Il Primo ministro israeliano ha volutamente provocato lo scontro per creare il clima di emergenza di cui ha bisogno per rimanere al potere e limitare i suoi guai giudiziari. Hamas ha colto al volo l’occasione per presentarsi come unico difensore degli interessi palestinesi, emarginare definitivamente l’Organizzazione per la liberazione della Palestina ed estendere la propria influenza anche sulla Cisgiordania. Il controllo di Hamas sul movimento palestinese bloccherebbe sine die qualunque negoziato di pace con Israele. Ma Netanyahu potrebbe non incassare il premio per la sua cinica strategia perché stanno maturando le condizioni per un governo alternativo che gli chiuda le porte del potere.

 Da quasi vent’anni Benjamin Netanyahu, insieme alle varie coalizioni di estrema destra che ha sostenuto o capeggiato, si oppone in modo esplicito o più sfumato a ogni forma di trattativa che possa portare alla creazione di uno Stato autonomo palestinese. Mentre si continuava a parlare dei “due Stati”, il Primo ministro ha favorito costantemente una politica di colonizzazione dei territori occupati che ha notevolmente eroso le aree che dovrebbero essere attribuite ai palestinesi. I migliori alleati di questa strategia coloniale sono stati i movimenti estremistici palestinesi e soprattutto Hamas che, con le sue azioni e le dichiarazioni contro l’esistenza stessa dello Stato ebraico, hanno giustificato la sospensione di ogni dialogo. Ogniqualvolta veniva ventilata la ripresa dei colloqui, un qualche gruppo estremista faceva un attentato anti ebraico in modo che il processo veniva bloccato e la strategia della colonizzazione potesse proseguire indisturbata.

Con la guerra del 1967 Israele conquistò Gerusalemme est, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Nel 1980 la parte orientale di Gerusalemme, considerata dagli israeliani come loro capitale “unificata, eterna e indivisa”, è stata inglobata nello Stato ebraico, anche se la comunità internazionale non ha mai riconosciuto questa annessione. Il problema è che Gerusalemme est è abitata in prevalenza da arabi che aspirano a trasformarla nella capitale di un ipotetico Stato palestinese ma vedono costantemente coartati i propri diritti, mentre il governo israeliano continua a favorire insediamenti ebraici nell’area e a limitare invece ogni espansione palestinese.

La polizia israeliana è intervenuta in forze sulla Spianata delle moschee a Gerusalemme, uno dei luoghi più sacri dell’Islam, usando gas lacrimogeni e pallottole di gomma contro i palestinesi.

Le tensioni a Gerusalemme erano già molto elevate dopo che la polizia israeliana era intervenuta in forze sulla Spianata delle moschee, uno dei luoghi più santi dell’islam. La scintilla che ha fatto scattare gli scontri è stato il tentativo di sfratto di decine di famiglie arabe dal quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est. I coloni ebrei che vogliono subentrare sostengono che la terra dove sorgono le abitazioni occupate dagli arabi fu acquistata alla fine dell’800 da due associazioni ebraiche. Hamas, che controlla Gaza ma ha una presenza debole a Gerusalemme est, ha lanciato un ultimatum al governo israeliano minacciando ritorsioni se le violenze contro gli abitanti arabi non fossero cessate immediatamente. Netanyahu ha inasprito la repressione e questo ha scatenato il lancio di razzi da Gaza verso il territorio di Israele.

Perché ora?

Il 10 maggio 2021, in risposta al lancio di missili da parte di Hamas, l’aviazione israeliana ha iniziato una serie di massicci bombardamenti su Gaza per colpire “obiettivi terroristici” e operando in una delle zone a più alta densità abitativa del mondo. Oltre all’aviazione, l’esercito israeliano ha anche fatto ricorso a missili di precisione e a bombardamenti con obici e carri armati che hanno operato in prossimità della frontiera. Nonostante le centinaia di bombardamenti aerei, il lancio di missili verso Israele è continuato e ha fatto scattare gli allarmi non soltanto nelle città più vicine al confine ma anche nei centri abitati dell’interno. Dopo undici giorni di scontri, è stato raggiunto un cessate il fuoco con la mediazione dell’Egitto e si è potuto fare una prima, sommaria valutazione. I bombardamenti israeliani hanno fatto 248 vittime, inclusi 66 bambini, mentre i lanci di Hamas hanno ucciso 12 persone, sia perché sono poco precisi ma soprattutto grazie al sistema Iron Dome fornito dagli Stati Uniti che è stato in grado di individuare e abbattere la maggior parte dei missili partiti da Gaza. Oltre alle vittime, Gaza ha visto la distruzione di ospedali, infrastrutture civili, centrali elettriche, vie di trasporto, scuole e centinaia di abitazioni, creando molte migliaia di senzatetto. I danni subiti da Israele sono stati trascurabili.

Il lancio di razzi da Gaza e la massiccia reazione dell’aviazione israeliana hanno una cadenza

I bombardamenti israeliani hanno causato danni gravissimi alle abitazioni e alle infrastrutture di Gaza.

ciclica. Netanyahu ripete sempre che le operazioni militari israeliane andranno avanti fino allo sradicamento della “minaccia terroristica” ma, dopo qualche anno, si ripete la stessa cosa. L’ultimo scontro (è ipocrita chiamarlo guerra vista l’enorme disparità militare delle forze in campo) è avvenuto però in un momento molto delicato per la democrazia israeliana che, nonostante quattro votazioni nell’arco di due anni, non è riuscita ad esprimere una maggioranza solida in grado di guidare il Paese. Anche le elezioni del 23 maggio 2021 hanno indicato una forte frammentazione del panorama politico, con un buon successo del partito conservatore Likud ma che non gli consente la formazione di un nuovo governo.

Netanyahu, il più longevo politico israeliano di tutti i tempi, è al potere dal 2009 ma, per la prima volta, si trova davanti al rischio concreto di vedere prender forma una coalizione eterogenea che riesca a scalzarlo. A questo dobbiamo aggiungere anche un grave problema personale perché il processo per corruzione che lo riguarda è iniziato e l’attuale Primo ministro potrebbe essere costretto ad abbandonare la politica non dagli elettori ma da una sentenza di condanna. Alcuni osservatori hanno ingenuamente attribuito l’aumento delle tensioni a Gerusalemme alle mosse avventate di un funzionario inesperto che aveva chiuso agli arabi la Porta di Damasco un ritrovo molto popolare per i giovani. Questo aveva scatenato forti proteste, represse brutalmente dalla polizia ma creando quel clima di tensione che aveva consentito ad Hamas di lanciare un ultimatum che aveva poi portato all’inizio degli scontri con gli israeliani.

In realtà, l’obiettivo esplicito di Netanyahu è quello di trasformarsi in comandante in capo che deve gestire l’emergenza militare. Con le sirene che risuonano in molte città israeliane, e la popolazione che deve correre nei rifugi per proteggersi dai razzi, il Primo ministro non deve più preoccuparsi né dei giudici, né dei concorrenti politici. Giocando il ruolo dell’uomo forte, del combattente impavido che non indietreggia di fronte al pericolo, Netanyahu punta a rafforzarsi presso l’opinione pubblica e ottenere quel sostegno parlamentare che, finora, gli è mancato. I missili di Hamas, che agisce sempre con un tempismo perfetto per i disegni della destra israeliana, hanno fatto il miracolo di consolidare la strategia della lotta dura e pura contro il “terrorismo palestinese”.

La ribellione degli arabi israeliani

Giornalisti di diverse testate internazionali si aggirano sulle rovine della Al-Jalaa Tower, che ospitava le loro redazioni, dopo il bombardamento israeliano che il 15 maggio 2021 ha distrutto l’edificio.

La brutalità dei bombardamenti su Gaza, l’alto numero di vittime civili palestinesi e la massiccia distruzione di infrastrutture hanno suscitato la disapprovazione dell’opinione pubblica internazionale che non è più disposta ad accettare acriticamente la linea del governo israeliano. Inoltre, alcuni deputati democratici americani hanno richiesto con forza un immediato cessate il fuoco, in aperta polemica con la linea dura israeliana. Durante gli undici giorni di scontri, Hamas ha lanciato circa 4.000 razzi che hanno però avuto un impatto militare totalmente trascurabile, sia in termini di vittime che di danni. La risposta dell’aviazione militare è stata invece micidiale perché i modernissimi caccia di Israele colpiscono sempre i bersagli prefissati, senza che ci sia possibilità di difesa anti aerea o che i civili possano correre verso inesistenti rifugi.  Cosa c’entra il conclamato “diritto alla difesa” dello Stato ebraico con la distruzione di un palazzo di undici piani che ospitava diverse redazioni giornalistiche e radiotelevisive internazionali a Gaza? Come fa Netanyahu a scaricare la responsabilità delle morti dei civili su Hamas, accusata di usarli come scudi umani, in una zona che ha una densità di più di 5.000 abitanti per chilometro quadrato ed è molto arduo separare gli obiettivi civili da quelli militari?

Il primo risultato ottenuto da Netanyahu non è stata la tregua che ha posto fine ai lanci di razzi verso Israele, ma la trasformazione di Hamas nel vincitore morale dello scontro, l’unica organizzazione militante che ha dimostrato di sapersi opporre allo strapotere militare di Israele, a differenza dell’esangue Autorità nazionale palestinese che non è riuscita a formulare nessuna strategia di risposta. C’è stato però un secondo effetto che gli strateghi della destra israeliana non avevano messo in conto: la ribellione degli arabi con passaporto israeliano. Al momento della proclamazione dello Stato di Israele nel 1948, la maggior parte degli abitanti arabi della Palestina abbandonarono, a causa delle minacce o per loro decisione, le terre su cui erano vissuti per secoli. Ma un certo numero di arabi rimase e accettò obtorto collo lo status di cittadini di serie B in uno Stato confessionale che li guardava con sospetto unito al sussiego. Oggi è arabo il 20 per cento dei cittadini israeliani, inclusi molti medici, farmacisti, autisti di autobus, artigiani.

I cittadini israeliani di origine araba sono rimasti inorriditi dalla violenza sproporzionata usata contro Gaza, ma anche dalla brutalità a cui è ricorsa la polizia nel reprimere le proteste dei simpatizzanti della causa palestinese. E questo va a sommarsi alle razzie sempre più frequenti di estremisti fanatici della destra religiosa israeliana che, sotto la protezione o l’indifferenza della polizia, formano vere e proprie squadre di picchiatori che vanno in giro a brutalizzare tutti gli arabi che capitino loro sottomano. Nella città di Lod, dove convivono cittadini ebrei e arabi, ci sono stati scontri che hanno fatto morti in entrambe le comunità e sono stati dati alle fiamme negozi e automobili. Il 14 maggio il Primo ministro si è recato nella città e ha etichettato come “anarchia” le scene di incendi e violenze, aggiungendo che “niente giustifica il linciaggio di ebrei da parte di arabi o il linciaggio di arabi da parte di ebrei”. Molti commentatori si sono detti preoccupati da questi sviluppi che iniziano ad assumere i contorni di una potenziale guerra civile, ma non sono nient’altro che la conseguenza della spietata politica anti araba perseguita da Netanyahu con coerenza dalla sua ascesa al potere.

Le trattative per il nuovo governo

Tutti gli analisti che lamentano l’instabilità politica italiana possono ampiamente consolarsi con quella israeliana, il cui parlamento è frammentato in una miriade di formazioni,  laiche e religiose che, dopo ogni elezione, contrattano posti ministeriali e programmi. In seguito a vari tentativi falliti di formare un nuovo governo guidato da Netanyahu, il presidente israeliano Reuven Rivlin ha affidato l’incarico a Yair Lapid, capo dell’opposizione, ma anche Lapid ha dovuto gettare la spugna e quindi tutto è tornato nella mani del governo attualmente in carica. Ma l’aria politica sta cambiando. Anche al suo secondo tentativo Netanyahu non è riuscito a trovare una maggioranza che lo sostenesse perché un suo alleato-rivale, Naftali Bennet, capo di un partitino religioso di ultradestra che rappresenta la potentissima voce dei coloni, ha deciso di uscire dall’alleanza e negoziare con il centrista Yair Lapid che tenta di nuovo di formare un governo. Al momento di scrivere questo articolo è stata annunciata la formazione di un governo di unità nazionale che, per la prima volta dal 2009, potrebbe vedere Netanyahu all’opposizione.

L’attuale Primo ministro si è affrettato a bollare l’accordo Lapid-Bennet come “la truffa del

Naftali Bennet, prima consigliere e poi ministro in vari governi di Netanyahu, potrebbe diventare il prossimo Primo ministro di Israele. Ritiene giusto qualunque mezzo per scongiurare la nascita di uno Stato palestinese. “Non c’è spazio nella nostra piccola ma stupenda terra dataci da Dio, per un altro Stato”, ha detto durante il suo primo discorso al parlamento israeliano nel 2013.

secolo” e ha accusato il suo ex alleato di tradire gli elettori della destra. Oltre a Bennet, Lapid, che si autodefinisce un “centrista” e  una “falco della sicurezza”, conta di ottenere il sostegno del partito Meretz, contrario alle politica degli insediamenti nei territori palestinesi, ma anche di personaggi come il più volte ministro Avigdor Lieberman, un acceso sostenitore della destra estrema. Per dare un’idea della mentalità politica di Lieberman ricordiamo che tempo fa propose di decapitare i cittadini arabo-israeliani che si fossero mostrati sleali verso lo Stato ebraico. Ma l’ago della bilancia in questo eventuale governo di coalizione rimane Naftali Bennet, l’astro nascente della politica israeliana con posizioni ancora più radicali di Netanyahu, e che nutre la segreta aspirazione di prenderne il posto.

Bennet che, nel caso di successo dei negoziati dovrebbe ricoprire la carica di Primo ministro per due anni, per poi cederla a Lapid, è un ricchissimo imprenditore del settore tecnologico su posizioni di ultradestra nazionalista. Ferocemente contrario alla teoria dei “due Stati” (“la creazione di uno Stato palestinese sarebbe un suicidio per Israele”), propugna apertamente l’annessione del 39 per cento del territorio della Cisgiordania. Anni fa, all’inizio della sua carriera politica, l’autorevole storico israeliano Zeev Sternhell dichiarò: ”Rispetto alle idee di cui Bennett è portatore, Marine Le Pen appare una pericolosa gauchiste”. Si capisce quindi che l’unico collante della coalizione sarà il desiderio di chiudere la lunga era Netanyahu. Ma non è detto che le cose vadano così, sia per le enormi difficoltà di tenere unite forze così diverse (è previsto anche l’appoggio esterno dei partiti arabi e islamisti), ma anche perché Netanyahu venderà cara la pelle visto che rischia la galera. Un nuovo lancio di missili, magari non dalla Striscia di Gaza, o un attentato terroristico potrebbero riaprire i giochi e consentire la sopravvivenza dell’attuale Primo ministro anche se, come molti concordano, la sua stella appare vicina al tramonto.

(Il prossimo e ultimo articolo sarà dedicato alla nascita e all’operato di Hamas)

di Galliano Maria Speri

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