Nel marzo-aprile 2003 l’esercito anglo-americano sconfigge facilmente quello iracheno e occupa Baghdad, ma appare subito chiaro che Washington non ha piani adeguati per gestire la pace. Incompetenza e approssimazione portano alla dissoluzione dell’esercito e del sistema che aveva retto il Paese. Inizia una guerra civile tra sciiti e sunniti, mentre le migliaia di ufficiali e soldati gettati sul lastrico costituiranno poi la spina dorsale dell’Isis, i cui attentati insanguineranno anche le città europee.

Sulla carta, la Seconda guerra del Golfo fu una specie di guerra lampo perché, in poco più di due settimane, le truppe di Stati Uniti e Gran Bretagna raggiungono Baghdad, capitolata il 9 aprile 2003. Ma da quel momento in poi, inizia una seconda fase in cui le forze di occupazione si scontrano, con sempre maggiore violenza, con gruppi di insorgenti che raccolgono un crescente sostegno tra la popolazione. Emerge molto presto una tragica verità: le armi di distruzione di massa, che avevano costituito il casus belli per scatenare l’invasione, non esistono. Ma il fatto più drammatico è che quegli stessi intellettuali neocon che avevano elaborato la teoria del “secolo americano”, che avrebbe dovuto imporre al mondo intero la democrazia a stelle e strisce, non hanno la minima idea di come si ricostruisce e si fa funzionare uno stato. Alla luce di quanto avverrà dopo, sorge il dubbio atroce che non avessero nemmeno informazioni adeguate sulla storia e sulla natura della società irachena.

L’Iraq non è uno stato qualsiasi, perché è al centro della mezzaluna fertile che, circa 10.000 anni fa, vide la nascita dell’agricoltura e anche uno dei primi esempi di alfabeto. In questa stessa area sorsero le prime città, che sono alla base di quella che chiamiamo civiltà. L’Iraq moderno nasce dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano seguita alla Prima guerra mondiale e, come molti altri stati dell’area, i suoi cittadini si dividono in diverse appartenenze religiose ed etniche. Il 70 per cento della popolazione è arabo, il 25 per cento è curdo, e sono presenti numerose minoranze come i turcomanni, gli yazidi, gli armeni. Il 98 per cento della popolazione è musulmano, diviso tra la maggioranza sciita e la minoranza sunnita, a cui si aggiungono piccoli gruppi di cristiani e di altre religioni minoritarie. Ma le strutture dirigenziali dello stato e dell’esercito sono occupate da sunniti. Saddam Hussein era sunnita e governava il Paese con ferocia e determinazione, creando un forte risentimento tra gli sciiti. A giudicare dal modo in cui ha operato, queste informazioni elementari, reperibili su qualunque manuale scolastico, non erano in possesso dell’amministrazione provvisoria americana.

Lo scioglimento dell’esercito getta il seme della rivolta

In un’intervista alla televisione francese, il generale David Petreus, che guidò le truppe americane in Iraq tra il 2007 e il 2008, per poi ricoprire varie cariche tra cui quella di direttore della CIA, ha affermato che dall’invasione del 2003 si possono trarre tre importanti lezioni: “La prima è che non bisogna invadere un Paese, a meno che non si conoscano la storia, la cultura, le componenti etniche, tribali e confessionali. Il secondo insegnamento è che non si deve operare con una squadra improvvisata, come abbiamo fatto noi in Iraq e, in terzo luogo, non bisogna fare una politica che crea più ‘cattivi ragazzi’ di quanti ne toglie dalla strada. Il rischio è che un esercito di liberazione venga poi percepito come un esercito di occupazione”. Tutti questi princìpi sono stati tranquillamente ignorati perché la persona inviata a guidare la struttura che governerà l’Iraq, in attesa della nascita di un governo iracheno, è un diplomatico di carriera, Paul Bremer, esperto di terrorismo ma che non è mai stato in Iraq e non parla una parola d’arabo.

Paul Bremer ha gestito in modo incompetente la transizione verso un governo a guida irachena. Ma i suoi errori più gravi vanno imputati a Bush, al vicepresidente Cheney e al segretario alla Difesa Rumsfeld.

Bremer arriva a Baghdad in 12 maggio 2003 e inizia a operare sotto la supervisione diretta del segretario alla Difesa Rumsfeld, che gli ha fornito una tabella di marcia per la transizione che consiste di ben quattro pagine (sic) e con indicazioni totalmente generiche. Il diplomatico americano, che in precedenza non si è distinto particolarmente, si trova a detenere quello che nelle parole di un giornalista del New York Times, è “il più potente incarico all’estero ricoperto da qualsiasi statunitense dopo il generale Douglas MacArthur in Giappone”. Ed evidentemente Bremer deve possedere un grande concetto di sé visto che, non solo si paragona a MacArthur, ma anche a Lucius Clay (per intenderci è il generale americano che gestì la ricostruzione della Germania dopo il 1945). Bremer può operare per decreto e la sua prima decisione prevede la messa al bando di tutti i membri del partito Baath, un partito laico al potere anche nella confinante Siria, che era stato lo strumento con cui Saddam controllava capillarmente il Paese.

Il comitato iracheno per le operazioni di epurazione viene affidato alla direzione di Ahmed Chalabi, un personaggio ambiguo che era stato oppositore di Saddam Hussein, ed era poi fuggito negli Stati Uniti dove svolge un ruolo importante nell’accreditare l’esistenza di armi di distruzione di massa nelle mani del dittatore. Il comitato da lui presieduto, formato principalmente da sciiti, diventa ben presto uno strumento per la vendetta contro i sunniti, e contribuisce ulteriormente ad accendere gli animi. Migliaia di insegnanti, funzionari, poliziotti, principalmente sunniti, tutti in possesso della tessera del partito Baath, senza la quale non si poteva accedere alle funzioni statali, vengono licenziati.

Il secondo decreto, quello più nefasto, prevede lo smantellamento delle forze armate irachene per colpire così quei militari che avevano permesso a Saddam di compiere i suoi crimini contro curdi e sciiti. La decisione, avallata da Bush e dal segretario alla Difesa Rumsfeld, è incompetente perché colpisce quella che è la spina dorsale dell’Iraq che, va ricordato, è una dittatura militare. L’esercito non viene epurato dagli ufficiali che hanno collaborato direttamente col dittatore o da coloro che si sono macchiati di crimini di guerra. Non si fanno distinzioni tra i patrioti che pensavano di servire il proprio Paese e i torturatori. Con lo scopo di ricreare un nuovo esercito, senza nessuna relazione col vecchio regime, 400.000 ufficiali (soprattutto sunniti) e soldati vengono smobilitati e si trovano senza stipendio, senza pensione e senza mezzi per mantenere le proprie famiglie e questo genera un risentimento dapprima sordo ma che poi diventa protesta che esplode nelle strade. Gli ex militari che iniziano a protestare non sono operai o braccianti infuriati per aver perso il lavoro. Sono soldati con una lunga esperienza, alcuni sono membri delle truppe speciali, esperti di armi, esplosivi e tecniche di sabotaggio e, in pochi anni, per odio contro gli americani, daranno un contributo determinante per armare e addestrare quelli che diventeranno i militanti dell’Isis.

Inizia la guerra civile

Dopo il crollo del regime, in tutte le città del Paese erano scoppiati disordini e saccheggi, soprattutto di uffici pubblici e governativi e molti sciiti approfittano della situazione per vendicarsi dei soprusi subiti da parte dei sunniti durante la dittatura, ma è anche un’ottima occasione per la criminalità comune. Mantenere l’ordine diventa un compito sempre più arduo perché, insieme ai normali cittadini, infuriati per aver perso tutti i servizi, cominciano a operare piccoli gruppi di sunniti, soprattutto ex militari, che compiono attacchi a sorpresa contro quelle che vengono viste come truppe di occupazione. In breve, i militari americani e quelli britannici che operano a sud nella città di Bassora, si trovano di fronte una guerriglia, in un contesto di vera e propria guerra civile ma che l’amministrazione Bush definisce ipocritamente “violenza settaria”. Al 1 maggio 2003, giorno in cui un Bush raggiante atterra sulla portaerei Abraham Lincoln per proclamare che la “missione è compiuta, il tiranno è caduto e l’Iraq è libero”, gli americani hanno perso 150 uomini. Al tempo delle elezioni del 4 novembre 2004 i morti sono diventati già mille e supereranno i tremila all’inizio del 2007. Nel 2011, al momento della partenza ufficiale delle truppe americane, il bilancio delle vittime è arrivato a 4.419.

Nel sud del Paese, dove operano i britannici e sono concentrati gli sciiti, cominciano a rientrare gli ayatollah che erano fuggiti all’estero, e possono riprendere i pellegrinaggi alle città sante sciite di Najaf e Karbala, vietati durante la dittatura. Iniziano le ricerche di amici e parenti scomparsi e si scoprono anche numerose fosse comuni con centinaia di cadaveri, vittime dei tanti pogrom contro gli oppositori e le minoranze che si erano susseguiti negli anni. Gli scontri tra milizie sciite e sunnite creano una situazione instabile e caotica che rende sempre più problematico il lavoro per rimettere in piedi le infrastrutture e tornare alla vita normale. L’esempio più eclatante a questo riguardo è la nascita dell’Esercito del Mahdi, guidato dal religioso sciita Muqtada al-Sadr, il cui nome si richiama a quello dei seguaci di Muhammad Ahmad che, nel 1881, si proclamò mahdi, cioè redentore dell’islam, e riuscì a sconfiggere le truppe anglo-egiziane che occupavano il Sudan. Nell’estate del 2003 la milizia di al-Sadr diviene un fattore notevole di destabilizzazione per i suoi ripetuti scontri con le milizie sunnite e con le forze regolari irachene e americane. Nel 2008, dopo aver dato un grande contributo ad arroventare la situazione, al-Sadr ha informalmente sciolto la sua milizia.

1 maggio 2003. Il presidente Bush si congratula con i marina della portaerei Abraham Lincoln per la “missione compiuta”. In realtà l’Iraq era diventato una polveriera che avrebbe destabilizzato tutta l’area mediorientale.

Questo clima acceso di violenza è l’ideale per i terroristi di al-Qaida, che cominciano ad arrivare in Iraq a centinaia e creano proprie basi operative, visto che il loro nemico mortale Saddam Hussein era stato eliminato dagli americani durante la loro “guerra globale al terrorismo”. Qaidisti fanatici, come il giordano Abu Musab Al Zarqawi, ucciso poi in un attacco aereo americano nel 2006, hanno campo libero per reclutare gli elementi più radicali dell’esercito, già addestrati e armati e quindi in grado di diventare subito operativi. Una parte degli ex militari iracheni rifiuta però di allearsi con i terroristi stranieri e difende la linea di una “resistenza irachena”, non asservita ai disegni di forze esterne. In questa situazione magmatica, i terroristi di al-Qaida iniziano la loro offensiva, che prende di mira sia i civili che i militari, con autobombe che fanno centinaia di vittime e aumentano la rabbia della popolazione contro gli Stati Uniti. Il 19 agosto del 2003, un camion-bomba posizionato di fronte al quartier generale dell’ONU a Baghdad fa 22 morti, incluso il capo delegazione Sergio Vieira de Mello, e più di cento feriti. Entro dicembre, i terroristi di al-Qaida saranno responsabili di una decina di attentati, mentre i ribelli sunniti compiono 120 attacchi contro le truppe americane. Il 2 novembre un elicottero CH-47 Chinook viene abbattuto a Falluja, 60 chilometri da Baghdad, causando la morte di 16 soldati americani, mentre 20 rimangono feriti.

L’amministrazione provvisoria: brutale, incompetente e inefficace

Questi risultati disastrosi dimostrano quanto fosse fallace e illusoria la propaganda, ripresa da tutti i media mondiali, secondo la quale gli iracheni avrebbero festeggiato i soldati anglo-americani come liberatori. Purtroppo, non sono fiori quelli che vengono gettati contro le truppe e, ancora una volta, si vede la distanza abissale che separa i grandi proclami con cui i neocon hanno ammantato la loro politica, temeraria e incompetente, per arrivare a una pace garantita dalla forza militare. Il quadro reale è quello di una nazione distrutta, impoverita, drammaticamente divisa e sul punto di esplodere. Dopo averlo appoggiato e difeso, l’amministrazione lascia Paul Bremer al suo destino, dandogli la colpa di tutti i fallimenti. Il problema vero è che l’invasione fu decisa senza una chiara strategia per la ricostruzione. Secondo Kanan Makiya, un accademico iracheno-americano, l’amministrazione aveva due linee riguardanti l’Iraq. Il segretario alla Difesa Rumsfeld (ma forse sarebbe più giusto chiamarlo ministro della Guerra, secondo la vecchia definizione ottocentesca), il teorico e realizzatore dell’invasione, dopo il successo militare voleva far rientrare le truppe per evitare i problemi legati all’occupazione, mentre il segretario di Stato Powell, tirato obtorto collo nell’avventura, si rendeva perfettamente conto che gli Stati Uniti avevano la responsabilità di amministrare l’Iraq distrutto dal conflitto e quindi, con la necessità di una politica su tempi più lunghi. Non venne trovata una mediazione e il risultato fu il disastro.

Poiché la linea ufficiale è che grazie all’intervento americano la democrazia ha trionfato, le operazioni per il passaggio delle consegne agli iracheni vengono accelerate, senza tenere in nessun conto la realtà locale, le divisioni tribali, né le qualità dirigenziali dei personaggi selezionati per governare. Dopo vari tentativi, si assembla un governo provvisorio formato da 25 membri, sciiti in schiacciante maggioranza, che ha il compito di reggere il Paese in attesa di elezioni regolari. Il 28 giugno 2004, con due giorni di anticipo rispetto alla data ufficiale per prevenire dimostrazioni o attentati, Bremer passa le consegne ad Ayad Allawi, un politico sciita che era vissuto all’estero per trent’anni. Il governo è diviso al proprio interno, deve far fronte ai dissidi tra le varie fazioni e non sa come affrontare il gravissimo problema della corruzione e delle rivalità confessionali. La gestione della sicurezza e della lotta al terrorismo rimane nelle mani dell’esercito e della CIA che usano il pugno di ferro contro gli oppositori ma che, molto spesso, coinvolgono cittadini non legati alla ribellione. Nell’aprile del 2004 scoppia lo scandalo del carcere di Abu Graib, a 32 chilometri da Baghdad, in cui centinaia di prigionieri vengono torturati, umiliati, violentati e anche uccisi da carcerieri che si sentono onnipotenti e al di sopra della legge. Le immagini, diffuse inizialmente dalla rete televisiva americana CBS, fanno il giro del mondo e colpiscono per la feroce brutalità usata contro persone inermi.

La terribile prigione di Abu Graib, dove la dittatura aveva commesso feroci crimini, venne poi riutilizzata anche dagli americani per perpetrare abusi intollerabili e ingiustificabili in ogni nazione civile.

Il difficile rapporto tra le forze di occupazione e la popolazione è poi incrinato dalla decisione dell’amministrazione Bush di affidare le operazioni di scorta e protezione a una impresa di sicurezza privata, la Blackwater (oggi ridenominata Academi), che impiega mercenari, di solito ex membri delle truppe speciali americane, che applicano metodi brutali e, in nome della lotta al terrorismo, sparano con grande facilità, facendo decine di vittime innocenti tra la popolazione. L’evento più tragico si verificherà a piazza Nisour a Baghdad, il 16 settembre 2007, quando un gruppo di mercenari della Blackwater, che scortavano un convoglio dell’ambasciata USA, apre il fuoco contro civili iracheni uccidendone 17 e ferendone 20. I quattro condannati per il massacro hanno ricevuto il perdono presidenziale da Donald Trump nel dicembre del 2020. Due giorni prima di rientrare negli USA, Bremer aveva firmato l’Ordine 17 che garantiva a chiunque fosse associato con l’Amministrazione provvisoria l’immunità dalla legge irachena.

C’è poi un altro scandalo, che ha veramente dell’incredibile, e testimonia l’incompetenza criminale e l’enorme superficialità con cui l’Amministrazione provvisoria operò a Baghdad. Il 30 gennaio 2005, Stuart Bowen, Ispettore speciale per la ricostruzione dell’Iraq, presenta al Congresso un rapporto secondo il quale circa 9 miliardi di dollari per la ricostruzione del Paese potrebbero essere scomparsi a causa di frodi, corruzione e altri comportamenti scorretti. Gli USA inviarono circa 12 miliardi di dollari per finanziare la ricostruzione, rendere operativi i ministeri, pagare i mercenari che si occupavano della sicurezza e via dicendo. In pratica, mancano i giustificativi per 8,8 miliardi di dollari che non si sa dove siano finiti. Il rapporto parla di “gravissime inefficienze e gestione carente” che non forniscono “garanzie adeguate che i soldi siano stati usati correttamente”. Un memorandum, presentato alla Commissione del Congresso che si occupa dell’argomento sotto la presidenza del deputato Henry Waxman, riporta fatti incredibili. Per inviare i soldi gli Stati Uniti si servirono di aerei C-130 che venivano caricati di tonnellate di banconote (12 miliardi pesano 363 tonnellate) in biglietti da 100 dollari e facevano uno o due viaggi al mese. Il carico maggiore, di 2.401.600.000 dollari, fu consegnato il 22 giugno 2004, sei giorni prima del passaggio dei poteri. La distribuzione veniva fatta prelevando i contanti dal retro di furgoni pickup e i soldi non allocati venivano conservati in grandi sacche dei ministeri, senza nessuna particolare misura di controllo.

Le implicazioni strategiche del fallimento iracheno

Prima di analizzare l’impatto globale dell’invasione dell’Iraq, dobbiamo  riflettere sull’enorme costo umano pagato dagli iracheni. I dati sono molto discordanti ma, secondo molte valutazioni, superano abbondantemente il mezzo milione di vittime. La prestigiosa rivista medica britannica Lancet pubblicò un primo studio nell’ottobre del 2004, secondo il quale la guerra aveva causato direttamente 98.000 morti. Una seconda indagine, completata nel giugno del 2006 e pubblicata quattro mesi dopo, determinava che a causa della guerra erano morte 650.000 persone, tra civili e combattenti. Un’altra indagine, curata dal ministero della Salute iracheno, confermava l’ordine di grandezza, mentre uno studio della Johns Hopkins University e dell’università di Washington (per il periodo 2003-2011) valuta le vittime in 461.000, il 60 per cento morti direttamente a causa della violenza, mentre il resto è deceduto per la distruzione del sistema sanitario e dei trasporti.

Tutti gli analisti concordano sul fatto che l’invasione del 2003 è stata un fallimento totale perché basato su una doppia menzogna: le armi di distruzione di massa, giustificazione dell’attacco anglo-americano, non esistevano e, ancora più grave, l’Iraq di oggi, quasi vent’anni dopo il conflitto, non solo non è un Paese democratico ma è profondamente destabilizzato e diviso e subisce una crescente influenza dell’Iran degli ayatollah. Oltre all’incapacità dell’amministrazione Bush, un ruolo nefasto nella distruzione delle forze armate è stato giocato anche da Nouri al-Maliki, Primo ministro iracheno tra il 2006 e il 2014, che ha epurato tutti comandanti sunniti rimasti, militari di grandi esperienza, per sostituirli con ufficiali sciiti, meno competenti ma fedeli al premier. In questo modo quello che doveva essere un esercito nazionale è diventato una milizia settaria. Come abbiamo già visto, esiste una relazione causale tra lo smantellamento dell’esercito e la nascita dell’Isis e di questo non ha fatto mistero il presidente Obama il quale, in un discorso del 2015, ha affermato: “L’Isis deriva direttamente da al-Qaida in Iraq, nato come risposta alla nostra invasione, il che è un esempio di conseguenze non volute. Per questa ragione, prima di sparare dovremmo mirare con molta attenzione”. Ma già dal 2006, l’unità dei servizi segreti USA che si occupava delle tendenze del terrorismo globale, aveva raggiunto la conclusione che la guerra in Iraq “stava plasmando una nuova generazione di leader terroristi e di operativi sul campo”.

Abu Bakr al-Baghdadi, autoproclamatosi Califfo dello Stato islamico, nella foto segnaletica del 2004 nel campo di detenzione americano di Camp Bucca. La commissione che si occupava dei prigionieri ne raccomandò il “rilascio incondizionato”, riconoscendolo “un prigioniero di basso livello” (sic).

Nel 2010 Abu Bakr al-Baghdadi si proclama Califfo dello Stato Islamico e il mondo si rende veramente conto della sua pericolosità quando, il 9 giugno 2014, le sue milizie, grazie anche alla grande quantità di armi e mezzi americani che avevano prelevato dai depositi dell’esercito iracheno, riescono a occupare Mosul, la seconda città dell’Iraq, ma anche ampie zone della Siria. Il sanguinario regime di Bashar al-Assad, minacciato anche dalla ribellione del suo popolo, chiede aiuto a Russia e Iran che, usando metodi brutali, contribuiscono alla sconfitta dell’Isis che, poco a poco, perde tutte le sue roccaforti in  Siria e Iraq. La situazione attuale è la divisione della Siria in diverse aree di influenza, ma è chiaro che il vero dominus sul territorio è Putin, insieme a Tehran. Un bel risultato davvero per i teorici dell’esportazione della democrazia. Non si pensi però che questi sviluppi non ci tocchino veramente; in fondo noi europei viviamo a migliaia di chilometri, perché dovremmo preoccuparci? L’Isis ha usato la struttura e i mezzi del califfato per costruire reti di affiliati in diversi Paesi e ha alimentato un impressionante stillicidio di attentati che hanno colpito nel cuore dell’Europa. La lista è lunghissima per cui mi limito a riportare soltanto gli episodi più sanguinosi: il 31 ottobre 2015 una bomba viene collocata a bordo di un aereo civile russo che esplode sopra il Sinai, facendo 224 morti; il 13 novembre 2015 in una serie di attentati coordinati a Parigi vengono uccise 130 persone e 300 sono ferite; il 22 marzo 2016 due attacchi distinti a Bruxelles fanno 32 morti e 300 feriti; il 19 dicembre 2016 un camion kamikaze a Berlino uccide 11 persone e ne ferisce 56; il 22 maggio 2017 un terrorista si fa esplodere alla fine di un concerto a Manchester causando la morte di 23 persone e il ferimento di 250; il 17 agosto 2017, a Barcellona un furgone uccide 16 persone e ne ferisce 124; il 2 novembre 2020, a Vienna un attentato causa 4 morti e 23 feriti.

Oggi l’Isis non esiste più come entità territoriale, ma conserva ancora un’estesa rete terroristica che può contare inoltre su centinaia di cittadini europei, fanatici che hanno combattuto sotto le bandiere nere del fondamentalismo e che, prima o poi, riusciranno a rientrare nei Paesi d’origine. Questo fallimento epocale potrebbe forse insegnare qualcosa a tutti coloro, Israele in testa, che predicano drastiche azioni militari, se non una guerra vera e propria, contro l’Iran. La Prima guerra mondiale fu definita la “guerra che avrebbe posto fine a tutte le guerre” e poi abbiamo visto come sono andate le cose. Anche i trent’anni di guerra in Iraq non hanno avvicinato la democrazia di un millimetro e forse varrebbe la pena di ricercare vie alternative. Dal 5 all’8 marzo 2021, papa Francesco ha fatto un viaggio in Iraq per sostenere una delle più antiche comunità cristiane esistenti, purtroppo ridotta enormemente di numero proprio a causa della guerra. Il 6 marzo si è svolto un importante incontro con la massima autorità religiosa degli sciiti, l’anziano ayatollah Ali al-Sistani, una figura autorevole molto distante dal fanatismo dei religiosi iraniani, secondo il quale il clero sciita si dovrebbe adoperare per convivere pacificamente con gli iracheni cristiani. L’incontro è stato definito dalla diplomazia vaticana come “un primo passo di un processo” ma indica chiaramente che ci sono altre strade da esplorare per la democrazia e la pace in quell’area tormentata.

(fine della serie)

di Galliano Maria Speri

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