La piazza, da sempre, è per eccellenza luogo di apertura. Fisico, ma anche simbolico. Lo “spazio aperto” – e centrale – di un qualsiasi ambiente abitato, tanto in pianura quanto in montagna, tanto in un paese quanto in una grande città, si pone a fronte degli “spazi chiusi” delle abitazioni private, delle strade dei vicoli, delle mura e diviene luogo dell’incontro e del dialogo – o del dissenso, in ogni caso il luogo ove si manifesta la città, in quanto espressione di civiltà. Il tema è affrontato in profondità da Giampiero Castellotti nel libro Piazze in piazza, pubblicato da SPedizioni editore di Roma. Lo presentiamo ripubblicando, dopo questi cenni riassuntivi, ampi stralci dell’introduzione firmata da Giuseppe De Rita.

La piazza incarna l’estensione pubblica delle individualità. È ritrovo, è relazionalità, è convegno, è superamento delle barriere, è multiculturalità, è mediazione. E se questi elementi strettamente connessi al territorio oggi vengono sempre più sviliti dall’arredo urbano, che trasforma la piazza in rotatoria per il traffico, in punto di snodo per il trasporto pubblico, in area di parcheggio, in capolinea di pullman o autobus, o ancora in spazio per installare pannelli pubblicitari, nel contempo in questo luogo è riposta la speranza di una innovativa socialità per il futuro, fatta di nuova integrazione, di minori conflitti, di meno muri e più aperture. Non a caso le risposte collettive al terrorismo, ad esempio in Francia, avvengono in piazza, con il supporto di bandiere di tutte le nazioni e di scritte in tutte le lingue. Mentre le primavere arabe, pur con il sostegno della comunicazione via web, hanno dimostrato che la piazza garantisce linfa e amplificazione alle idee di speranza.

Da sempre questo “spazio vuoto” è stato riempito stratificando memorie di poteri e di contropoteri, di religiosità e di laicità, dando vita non solo alla democrazia – nell’agorà greca – o al diritto romano – nel foro – ma al concetto di “pluralismo delle idee”. Restano evidenti ed emblematici gli arredi fisici – come i monumenti ai caduti delle guerre o le statue dei personaggi che esprimono l’identità del luogo – ma anche simbolici, come la chiesa con il suo potere temporale o il palazzo del Comune.

Le piazze, dunque, spazi pubblici per eccellenza, estensioni collettive delle identità di ogni etnia, costituiscono bacini di umanità con analoga funzione ad ogni latitudine. Qui si continuano a svolgere i mercati, oggi sempre più cosmopoliti, incarnando non solo l’economia di prossimità ma anche la conoscenza e lo scambio culturale. Qui hanno luogo gli eventi più vicini alla società civile. Qui si svolgono le feste dei popoli e delle comunità di cittadini stranieri ormai presenti in ogni capitale europea e mondiale.

L’autore, Giampiero Castellotti, è iscritto all’Ordine dei giornalisti dal 1983. Giornalista professionista, ha iniziato a scrivere per il quotidiano “Paese sera” all’inizio degli anni Ottanta, per poi diventare caposervizio di una casa editrice scolastica. È stato consulente di numerose organizzazioni come Confindustria, Formez, Retecamere e numerosi Enti locali. Ha una formazione sociologica.

Dalla Prefazione di Giuseppe De Rita:

La piazza, quel raccoglitore di tensioni e di domande di relazionalità

(…) La piazza è lo spazio che storicamente ha garantito l’espressione del nostro sentire collettivo: nelle relazioni personali, nella gestione del potere, nell’impegno politico, nelle emozioni di massa, nella rivolta delle sacche di marginalità. Fa bene Castellotti a cantare, con non tacita nostalgia, l’epica potenza della piazza. Perché è nella piazza che si è fatta gran parte della storia dei popoli, dalla civiltà greca alle primavere arabe degli scorsi anni. Ma specialmente perché l’Italia è un Paese che si riconosce nelle proprie piazze, sia per i moti popolari che le percorrono ed occupano come per la volontà di regolare le istituzioni facendo riferimento alla loro eleganza architettonica. E giustamente l’autore, citando Bobbio, ricorda che lo stesso nostro linguaggio è ricco di riferimenti alla piazza (mettere in piazza, scendere in piazza, movimenti di piazza, fare piazza pulita, contrapporre la piazza) quasi a certificare che la nostra storia è fatta di una dialettica fra potere e contropotere giuocata sui territori urbani.

In questa consapevolezza assumono ruolo centrale, e non solo nell’indice, due capitoli del volume: quello che Castellotti dedica alle piazze italiane dal 1848 ad oggi; e quello dedicato alle piazze odierne.

In effetti la carrellata storica permette al lettore di rimettere nella memoria collettiva i processi sociali e i poteri politici (da quelli patriottici a quelli sindacali, da quelli di protesta e rivolta a quelli di modernizzazione) che “hanno fatto l’Italia” anche attraverso il ricorso alle manifestazioni di massa. E permette al tempo stesso di sottolineare come in tutti gli eventi riferiti a tali processi e poteri la piazza non c’è stato solo un momento di amplificazione di istanze e tensioni, ma addirittura un momento di elaborazione di una cultura collettiva capace di capire e controllare quel che avveniva nello spontaneismo primordiale delle prime “uscite per la strada” (tanto per fare l’esempio più noto quel che chiamiamo “il ‘68” non è più andato in piazza, dopo la prima esperienza iniziale e le polemiche pasoliniane). In pratica, se mi è permesso avanzare l’ipotesi, la piazza non aizza, ma raccoglie le tensioni e le redistribuisce sui singoli soggetti (…).

Sembra a me che Castellotti (magari contro le sue nostalgie) conduca il lettore a prendere atto che la piazza non è solo politica o di uso politicista, ma ha una dimensione quotidiana legata alla relazionalità delle persone. Questo aspetto traspare nelle righe del testo quando si fa riferimento alla distinzione tra luoghi e non luoghi e si indica esplicitamente il senso della relazionalità come uno dei criteri spartiacque tra le due diverse tipologie. La dimensione politica così profondamente scandagliata nel testo, in realtà rinvia alla natura delle relazioni tra le persone nelle varie fasi. Non è la piazza che fa le relazioni, ma viceversa è la natura delle relazioni a fare la piazza; la stessa dimensione politica della piazza dipende da queste relazioni e dal loro senso e contenuto e non viceversa. C’è una quotidianità della piazza che presiede ai tanti usi della stessa, inclusa quella politica.

Basterà allora ricordare che, se per un lungo periodo la piazza fu il terminale dalla relazionalità nell’Italia industriale e quindi anche dell’azione politica di massa (dal Pci di Togliatti alla Coldiretti di Bonomi) alla fine essa fu svuotata progressivamente, man mano che si affermò l’Italia del soggettivismo dispiegato e del fai da te, in ogni realtà socioeconomica. E così oggi che il ciclo del soggettivismo ha il fiatone, torna una domanda di relazionalità che si esprime anche nelle tante nuove piazze, da quelle degli outlet riutilizzati da giovani della periferia e dagli anziani a quelle virtuali dei social network. Così anche la politica ritrova nuove piazze, incluse quelle virtuali come espressione della nuova domanda di relazionalità.

Il valore del libro di Castellotti, a mio avviso, sta nell’utilizzare la piazza e l’evoluzione storica della sua funzione, soprattutto politica, come pretesto per una riflessione più ampia. Fuori dalle torsioni ideologiste sulla fine della “piazza bella piazza” e l’attuale desertificazione delle piazze, in realtà nella parte finale del testo emergono segnali della rinnovata vitalità delle relazioni, e quindi delle nuove piazze dove esse possono precipitare. Come scrivevo prima, sono le relazioni a fare le piazze e non viceversa. E non è quindi nella funzione politica della piazza che emergono novità, ma nel ruolo che essa ricomincia a svolgere rispetto alla domanda di relazionalità; in fondo, anche la moltiplicazione degli eventi e delle iniziative sui territori (dalle sagre alle fiere agli eventi tipo Salone del Mobile e Fuorisalone) diventa un modo di rifare piazza, perché è il modo di vivere una convivialità pubblica che è la vera radice della comunità, dalla sua dimensione solidale a quella politica.

In questa luce si può costatare che il libro tocca anche un’altra corda più ancora di attualità, ai nostri tempi di leadership personalizzate e di riforme dall’alto: si capisce, dalla lettura che il tornare nelle piazze sembra oggi più che un’esortazione, una necessità, vista la complessità della nostra società. Una complessità che chiede di riandare alla sorgente della politica, agli interessi e agli umori delle persone ed ai luoghi concreti in cui essi si formano e si esprimono.

Giuseppe De Rita

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