di Domenico Maceri

In una riunione con un gruppo di legislatori repubblicani e democratici a mnetà gennaio Donald Trump aveva detto che avrebbe firmato qualunque disegno di legge che i presenti gli avessero mandato perché aveva “completa fiducia nel gruppo”. Pochi giorni dopo ha invitato i Senatori Richard Durbin, democratico dell’Illinois e Lindsey Graham, repubblicano della South Carolina, per discutere il loro piano sull’immigrazione.
Informazioni preliminari erano emerse e Trump, poco contento, ha deciso di ampliare il gruppetto includendo anche due senatori repubblicani, Tom Cotton dell’Arkansas e David Perdue della Georgia, ambedue falchi sul tema dell’immigrazione.
Trump aveva già deciso che non avrebbe accettato il piano di Durbin e Graham perché si allontanava dall’aspra retorica espressa in campagna elettorale. Nella discussione il Presidente ha evidentemente perso le staffe sbottando che non capiva perché si vuole includere la protezione a migliaia di immigrati provenienti da Haiti, El Salvador e alcuni Paesi africani. Trump ha definito questi luoghi come “s…hole countries” (Paesi di m….da) e ha chiesto perché non si accettano invece più immigrati “dalla Norvegia”.
Subito dopo l’incontro si è scatenata la bufera sulle parole dell’inquilino alla Casa Bianca. Durbin ha rivelato le parole offensive del Presidente che non sono state smentite da Graham. Anche il senatore Jeff Flake, repubblicano dell’Arizona, in un’intervista televisiva ha confermato l’uso delle parole offensive, avendone parlato con individui presenti all’incontro. Cotton e Perdue invece hanno detto di non avere sentito le parole offensive. In alcune interviste televisive hanno persino accusato Durbin di avere mentito. Il Washington Post però ha intervistato persone a conoscenza del caso e ha riportato che a mentire sono stati Cotton e Perdue. I due senatori non hanno tecnicamente mentito dato che il termine sentito da loro era “s..t house” (casa di m…da) invece di “s..t hole” (buco di m…da). Sarah Huckabee Sanders, portavoce di Trump alla Casa Bianca, non ha confermato né smentito l’uso delle parole offensive ma ha chiarito che la discussione era stata molto accesa.

Tutto sommato, la stampa ha creduto che Trump ha detto le parole offensive citate dal New York Times in diversi articoli, peraltro escludendo le parolacce dai titoli. La Cnn invece ha incluso le parole volgari del Presidente anche nei titoli e uno dei conduttori, Don Lemon, ha detto chiaramente che “Donald Trump è razzista”.
Trump ha manifestato comportamenti e asserzioni tendenzialmente razzisti durante tutta la sua carriera di imprenditore e di politico. Si ricordano i problemi avuti con il governo per essersi rifiutato di affittare appartamenti a afro-americani negli anni ’70 e ’80. In campagna elettorale ha detto che i messicani sono “stupratori”, ha posto il bando ai musulmani, ha sostenuto che il giudice Francisco Curiel non potesse giudicare la causa sulla Trump University per via delle sue origini messicane (falso: è americano), ha dichiarato che gli haitiani hanno tutti l’Aids, e ha classificato alcuni dei suprematisti nella dimostrazione di Charlottesville come “brava gente”.
Trump dunque ha una lunga storia dalle tinte razziste. Le parole usate alla Casa Bianca contro gli immigrati però offendono non solo quelli dei Paesi citati ma tutti gli immigrati in America. In effetti, Trump ha detto che se gli immigrati vengono da Paesi poveri non sono benvenuti, il che escluderebbe la stragrande maggioranza degli antenati degli americani. Escluderebbe persino la propria madre, Mary Trump, nata in una zona molto povera della Scozia. Trump non riconosce dunque che storicamente gli immigrati in America vengono da questi Paesi poveri. Gli immigrati dall’Europa, Asia, Africa, ecc. sono inclusi nei Paesi etichettati con le parole offensive. Gli immigrati di Paesi ricchi sono rari. L’America è un Paese di immigrati, la stragrande maggioranza provenienti da Paesi poveri in cerca di opportunità.
Con ogni probabilità Trump non ha capito il peso delle sue parole. Succede però che è possibile offendere anche senza l’intenzione di farlo. Trump avrebbe potuto chiedere scusa ma la parola scusa non fa parte del suo vocabolario.
Ma anche se Trump non ha capito che le sue parole includevano la stragrande maggioranza degli americani, le sue parole avranno ferito i 65 mila nati all’estero che servono ai suoi ordini nelle Forze armate americane. Di questi, il 43 percento sono nati in Africa, America Latina e Caraibi: i Paesi inclusi nella sua frase offensiva.
L’establishment repubblicano è rimasto silenzioso sulle parole riprovevoli di Trump. Paul Ryan, speaker della Camera, che durante la campagna elettorale aveva reagito con forza dichiarando le accuse di Trump a Curiel come “esempio classico di razzismo”, questa volta si è limitato a dire che le parole erano “infelici e di poco aiuto”.
Le parole offensive di Trump sugli immigrati riflettono un linguaggio senza filtro che faranno piacere alla base dei suoi fedelissimi elettori. Non aiutano affatto a risolvete la precaria situazione di 16 mila “dreamers”, giovani portati illegalmente dai genitori negli Usa, a rischio di essere deportati. Non aiutano nemmeno a risolvere la situazione degli altri 800 mila “dreamers” il cui visto temporaneo scade nel mese di marzo 2018. Non aiutano nemmeno la popolarità di Trump che continua a languire ai minimi storici.

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