Baghdadi, dato che alcune fonti sosterrebbero che lo “Jihadi John” fosse ormai visto dai suoi stessi compagni come una presenza scomoda in seno al sedicente “Stato Islamico”. Infatti, essendo noto che numerosi Paesi stessero alacremente dando la caccia al fin troppo celebre jihadista, dopo che i suoi efferati delitti erano stati trasmessi in “mondo visione”, il timore di essere colpiti da una bomba occidentale, rimanendo sconvenientemente in sua “compagnia”, avrebbe creato un vuoto crescente attorno alla figura di Mohammed Emwazi, conducendolo verso un progressivo isolamento. Considerando inoltre il fatto che l’organizzazione sia retta principalmente da Iracheni mentre i “combattenti stranieri” fungano, bene o male, da “carne da cannone”, la morte dello “Jihadi John” non avrebbe rappresentato un duro colpo per la struttura gerarchica dell’ISIS. Il secondo evento degno di nota, datato 13 novembre, è stata la liberazione di Sinjar dai miliziani dello “Stato Islamico” (avvenuta per opera dei Curdi e delle forze aeree della coalizione internazionale “anti-ISIS”) e la contestuale conquista di un’importante arteria di comunicazione tra la capitale dell’ISIS, Raqqa, e Mosul. Appare in tal senso a dir poco impressionante che mentre nella giornata del 13 novembre sui media occidentali si celebravano questi due consecutivi successi contro il sedicente “Califfato”, nella serata di quello stesso venerdi di novembre (nell’attesa, fra le altre cose, della visita del presidente iraniano Rohani in Italia e Francia ) Parigi sarebbe stata colpita da una feroce serie di attentati che hanno lasciato sul terreno più di cento morti e più di trecento feriti.

Gli attentati di Parigi

La Francia, nel corso del 2015, è stata ferocemente colpita dal terrorismo. Ciò è dovuto in primo luogo al ruolo di primo piano che Parigi si è ritagliata in seno alle crisi mediorientali e nordafricane che si sono avvicendate negli ultimi anni. In tal senso la Francia ha subito più di altri i contraccolpi di questa sovraesposizione politico-militare e mediatica che ha visto il Paese in prima linea con propri uomini e mezzi in seno a numerosi scenari internazionali, dettando una linea politica che spesso e volentieri, supportata in questo dal Regno Unito, sposava le istanze geopolitiche dei Paesi del Golfo in un clima politico di parziale latitanza degli Stati Uniti. Da questo punto di vista i potenziali nemici della Francia potrebbero essere costituiti da un numero non contenuto di soggetti operanti a livello internazionale e per quanto l’ISIS, dopo una nuova azione terroristica a Beirut il 12 novembre, abbia nuovamente rivendicato la paternità degli attentati parigini (dimostrando ancora una volta, nell’ipotesi che la responsabilità diretta di tali atti scellerati sia effettivamente fondata, un’eccezionale capacità organizzativa), in realtà non sono pochi coloro che potrebbero aver tratto beneficio da un’azione terroristica di così ampia portata. Il presidente Hollande, visibilmente scosso per quanto accaduto, ha indubbiamente compreso che la crisi siriana fosse al centro delle motivazioni che hanno portato a questa terrificante aggressione compiutasi in terra francese e, sulla scia delle forti e comprensibili emozioni prodotte dalla strage, ha proposto un cambio di rotta verso una politica estera più conciliante, promuovendo una coalizione internazionale che metta assieme tutti i più importanti attori politici coinvolti in Medioriente, Russi ed Americani in primis, affinché l’ISIS venga distrutto e la regione possa conoscere un nuovo processo di stabilizzazione dopo i “marosi” costituiti dalle primavere arabe e dai relativi “effetti collaterali” prodotti dalle stesse. Questa nuova iniziativa francese ha scatenato una tempesta mediatica di sapore “filorusso”, evidentemente volta a sfruttare il dolore e la paura prodotta da questa grave ferita interna subita dalla Francia, al fine di trascinare il Paese e l’Europa verso una politica estera accondiscendente nei confronti delle mire geopolitiche del Cremlino. E’ risultato certamente vergognoso che la Russia abbia cercato di manipolare questa immane tragedia per supportare la propria agenda in politica estera, arrivando a scrivere “Per Parigi” sulle bombe che sganciava in Siria (il più delle volte sulla testa dei ribelli moderati e della popolazione civile) e a regalare ufficialmente ai Francesi un cucciolo di pastore tedesco a mo’ di compensazione per un cane poliziotto ucciso dai terroristi nel corso di un blitz nei giorni successivi gli attentati parigini. Nonostante il dolore e la costernazione per quanto accaduto a Parigi, in realtà il governo francese, pur costretto a fornire una risposta “forte” e “risoluta” a quanto accaduto lungo le strade della capitale attraverso un aumento consistente del proprio sforzo militare contro l’ISIS in Siria e a promuovere una contestuale azione diplomatica sorta dalla consapevolezza che in Siria sia comunque in corso uno scontro tra sfere di influenza che ha lasciato spazio al dilagare delle bande dell’ISIS, non ha rinunciato in nessun modo alle sue alleanze tradizionali e tuttora richiede con insistenza la fine del regime di Assad in piena sintonia con gli alleati del Golfo persico e con il Regno Unito. E’ singolare che sabato 14 novembre, nonostante quanto accaduto neanche un giorno prima nella capitale francese, a Vienna si sia tenuta un’ulteriore conferenza diplomatica sulla crisi siriana, ribadendo in tale sede la necessità di organizzare colloqui di pace tra il governo di Damasco ed i ribelli moderati sotto gli auspici dell’Onu, non riuscendo tuttavia a trovare la quadra sul destino del presidente Assad. La posizione anglo-francese in tal senso si è chiarita ulteriormente negli ultimi mesi a seguito di un percorso di mediazione diplomatica verso la controparte russo-iraniana, ovvero si consentirebbe ad Assad di rimanere in un governo di transizione per un tempo prestabilito, tuttavia questi, alla fine di questo processo, dovrebbe rassegnare le sue dimissioni e farsi da parte, pur concedendo il fatto che nessuno abbia la benché minima intenzione di smantellare lo stato siriano e di distruggere l’amministrazione baathista proprio per evitare quei fenomeni di ingovernabilità che hanno caratterizzato tragicamente l’Iraq all’indomani della defenestrazione di Saddam Hussein. In tale direzione vanno lette le parole del presidente Hollande a Versailles quando ha dichiarato che il vero nemico della Francia in Siria è l’ISIS, ovvero nel senso che comunque gli apparati del regime siriano saranno necessari per non far sprofondare il Paese nel caos nel momento in cui Assad e la sua cerchia più intima dovessero lasciare il potere. Il premier britannico Cameron ha altresì continuato a chiedere che la Russia focalizzi i suoi attacchi nei confronti dell’ISIS, in particolare nella speranza che quanto accaduto all’aereo civile russo sul Sinai convinca Mosca ad indirizzare il proprio sforzo bellico in Siria esclusivamente contro lo “Stato Islamico” e non contro i ribelli moderati. Dal canto suo il tentativo di Hollande di creare una coalizione internazionale il più possibile inclusiva non ha avuto il successo sperato. Da un lato gli Stati Uniti del presidente Obama non intendono incrementare eccessivamente le proprie forze in campo rispetto a quelle utilizzate attualmente. E’ in tal senso chiaro come l’intervento americano nella regione sia visto dal presidente Obama come uno sforzo di natura “standard”, “quel tanto” per tenere a bada la situazione e garantire una propria influenza determinante ma niente di più. Parimenti l’offerta unilaterale del Cremlino di coordinamento con le forze aeronavali francesi impegnate in Siria unita a tutta una serie di “blandizie” promosse dal governo russo per cercare di far cadere la Francia nella propria trappola devono aver raffreddato le intenzioni originarie di Hollande, il quale, pur auspicando un coordinamento fra i due Paesi ed uno scambio di informazioni, ha ribadito, in contrasto con Putin e non fidandosi, in generale, della Russia, che Assad non debba rimanere presidente della Siria. D’altro canto l’intento manipolatorio dei Russi era apparso vieppiù evidente quando il governo di Damasco, dopo aver pubblicamente attribuito, attraverso la voce di Assad, le cause dell’attentato terroristico di Parigi alle “scellerate” politiche “transalpine” in Medioriente a sostegno dei “terroristi”, aveva affermato che i raid aerei francesi nel Paese fossero illegali ma che chiunque si fosse coordinato con i Russi nelle azioni militari contro l’ISIS si sarebbe coordinato automaticamente con Damasco. Purtroppo, allo stato attuale, il problema insito in qualunque ipotesi di alleanza con Mosca risiede nel fatto che un’accettazione di una collaborazione con la parte russa implicherebbe la contestuale ed imprescindibile adesione alla visione strategica del Cremlino, ovvero una cessione di “sovranità internazionale” alle mere politiche di potenza promosse dalla Federazione Russa e dai suoi alleati in Medioriente. Qui risiede forse il punto focale di una tragedia, quella siriana, che non riesce a pervenire ad una sua conclusione positiva a causa di taluni egoismi internazionali che tutto sommato possono talvolta trarre pieno vantaggio dalla crudele politica barbarica dell’ISIS (o di chi ne fa uso) focalizzata attorno al motto del “tanto peggio tanto meglio”. E’ altrettanto significativo il fatto che dopo gli attentati di Parigi, nel momento in cui è sembrato che la posizione politica russa potesse prevalere sullo scenario internazionale, il Cremlino abbia fatto un incredibile “dietro front” rispetto all’attribuzione delle cause della tragedia aerea sul Sinai, indicando, contrariamente a quanto si era pervicacemente sostenuto in precedenza, che sicuramente una bomba fosse stata all’origine dell’esplosione dell’areo russo in volo verso San Pietroburgo. La mossa di Mosca è stata indubbiamente dettata dall’esigenza di costruire rapidi canali di dialogo con le potenze occidentali in difficoltà al fine di condurle all’interno di un percorso favorevole ai desiderata russi. In definitiva appare in tal senso chiaro che l’ISIS non possa diventare il “cavallo di Troia” della politica estera promossa dal Cremlino, la quale celerebbe, dietro al progetto moscovita di una coalizione internazionale “anti-ISIS” paragonabile a quella formatasi nel corso del secondo conflitto mondiale per combattere la Germania di Hitler, il mero desiderio di porre un termine alla supremazia occidentale nel Medioriente ed in altri scenari internazionali.

Dopo gli attentati di Parigi

La proposta francese di costituire una coalizione mondiale “anti-ISIS” che però conservasse intatti al suo interno gli obiettivi geopolitici di Parigi sulla Siria – obiettivi posti in pieno contrasto con quelli di Mosca e Teheran – è ovviamente caduta sostanzialmente nel vuoto. Parimenti la richiesta di Hollande ai partner europei di sostituire parzialmente i militari francesi in missione all’estero per permettere alla Francia di concentrarsi alla lotta al terrorismo in Patria è stata raccolta, in buona misura, solo dalla Germania e dal Regno Unito. Il governo Cameron, compreso che fosse giunto il momento dell’azione, ha infine deliberato, una volta colti i sentimenti favorevoli del Parlamento, di tornare alla Camera dei Comuni per chiedere l’autorizzazione, peraltro non necessaria da un punto di vista legale, per estendere i raid della RAF alla Siria. L’evolversi della situazione sullo scenario internazionale non consentiva più al Regno Unito di non svolgere bombardamenti in territorio siriano dato che, dopo l’intervento russo, per essere legittimamente presenti al tavolo delle trattative, occorre necessariamente operare in modo attivo con forze militari in Siria. In secondo luogo bombardare l’ISIS costituisce un vantaggio per i ribelli siriani moderati sostenuti da Londra, in quanto questi si trovano schiacciati da un lato dalle truppe del sedicente “Califfato” e dall’altro dalle forze del regime di Assad. Lo stesso Cameron, in sede di dibattito parlamentare, ha citato circa 70000 truppe ribelli che potrebbero essere pronte ad occupare i territori liberati dall’ISIS e a costituire la spina dorsale di un futuro governo di unità nazionale dove Assad non dovrebbe avere alcun ruolo nel lungo termine. Il governo britannico considera la brutalità del regime di Assad come una delle cause principali che hanno portato al sorprendente successo dell’ISIS e all’adesione di migliaia di combattenti tra le sue fila ed è parimenti consapevole che sia ISIS che Assad collaborino in talune circostanze, come nella vendita e nell’acquisto di prodotti petroliferi, commercializzati dall’ISIS stesso e venduti al governo di Damasco, nonché nello smercio di grano e cotone. Da questo punto di vista Assad non costituirebbe il “minore fra due mali” come sosterrebbero alcuni e non risiederebbe nella scelta tra l’ISIS ed Assad il futuro politico della Siria. Sia Assad (e gli alleati che lo sostengono) che l’ISIS sarebbero infatti responsabili del disastro umanitario che ha costretto centinaia di migliaia di persone a bussare alle porte dell’Europa in qualità di profughi. Al contrario, sempre secondo Cameron, sono i ribelli siriani moderati assieme a tutte le componenti etniche e religiose della Siria che devono riprendere in mano le sorti di un Paese che non sia più ostaggio della “dinastia regnante” degli Assad ma proiettato verso un futuro dove una pluralità di attori politici possa avere la possibilità di influire sul destino della Siria del domani. Fondamentalmente i Britannici, che non intendono utilizzare proprie truppe sul terreno con l’eccezione delle forze speciali, ritengono che i ribelli siriani moderati siano in grado di combattere sia contro l’ISIS che contro Assad (ed alleati russi….) e che una volta che i bombardamenti abbiano indebolito l’ISIS le truppe ribelli sostenute dall’Occidente costituiranno la vera forza risolutiva del conflitto, trovandosi esse stesse in una posizione di relativo vantaggio rispetto al regime. Parallelamente il governo di Londra intenderebbe porre un termine al regime di Assad attraverso una concertata azione diplomatica da svolgersi assieme agli alleati. Se una tale tattica possa funzionare o meno al momento non è dato saperlo, ad ogni modo il dossier nel quale veniva delineata la strategia del governo di Londra per la Siria ha convinto non solo alcuni dei deputati conservatori più critici verso Cameron (sarebbe in tal senso interessante sapere se sono state sufficienti le stragi di Parigi per far mutare opinione così rapidamente a questi soggetti politici) ma anche i numerosi parlamentari laburisti in piena rotta di collisione con il loro leader Jeremy Corbyn il quale, nonostante la propria vicinanza politica ed ideale ai gruppi “pacifisti” dell’estrema sinistra inglese, ha dovuto lasciare libertà di coscienza sul voto sulla Siria per evitare una rivolta interna nel partito laburista ed una eventuale scissione. La stessa Francia ha compiuto pressioni sui parlamentari laburisti affinché votassero l’estensione dei raid aerei in Siria e rispondessero positivamente alla chiamata alle armi del presidente Hollande contro l’ISIS e a favore di un’azione energica tesa al raggiungimento di una stabilizzazione del quadro politico in Medioriente. Cameron, contrariamente a quanto accaduto nel corso della mal gestita votazione parlamentare del 2013, ha così ottenuto la maggioranza utile a garantirsi l’appoggio politico necessario per lanciare i bombardamenti della RAF in Siria in coordinazione con i partner internazionali della “coalizione anti-ISIS”. Tale fatto testimonia chiaramente come la richiesta di aiuto pervenuta dalla Francia, con la quale il Regno Unito condivide una più profonda ed ampia visione strategica rispetto a quella proposta negli ultimi anni dagli Stati Uniti, sia stata ritenuta meritevole della più ampia considerazione a confronto di similari lacunose ed inconcludenti richieste giunte da parte della Casa Bianca in merito alla partecipazione della Gran Bretagna ad una “coalizione anti-ISIS” (dalla quale il Canada intenderebbe sganciarsi) che effettua meno bombardamenti di quanti ne siano mai stati pianificati in situazioni analoghe precedentemente occorse (in media sette bombardamenti al giorno in Siria contro i 1100 dell’operazione “Desert Storm” o i 138 della guerra in Kosovo) e che certamente squalifica, tramite la sua parziale inerzia, buona parte della campagna condotta contro l’ISIS dall’Occidente stesso.

La Russia ed il “bastone e la carota”

La maggiore disponibilità occidentale a focalizzarsi primariamente sul problema del terrorismo islamico ha permesso alla Russia di alzare nuovamente la “voce”, cambiando un’altra volta posizione e chiudendo nuovamente la porta alle dimissioni del presidente Assad. Il tentativo russo di far passare in sede Onu una risoluzione che andasse in questa direzione è stato comunque respinto mentre la risoluzione francese richiedente una mobilitazione internazionale contro l’ISIS ha avuto pieno successo anche se nei fatti non ha risolto i nodi più spinosi inerenti la questione siriana. Contestualmente mentre i Russi tornavano ad intorbidire le acque, riavviando, fra le altre cose, le esportazioni di tecnologia nucleare in Iran e conducendo truppe corazzate in Siria, l’Occidente concordava di estendere le sanzioni contro la Russia fino a luglio 2016 e l’Arabia Saudita convocava le opposizioni siriane per cercare di unificare le varie posizioni in essere in vista sia dei prossimi appuntamenti diplomatici che della crescente offensiva russo-iraniana nella regione. D’altra parte l’aggressiva ed arrogante politica di stampo sovietico volta a saggiare, attraverso il passaggio ravvicinato di aerei e navi militari russi presso i confini dello spazio aereo-navale di numerosi partner della Nato, la capacità di reazione dei Paesi interessati da tali “test” tesi alla provocazione di una reazione dell’avversario nonché la pretesa moscovita di considerare lo spazio aereo siriano quasi fosse un proprio terreno di caccia privato non potevano che produrre, presto o tardi, un qualche genere di incidente da qualche parte nel globo. In particolare la vicina Turchia, già ai ferri corti con la Russia a causa delle bombe che Mosca continua a lanciare contro i propri “clienti” in Siria (la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’attacco russo contro i ribelli turkmeni “anti-Assad” sostenuti da Ankara la quale accusa la Russia di “pulizia etnica”) , ha colto l’occasione derivata dallo sconfinamento di un aereo russo in territorio turco per dare una lezione alle manie di grandezza del presidente russo, abbattendo un velivolo dell’aeronautica di Mosca. Naturalmente la Russia ha risposto all’affronto turco con toni assai veementi, iniziando una lungo scambio di accuse tra la Federazione russa e la Turchia inerente quale dei due Paesi faccia affari o meno con il “Califfato” di Al-Baghdadi e spingendo addirittura i Russi a formulare accuse contro la famiglia del presidente turco Erdogan in merito ad un suo diretto coinvolgimento nel traffico di petrolio organizzato dall’ISIS verso il confine turco. Alle accuse di Mosca sono successivamente seguite le sanzioni economiche del Cremlino contro Ankara ed il congelamento generale delle relazioni politico-economiche fra i due Paesi. In questo frangente esplosivo gli Stati Uniti non sono rimasti a guardare e hanno cercato di difendere l’alleato turco sia dalle minacce che dalle accuse provenienti dalla Russia. Parimenti Washington, con alcuni mesi di ritardo rispetto l’Europa, ha prodotto tutta una serie di sanzioni contro persone ed aziende di nazionalità russa e siriana che aiuterebbero il regime di Assad e che gestirebbero il traffico di petrolio prodotto dall’ISIS ed acquistato dal governo di Damasco. Parimenti, tuttavia, gli Usa hanno invitato la Turchia alla calma in quanto gli Americani comunque ritengono importante giungere ad un accomodamento con Mosca, fatto che Ankara non deve gradire eccessivamente dato che la Turchia ha continuato a rispondere in maniera molto incisiva alle continue provocazioni provenienti dal Cremlino, temendo piuttosto eventuali “grandi intese” tra Stati Uniti e Russia poste ai danni degli interessi turchi nella regione. Ciò che in realtà occorrerebbe considerare per comprendere quanto stia accadendo a cavallo fra Turchia e Siria è che nel corso degli anni ’90 l’allora dittatore dell’Iraq Saddam Hussein evitò parzialmente le conseguenze delle sanzioni dell’Onu contrabbandando petrolio attraverso il confine turco. Oggi giorno una parte importante della dirigenza dell’ISIS è rappresentata da ex esponenti del regime Baath iracheno, pertanto è possibile che questi stessi abbiano riaperto alcuni canali di contrabbando in Turchia sui quali le autorità turche potrebbero aver chiuso un occhio con il fine di non stravolgere il precario equilibrio delle forze presente nella Siria dilaniata dalla guerra civile. Infatti è noto che se da un lato il regime di Assad e l’ISIS siano ufficialmente nemici, dall’altro è risaputo che collaborino non solo economicamente ma anche strategicamente, entrambi attaccando, col fine di ottenere un reciproco beneficio, le fazioni dell’opposizione sostenute dai Paesi Arabi, dall’Occidente e dalla Turchia stessa e, contemporaneamente, desistendo sovente dall’attaccarsi vicendevolmente. L’ISIS, allo stesso tempo, da un lato pertanto minaccia i ribelli siriani però dall’altro tiene a bada il regime medesimo, indirettamente agevolando in tal modo i ribelli moderati. Di converso l’ISIS costituisce un pericolo “finale” per il regime ma nel contempo rappresenta un agente mortale per i ribelli moderati. In tal senso sia la Turchia che il regime siriano, spalleggiato da Russia ed Iran, hanno utilizzato l’ISIS per conservare determinati equilibri sul campo di battaglia con la consapevolezza che chiudere il confine turco-siriano al contrabbando avrebbe danneggiato tale precario sistema di pesi e contrappesi.

Conclusione

Nel 1939 l’allora URSS, già avvezza alle purghe staliniane, non si scompose nel firmare con la Germania di Hitler il famigerato patto Molotov-Ribbentrop, sostanzialmente con il fine di riguadagnare parte dell’influenza perduta sull’Europa orientale a seguito del disastroso esito della prima guerra mondiale. E’ noto quale sia stato il risultato di una tale politica. Oggi Putin ha stretto un accordo informale con Iran ed Assad, coltivando l’intenzione di riportare in auge, vista la totale inettitudine obamiana sullo scenario internazionale, le antiche glorie della politica di potenza zarista e sovietica in Medioriente, utilizzando, in ultima istanza, quale “casus belli”, la lotta all’ISIS. Le recenti risoluzioni Onu tese ad isolare l’ISIS dal circuito finanziario internazionale e ad indicare un percorso a tappe che porti ad una ricomposizione finale della crisi siriana rappresentano un nuovo tentativo della Comunità Internazionale, promosso da Stati Uniti e Russia, di porre un termine ad anni di lotte fratricide e di crescente instabilità regionale. Tuttavia tali azioni diplomatiche hanno finora evitato di rispondere alla domanda centrale della questione, ovvero il destino del presidente Assad (il quale, tanto per stemperare i toni, ha dichiarato che i raid francesi e britannici in Siria sono illegali) e la conseguente configurazione post-bellica della Siria. I colloqui di pace che in gennaio dovrebbero tenersi a Ginevra tra l’opposizione siriana moderata coordinata dall’Arabia Saudita ed alleati ed il governo di Damasco, patrocinato da Russi ed Iraniani, partono già in salita dal momento che non c’è accordo sul destino politico ed elettorale del dittatore siriano. Allo stesso modo l’azione diplomatica svolta dagli Stati Uniti dimostra ancora una volta un’ eccessiva apertura nei confronti della Russia che non tiene in debito conto delle aspirazioni geopolitiche degli attori occidentali e mediorientali storicamente posti in alleanza con Washington. Dato che l’annuncio di nuovo modesto manipolo di forze speciali promosso dagli Usa, costituito al fine di compiere raid contro l’ISIS sia in Iraq che in Siria, non rappresenterà certamente l’avanguardia di una determinante forza americana sul terreno, è evidente che al di là di quelli che sono stati gli accordi diplomatici in sede Onu tra Washington e Mosca, in realtà saranno le maggiori forze sul campo ed i loro alleati più “veraci” a decidere se i colloqui di pace avranno successo o meno. Da questo punto di vista l’azione degli Stati Uniti tesa fondamentalmente a riconoscere un ruolo alla Russia (così come desiderato dal presidente Putin) se da un lato rischia di produrre dei risultati controproducenti per la stabilità dell’area, dall’altro sta conferendo al Cremlino una funzione di dubbia utilità per il campo occidentale ma di indubbio beneficio per il Cremlino stesso. Da parte loro gli alleati della Stati Uniti da un lato cercheranno di evitare di esporre mediaticamente il proprio Paese per non tramutarsi, nel limite del possibile, in un bersaglio diretto del terrorismo, nelle sue più diverse accezioni, dall’altro però continueranno a muovere le proprie pedine in considerazione del fatto che ciò che è stato finora promosso dagli Usa non garantisce il raggiungimento dei propri obiettivi geopolitici. La Russia, da parte sua, ha promesso di aumentare lo sforzo militare in Siria (nonostante le numerosissime vittime civili causate dal proprio intervento nel Paese), tuttavia ciò che non appare chiaro è per quanto tempo le non floridissime finanze moscovite permetteranno a Putin un così ampio impegno internazionale. In tal senso non è errato supporre che la Russia voglia giocare una partita di medio-periodo all’interno della quale utilizzare la questione siriana per chiudere dignitosamente la vicenda ucraina non appena se ne presenti l’opportunità. Il recente scetticismo iraniano sulle prossime trattative di pace potrebbe nascere anche dal fatto che la Russia si starebbe mostrando troppo ambigua sul destino di Assad anche se, come già detto, Mosca e Teheran potrebbero semplicemente inscenare una sorta di gioco delle parti. E’ in tal senso indicativo che la Russia abbia criticato la presenza di taluni gruppi ribelli riuniti dall’Arabia Saudita a Riyad con lo scopo di creare un fronte ribelle unitario da inviare al tavolo delle trattative con Assad, tentando in tal modo di minare la legittimità dell’azione saudita e la qualità della rappresentatività della delegazione dell’opposizione siriana. La Russia ufficialmente sostiene che Assad impersoni il governo legittimo della Siria e che solo il popolo siriano debba decidere se questi possa o meno rimanere al potere (per quanto Mosca sia parallelamente ben lieta di chiudere tutti e due gli occhi di fronte ad elezioni palesemente truccate). L’Iran, da parte sua, sostiene, in ultima istanza, che non ci debba essere alcuna transizione e che continuerà a supportare il regime, nonostante alcuni voci vorrebbero che parti consistenti delle forze iraniane, accorse in Siria per supportare Damasco, si siano ritirate a fronte delle alte perdite subite in battaglia. Da parte loro Regno Unito, Francia e Paesi Arabi continuano a sostenere che Assad, dopo un eventuale governo di transizione, debba lasciare il potere anche se c’è chi tra il fronte arabo e quello dei ribelli moderati continua a pretendere le dimissioni immediate del dittatore siriano. Gli Stati Uniti supportano a parole le istanze dei propri alleati, tuttavia, come noto, a Washington poco importa se alla fine i garanti della stabilità del Medioriente saranno differenti rispetto quelli attuali purché riservino agli Stati Uniti una “voce in capitolo” paragonabile a quella attuale. Indubbiamente rimane da comprendere come gli Usa possano realmente credere che sia Russi che Iraniani possano avere in mente un siffatto esito dell’attuale conflitto mediorientale. Parimenti in Libia, dopo le numerose pressioni internazionali esercitate per opera di Europa e Stati Uniti a fronte del pericolo del dilagare nel Paese di fazioni legate all’ISIS nonché della marea umana rappresentata dal fenomeno dell’immigrazione clandestina (fatto che ha spinto l’Occidente a premere allo stesso tempo sull’acceleratore della diplomazia sul caso siriano), potrebbero esserci le condizioni per la creazione di un governo di unità nazionale. Gli Stati Uniti in particolare starebbero promuovendo una propria azione diplomatica affinché l’Italia si metta a capo di una missione di pace nel paese libico, fatto che se da un lato già poteva raccogliere il plauso degli altri Paesi europei per quanto riguarda l’impegno militare ed organizzativo, dall’altro viene visto con sospetto dato che ci si domanda chi trarrà i più importanti benefici economici da questa operazione di “polizia internazionale”. I Britannici, i quali hanno condotto una parte importante delle trattative per il nuovo governo libico, hanno da lungo tempo stretto contatti con i potentati locali per ottenere il loro appoggio quando giungerà il momento di firmare i nuovi contratti petroliferi. Parimenti la vicinanza italiana nei confronti della Russia di Putin viene da molti vista con sospetto. Dato che si prevede che Francesi, Britannici, Americani ed Italiani dovrebbero, presto o tardi, costituire una forza aerea per aiutare le truppe del nuovo governo libico a schiacciare le milizie che hanno espresso la propria adesione all’ISIS in Libia, si auspicherebbe che nessuno (leggasi Roma in primis) chieda l’intervento russo nella regione in considerazione del fatto che già una delle ragioni dell’intervento anglo-francese sulla Libia del 2011 risiedeva nella necessità di evitare un’infiltrazione russa nel Paese. Allo stesso modo la disponibilità italiana a guidare una coalizione internazionale in Libia sarà indubbiamente condizionata da un lato dalla concreta consistenza sul terreno dell’accordo per la costituzione di un governo di unità nazionale e dall’altro dalla proficuità dell’intero piano di pace internazionale come il caso della diga irachena e della relativa commessa affidata ad una ditta italiana insegna. Avendo ben compreso quale sia la situazione attuale, l’Arabia Saudita non è rimasta con le mani in mano e dopo la soddisfacente coalizione “anti-Houthi” promossa sullo scacchiere yemenita ha plasmato una nuova coalizione “anti-ISIS”, naturalmente criticata dalla Russia, composta potenzialmente da trentaquattro stati sunniti che, al di là dei proponimenti ufficiali, è palesemente orientata a controbilanciare l’intervento russo-iraniano nella regione, coalizione a cui dovrebbe dare il proprio supporto logistico e di comando il Regno Unito, il quale, fra le altre cose, è interessato a rendere meno evanescenti i 70000 combattenti siriani citati da Cameron ed aspramente contestati, nella loro effettiva consistenza, a vari livelli nel corso del dibattito politico inglese. La Turchia a sua volta avrebbe posizionato proprie truppe nei pressi di Mosul in accordo con i Curdi iracheni, fatto che ha scatenato le ire del governo di Baghdad a maggioranza sciita e che ha causato un parziale ritiro del contingente stesso, su richiesta americana, verso località ignota. Certamente le ultime mosse moscovite destano ulteriore preoccupazione dato che sono orientate sia alla disinformazione che alla prevaricazione. In particolare il Cremlino avrebbe sostenuto poche settimane fa di aver aperto una improbabile collaborazione con l’Esercito Libero Siriano (FSA) per poi smentire successivamente la notizia. Parimenti Mosca, in piena competizione con gli Usa in tema di alleati regionali, ambirebbe a portare dalla propria parte i Curdi plasmando un’alleanza fra questi ed Assad, per quanto i Curdi stessi abbiano già raggiunto il limite del proprio territorio storico e difficilmente intendano spingersi troppo lontano dalla propria area di influenza nella lotta contro l’ISIS, sia che questi si alleino con i Russi o che proseguano, come sembra decisamente più plausibile, la propria collaborazione con gli Americani. La recente uccisione del leader di Jaysh al-Islam, una fra le più importanti fazioni ribelli in Siria sostenuta dall’Arabia Saudita, per opera russa o del regime di Damasco indubbiamente vuole fornire un segnale al fronte “anti-Assad”, intendendo suggerire, tramite omicidi mirati, quali gruppi dell’opposizione siriana siano graditi o meno a Mosca e a Teheran in sede di negoziato, nonostante Jaysh al-Islam abbia contribuito a combattere l’ISIS stesso. Ciò ovviamente non aiuta i tentativi di pace in corso così come non li aiutano il trasferimento concordato dal regime (e dall’Onu!) di miliziani dell’ISIS bloccati nel campo profughi di Yarmouk verso le regioni settentrionali della Siria sotto il controllo dello “Stato Islamico” dove l’ISIS già combatte contro i ribelli moderati “anti-Assad”. I prossimi mesi probabilmente saranno decisivi per iniziare ad intravedere il possibile esito del lungo conflitto siriano, uno scontro che sta conoscendo una possibile ulteriore estensione nel martoriato Afghanistan. Secondo le ultime notizie Russi e Talebani starebbero creando un coordinamento contro l’ISIS nel Paese (nel quale i Russi starebbero già da tempo tornando ad affacciarsi) ma, contestualmente, truppe della coalizione internazionale in Afghanistan starebbero nuovamente ingaggiando i Talebani in combattimenti essendo questi ultimi nuovamente passati all’azione contro le forze di sicurezza afghane. Nonostante ciò, lo stesso ISIS in Siria ed Iraq inizierebbe già da qualche tempo ad accusare i sintomi derivati da un’eccessiva estensione territoriale che metterebbe in seria difficoltà la propria capacità di controllo del territorio. A fronte di una contestuale perdita di iniziativa che costituiva uno dei punti di forza del cosiddetto “Stato Islamico”, lo stallo derivante sta lentamente logorando le truppe del sedicente “Califfato” le quali a poco a poco potrebbero essere costrette a ritirarsi in maniera assai consistente di fronte alle forze ancora piuttosto “raccogliticce” del tormentato stato iracheno, supportate dagli indispensabili bombardamenti aerei della coalizione internazionale “anti-ISIS” e dagli Iraniani. In particolare la città di Ramadi, una volta debellate le ultime sacche di resistenza, sarebbe prossima alla capitolazione totale per opera delle forze armate irachene e dei raid occidentali. Tuttavia in questa occasione l’assedio posto contro le truppe dell’ISIS non avrebbe visto la partecipazione delle milizie sciite (tale scelta avrebbe causato l’estrema lentezza delle operazioni militari in corso anche se non tutti concordano in merito alla completa assenza di truppe di fede sciita), ben presenti altrove nel Paese, al fine di evitare di trasformare lo scontro in corso, posto in seno ad un territorio (la provincia di Anbar) prevalentemente sunnita, in una mera lotta settaria come tragicamente accaduto ai danni della popolazione civile dopo la presa di Tikrit. Ci troviamo, in definitiva, di fronte ad uno scenario la cui estensione e i cui intrecci internazionali rischiano di produrre esiti a dir poco imprevedibili e preoccupanti per la stabilità mondiale, in particolare nel momento in cui l’ISIS dovesse effettivamente iniziare seriamente a perdere terreno e i vari attori internazionali in gioco fossero contestualmente pronti ad accalcarsi per riempire i vuoti lasciati dal sedicente “Califfato” sul terreno con lo scopo di sostenere “manu militari” la propria visione globale geostrategica del Medioriente.

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