Il 5 gennaio 2021 l’emiro del Qatar e il principe ereditario saudita, insieme ai dirigenti dei Paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), hanno firmato un accordo che pone fine a tre anni e mezzo di blocco politico ed economico verso Doha. Il Qatar emerge come vero vincitore nello scontro perché non ha accettato nessuna delle condizioni che i sauditi e i loro alleati volevano imporre. Gli oscuri disegni di Mohammed bin Salman.

 La varie delegazioni  del CCG si sono incontrate nella città di Al-Ula, nel deserto saudita, per firmare una accordo che rafforzi l’unità e la cooperazione dei Paesi del Golfo e segni il “ritorno alla normalità”. L’incontro è stato reso possibile dal paziente lavoro di mediazione del Kuwait e dell’Oman, gli unici due Stati dell’area che non avevano aderito all’embargo. Ovviamente, anche gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo importante ma parlare di un contributo di Jared Kushner, consigliere e genero di Trump, è ridicolo, visto che proprio Trump ebbe le stesse responsabilità dei sauditi nello scatenare l’offensiva anti Qatar. I due fattori che hanno spinto Mohammed bin Salman, il governante de facto dell’Arabia Saudita, a porre fine allo scontro sono il perdurare della crisi economica che continua a deprimere il prezzo del petrolio ma, soprattutto, il fatto che il suo protettore Trump è stato ingloriosamente scacciato dalla Casa Bianca.

Mohammed bin Salman (a destra nella foto) ha ricevuto “calorosamente” all’aeroporto di Al–Ula l’emiro del Qatar che, per tre anni e mezzo, ha cercato di eliminare in tutti i modi.

L’accordo prevede la riapertura delle frontiere terrestri e dello spazio aereo, la collaborazione economica e commerciale e negoziati per la ripresa delle relazioni diplomatiche. Il compromesso raggiunto non pregiudicherà le relazioni con Turchia e Iran di Doha, il cui ministro degli Esteri ha annunciato in un’intervista al Financial Times che, a parte alcune concessioni per risolvere la disputa, i qatarioti non hanno nessuna intenzione di rinunciare alla loro politica estera indipendente.

Nel giugno del 2017, sulla base di pretestuose accuse di “appoggio al terrorismo”, (vedi articolo su Frontiere.eu del 15 giugno 2017) Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Yemen, Egitto e Maldive annunciarono di aver rotto i rapporti diplomatici con il Qatar, vietarono il sorvolo del loro spazio aereo, imposero un durissimo embargo economico e i sauditi chiusero l’unico confine terrestre dell’emirato. Lo scopo era quello di mettere a tacere una volta per tutte la politica indipendente di un vicino scomodo, che aveva un grande seguito all’interno del mondo musulmano, grazie alla capillare penetrazione della rete televisiva Al Jazeera. Convinto di avere l’appoggio totale di Trump, Mohammed bin Salman intendeva non solo mettere in ginocchio l’economia qatariota ma aveva anche programmato l’invasione terrestre dell’emirato.

L’attrazione fatale bin Salman-Netanyahu

Non appena queste informazioni giunsero alle orecchie del segretario alla Difesa James Mattis e del segretario di Stato Rex Tillerson, che aveva lavorato a lungo nel settore petrolifero e aveva solide amicizie in Qatar, i piani vennero bloccati e a bin Salman non rimase altro che cercare di strangolare Doha a livello economico. La strategia si è rivelata costosissima e fallimentare (come pure la guerra in Yemen, anch’essa uscita dal cervello fino del principe saudita), perché Turchia e Iran sono intervenuti in appoggio del Qatar, gli hanno aperto i propri spazi aerei e collaborato nel commercio estero. I turchi hanno anche inviato centinaia di soldati per dissuadere chiunque dal tentare la carta dell’invasione. Nel giro di un paio di anni, Trump si è sbarazzato di entrambi i suoi ministri ma è apparso chiaro che la politica avventuristica dell’erede al trono saudita incontrava forti resistenze all’interno delle strutture governative statunitensi. In un certo qual modo, bin Salman ha sovrastimato l’influenza di Trump e non ha calcolato adeguatamente il potere dei militari americani.

Con l’arrivo di Biden alla presidenza, lo spregiudicato principe saudita si trova

Il 22 novembre 2020, volando con un jet privato, il capo del Mossad Yossi Cohen (nella foto) ha accompagnato il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, affiancato dal generale Avi Bluth e dal Consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben Shabat, nella città di Neom, sulle rive saudite del Mar rosso, per incontrare “segretamente” il principe ereditario Mohammed bin Salman.

con le spalle ancora più scoperte e ha dovuto chiudere al più presto il contenzioso con il Qatar, che ospita la più importante base americana in Medio Oriente, e cercare di presentarsi alla nuova amministrazione con qualche carta da giocare. Forte di questo clima di pacificazione, con Al Jazeera momentaneamente neutrale nei suoi confronti, Bin Salman potrebbe puntare a due obiettivi: annunciare il proprio riconoscimento di Israele e cercare di convincere suo padre, l’ottantacinquenne re Salman, a passargli la corona. Dato il carattere scalpitante del giovanotto, non è da escludere che punti a entrambi gli obiettivi. Un suo solido alleato è il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, con cui il principe ha intrecciato da tempo rapporti clandestini, riuscendo a ufficializzare scambi di intelligence e cooperazione “anti terroristica”, con l’obiettivo di colpire il comune nemico Iran. Un puntello importante di questa strategia, iniziata con la mediazione proprio di Netanyahu, era lo strettissimo rapporto personale con il quasi coetaneo Jared Kushner, che non è stato soltanto il consigliere di Trump per la politica mediorientale, ma ha anche sposato sua figlia Ivanka.

Purtroppo per i sauditi, Trump è fuori dai giochi di potere e anche la posizione di Netanyahu, nonostante il successo diplomatico degli “Accordi di Abramo”, potrebbe essere messa in discussione nelle elezioni israeliane del 23 marzo 2021. Far digerire il riconoscimento di Israele alla popolazione saudita non è poi un’operazione affatto semplice perché Riad è, da sempre, il centro di un’interpretazione fondamentalista dell’islamismo. Va inoltre sottolineato che furono proprio i sauditi nel 2002 a farsi promotori di una iniziativa di pace che subordinava il riconoscimento dello Stato ebraico alla nascita di uno Stato palestinese autosufficiente. Importanti esponenti della famiglia reale hanno ripetutamente preso posizione contro un eventuale riconoscimento di Israele e lo stesso re Salman, sostenuto in questo dell’ex capo dell’intelligence, il principe Turki bin Faysal, ha dichiarato di essere contrario perché una tale decisione avrebbe un effetto sconvolgente sui sauditi. La strada è per ora in salita per l’ambizioso principe saudita.

Le tensioni non risolte con gli Emirati Arabi Uniti

Non dobbiamo poi trascurare il ruolo che Mohammed bin Zayed, il principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti, ha avuto nell’embrargo. La ragione profonda che ha messo Abud Dhabi e il Qatar uno contro l’altro è la diversa filosofia con la quale gli stati arabi debbano rispondere alle cosiddette “Primavere arabe del 2011”. Mentre il Qatar si è fatto difensore di un relativo pluralismo socio-politico, come strumento per stabilizzare la regione, gli Emirati hanno costantemente perseguito una politica autoritaria, fornendo un appoggio, economico e militare, a dittatori come al-Sisi in Egitto, Bashar al-Assad in Siria o al ras libico Khalifa Haftar. Formalmente, la rottura all’interno dei Paesi del Golfo è stata ricomposta, ma è chiaro che gli Emirati intendono perseguire una strategia indipendente da quella seguita dall’Arabia Saudita

Negli ultimi anni, gli Emirati si sono distinti per un frenetico attivismo economico, che punta molto sulla speculazione immobiliare e quindi risente in modo diretto della congiuntura internazionale, ma anche su ambiziose operazioni militari all’estero, in Libia e Yemen. Proprio in Yemen, Abu Dhabi ha sviluppato una propria strategia, sostenendo una milizia che ha preso il controllo del Sud del Paese, lasciando i sauditi ad affrontare da soli i ribelli Houthi nel Nord. Inoltre, il 12 giugno 2020, nel pieno delle trattative che avrebbero poi portato al riconoscimento di Israele da parte degli Emirati e del Bahrain, l’ambasciatore emiratino a Washington, Yousef Al Otaiba, ha pubblicato un articolo in ebraico sul diffuso quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth in cui candida gli Emirati al ruolo di principale alleato di Israele nell’area.

Gli Emirati Arabi Uniti vogliono accreditarsi come il principale alleato di Israele in Medio Oriente. Per questa ragione l’ambasciatore a Washington Yousef Al Otaiba (nella foto) ha pubblicato un articolo in ebraico sul giornale israeliano Yedioth Ahronoth.

Non era mai successo prima che un diplomatico del Golfo si rivolgesse direttamente ai lettori israeliani dichiarando che un’annessione a Israele dei territori occupati rappresenterebbe un colpo alla sicurezza dello Stato ebraico ma aggiungendo: “Con le due maggiori potenze militari, preoccupazioni comuni sul terrorismo e le aggressioni, e con una lunga e profonda relazione con gli Stati Uniti, gli Emirati Arabi Uniti e Israele potrebbero dar vita a una cooperazione sulla sicurezza più efficace.  Essendo le due economie più avanzate e diversificate nella regione, un allargamento degli affari e dei legami finanziari potrebbe accelerare la crescita e la stabilità in tutto il Medio Oriente”. Come si vede, anche gli Emirati -che secondo il quotidiano francese Le Monde stanno collaborando con Israele per cacciare da Gaza e dai territori occupati l’UNWRA, l’ente dell’ONU che si occupa di rifugiati palestinesi- vogliono giocare la loro partita con la nuova amministrazione statunitense, sperando che il presidente Biden abbia intenzione di formulare una strategia per la regione dopo il passaggio dirompente del ciclone Trump.

 di Galliano Maria Speri

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