Ammettiamolo, il suo non è un nome famosissimo, con milioni di follower adoranti e una presenza costante sui social grazie a frasette lapidarie che cavalcano furbescamente (e in modo demagogico) gli argomenti caldi del momento. Francesca Rigotti è una filosofa e saggista, docente di Dottrine politiche e Comunicazione politica presso l’Università della Svizzera italiana a Lugano, dopo aver insegnato nelle università di Göttingen e Zurigo. Ha scritto numerosi libri, tradotti in diciassette lingue, e partecipa attivamente al dibattito culturale e filosofico, con articoli, interviste, lezioni magistrali in importanti eventi culturali come il Festival della filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo.

Il profilo che si trova in rete dice che “la sua ricerca è caratterizzata dalla decifrazione e dall’interpretazione delle procedure metaforiche e simboliche sedimentate nel pensiero filosofico, nel ragionamento politico, nella pratica culturale e nell’esperienza ordinaria”. Ma oltre ad avere curiosità intellettuali che l’hanno portata ad approfondire aspetti diversi della prassi conoscitiva, ha toccato anche argomenti che si distaccano notevolmente da quelli esposti da intellettuali di celluloide che pontificano (a pagamento) dagli schermi televisivi e sulle reti sociali. Francesca Rigotti ha esplorato la filosofia delle piccole cose, ha analizzato le interrelazioni esistenti tra il cibo e il linguaggio filosofico, l’amicizia al femminile, il lento trascorrere del tempo che ci conduce sul sentiero della vecchiaia. Ha inoltre scritto un saggio sulla sua esperienza di espatriata (vive infatti in Germania e insegna in Svizzera) e uno sul buio, molto in controtendenza in questa epoca in cui siamo accecati dalla luci della ribalta pubblica e non riusciamo a ricavarci uno spazio autonomo per la riflessione personale. Ma ha anche toccato argomenti che, oggettivamente, vanno coraggiosamente contro il modello di “pensiero unico” che sta cercando prepotentemente di insinuarsi all’interno della società occidentale.

Donne come esseri procreativi ma anche creativi


Con questo saggio Francesca Rigotti critica la visione manichea secondo la quale le donne che scelgono di procreare smettono di essere creative e diventano, ipso facto, casalinghe ansiose e frustrate.

Rigotti ritiene di essere femminista dall’età di tre anni quando, alla nascita del fratellino minore, si rese conto che tutti gioivano dell’evento mentre quando lei era venuta al mondo, seconda femmina dopo la sorella maggiore, le zie le avevano parlato del rammarico della famiglia. Sposata con Detlev Schild, docente fino a pochi anni fa di Neurofisiologia molecolare presso l’Università di Göttingen, ha quattro figli che ha cresciuto, con l’aiuto prezioso del marito e conciliando brillantemente i suoi impegni universitari con quelli familiari. Nel 2010 Rigotti ha pubblicato Partorire con il corpo e con la mente. Creatività, filosofia, maternità, nel quale ipotizza un parallelismo tra “stili di vita e stili di pensiero”, proponendo un “sapere materno, nel quale le caratteristiche di attenzione e amore, vincolo, legame e vicinanza possano diventare simboli di esperienza e conoscenza”. Rigotti rivendica esplicitamente il ruolo creativo delle donne, facendo un parallelo tra la loro capacità generativa e la facoltà di dar vita a nuove idee che prima non esistevano.

L’autrice confuta lo stereotipo stantio che attribuisce la creatività agli uomini, mentre l’unica creatività che viene storicamente riconosciuta alle donne è quella procreativa, quando invece la loro capacità di “attenzione” e di “cura”, sviluppate durante la gestazione, le mette nella condizione ottimale per generare nuove idee. Rigotti sottolinea che la capacità di sviluppare un “pensiero materno” non deriva necessariamente dall’aver fatto un’esperienza diretta di maternità e mette in luce che le donne sono in grado di generare non solo “figli di carne”, ma anche “figli di carta”. Il saggio delinea una maternità non esclusiva, una maternità che non solo includa in sé la possibilità di produrre anche i “figli di carta”, ma che sia il punto di partenza di un particolare tipo di creatività che ha bisogno di “attenzione e attesa”, le stesse necessarie a fare e allevare i figli. Ponendo sempre attenzione a non cadere nell’errore di divinizzare, mitizzare e rendere l’esperienza della maternità essenziale a questa creatività.

Questo concetto della filosofa italiana è molto coraggioso, non solo perché va ovviamente a collidere con il maschilismo storico, ma perché è una critica implicita a certo femminismo radicale contemporaneo che vede l’affermazione sociale delle donne come antitetico alla maternità, considerata come un’accettazione supina dell’inferiorità intellettuale femminile. La storia ci dimostra che le donne non devono obbligatoriamente fare una scelta drastica tra l’utero e il cervello e che riescono egregiamente a conciliare i due aspetti, come ha fatto la filosofa Elizabeth Anscombe, madre di sette figli, che “mette in pratica un agire condotto pensando ai nostri figli al fatto di sentirsi responsabili di fronte ad essi, di voler e dover dare un esempio di moralità e di rispetto dei valori, domestici come politici, in famiglia e nella società”. Lo stesso può dirsi di Clara Wieck, una delle più grandi pianiste del romanticismo europeo e notevole compositrice, al pari di suo marito Robert Schumann, con il quale educò otto figli.

Clara Wieck (1819-1896) è la dimostrazione più lampante di come sia possibile conciliare un’intensa vita familiare con una brillante carriera musicale. Qui vediamo l’artista in una foto del 1853.

L’emancipazione femminile è un percorso complesso che ha fatto grandi passi avanti nelle società avanzate, mentre in quelle arretrate sono ancora presenti contraddizioni inaccettabili e situazioni estreme, come esemplificato dal tristemente noto caso dell’Afghanistan dominato dai talebani. Ma è chiaro che nessun Paese, anche nell’Occidente evoluto, può affermare di essere riuscito a realizzare la piena uguaglianza tra uomini e donne. Ci sono ancora gravi disparità di trattamento nel mondo del lavoro, nelle università, nella società in generale. Il problema è che, a partire dagli Stati Uniti, si è sviluppato un movimento fanaticamente intransigente che nega l’esistenza del sesso biologico e sostiene che la sessualità sia semplicemente una questione di scelta e di identità acquisite. Secondo questa concezione qualunque uomo può affermare di sentirsi donna nel profondo e pretendere di essere trattata come tale. La parte più avveduta del movimento femminista ha immediatamente capito le pericolose implicazioni di una tale affermazione, che rischia di marginalizzare ulteriormente il mondo femminile e affossare decenni di lotte e riconoscimenti.

Nell’ottobre del 2021 si è arenato al senato il controverso Decreto Zan, dal nome del primo firmatario che, oltre a stabilire ulteriori garanzie per evitare discriminazioni a causa del proprio orientamento sessuale, intendeva introdurre nella legislazione italiana il discusso concetto di gender (genere in inglese) e questo ha sollevato le preoccupazioni di un movimento femminista come Se non ora quando. Nella loro lettera ai firmatari della legge, il gruppo ha scritto: “Gentili onorevoli, ci rivolgiamo a voi firmatarie/i del ddl Zan perché riteniamo necessario informarvi sui motivi della nostra forte preoccupazione per una proposta legislativa contro l’omotransfobia che estende i crimini d’odio anche alla cosiddetta ‘identità di genere’. Con questa espressione si sostituisce l’identità basata sul sesso con un’identità basata sul genere dichiarato. Attraverso ‘l’identità di genere’ la realtà dei corpi – in particolare quella dei corpi femminili – viene dissolta”. Quali possono essere i rischi per le donne è esemplificato dal caso di Laurel Hubbard, una transgender neozelandese che ha vinto il campionato mondiale di sollevamento pesi e si è classificata per le olimpiadi di Tokyo, prima di annunciare il suo ritiro dall’attività agonistica.

Le donne che hanno osato affermare che il dato biologico esiste e che i cromosomi XX e XY sono una cosa reale hanno ricevuto attacchi feroci, come è accaduto alla famosa scrittrice J. K. Rawling, etichettata come “strega nazista” dai sostenitori delle teorie gender e minacciata ripetutamente di morte. La virulenza dell’odio è arrivata a livelli tali che un gruppo di 58 intellettuali, tra cui Ian Mc Ewan e Tom Stoppard, hanno firmato una lettera di solidarietà alla creatrice di Harry Potter pubblicata sul quotidiano britannico Sunday Times. A Suzanne Moore, redattrice di lungo corso del Guardian e vincitrice del Premio Orwell per il giornalismo nel 2019, è andata peggio. Dopo mesi di mobbing ideologico e, addirittura, una lettera firmata da 338 colleghi in cui veniva accusata di “transfobia”, la Moore ha rassegnato le proprie dimissioni. Stessa sorte è toccata a Gareth Roberts, uno degli autori della nota serie televisiva “Doctor Who”, che è stato cacciato per aver usato un “linguaggio offensivo sulla comunità transgender”. Ovviamente, non si tratta di accuse esaminate e vagliate con cura, ma di una posizione ideologica preconcetta che intende epurare tutti coloro che non accettano i diktat di questa nuova inquisizione trionfante. Anche la scrittrice canadese Margaret Atwood, notissima autrice del Racconto dell’ancella, è stata subissata di improperi quando ha osato sostenere che se un uomo viene accusato di violenza sessuale deve essere un regolare processo ad appurare i fatti e l’eventuale colpevolezza, non certamente una piazza rancorosa.

Liberare le donne dalla maternità?

L’ala più radicale ed estremista del movimento femminista si batte da tempo per “liberare” le donne dall’oppressione del parto e consentire loro una vita non soggetta a vincoli biologici e impegni familiari. Quest’idea è stata raccolta dal Potere (ovviamente maschile, dai tempi dei tempi) che ha intravisto la possibilità di emarginare definitivamente le donne, tollerate in passato soltanto perché depositarie della funzione riproduttiva. La tecnologia moderna sarà presto in grado di realizzare un utero artificiale che renderà superflua la funzione delle donne nella continuazione della specie umana, e consentirà loro, finalmente liberate dai dolori del parto, di passare dalla funzione “procreatrice” a quella meramente “ricreatrice”. Francesca Rigotti ha capito perfettamente la questione quando, in un editoriale apparso il 27 settembre 2019 su Sette, l’inserto settimanale del Corriere della Sera, scrive esplicitamente che “liberare” la donna dal terribile potere di riprodurre la specie non fa altro che realizzare il sogno segreto del maschio capace di autofecondarsi e di marginalizzare definitivamente la donna.

Secondo la filosofa, gli uomini hanno sempre nutrito un’invidia mai esplicitata di fronte alla misteriosa capacità riproduttiva della donna che, al contrario del maschio, oltre alla funzione procreativa può, quando ne esistano le condizioni sociali adeguate, svolgere egregiamente anche la funzione mentalmente creativa. “Altri elementi –scrive Rigotti- che ci fanno sospettare dell’invidia del parto sono i miti, per esempio quelli nei quali il padre degli dei, Zeus, si dà da fare tutto da solo, partorendo Atena dalla testa o Dioniso dalla coscia, con l’aiuto di due levatrici d’eccezione: nel primo caso Efesto con la scure bipenne, Hermes nel secondo, con un coltellino”. Secondo Rigotti, nel corso dei secoli filosofi, biologi e teologi hanno cercato in tutti i modi di negare il peso dell’elemento femminile: Aristotele, ad esempio, sosteneva che l’utero fosse soltanto un ricettacolo, un mero contenitore che non dava alcun contributo, alcun carattere ereditario, una specie di fornetto per cuocere il pane.

Nella battaglia secolare per la propria emancipazione, le donne hanno esplorato tanti modi

Donna Haraway (Denver, 1944) caposcuola del pensiero femminista dei gender studies, ha elaborato nel 1985 la peculiare “teoria del cyborg” grazie alla quale le donne, diventate creature meccanico-biologiche, potranno finalmente liberarsi dalla tirannia maschile. Nella foto l’edizione italiana del libro.

e possibilità per raggiungere il proprio obiettivo anche se, dalla fine del secolo scorso, alcuni gruppi hanno operato delle scelte che più che liberare le donne sembrano puntare ad aumentare il tradizionale potere degli uomini. Per superare il dualismo maschio/femmina la studiosa americana Donna Haraway, caposcuola del pensiero femminista dei gender studies, elaborò nel 1985 la “teoria del cyborg”, una forma ibrida di organico e tecnologico resa molto famosa da innumerevoli film. Introducendo la figura del cyborg nel dibattito femminista, Haraway mette in discussione sia la distinzione tra uomo e donna, sia quella fra essere umano e macchina, profilando un superamento della stessa condizione umana. Haraway ipotizza che diventando cyborg ci si sottrarrebbe al perpetuarsi, attraverso la maternità, delle strutture socio-economiche attuali e questo dovrebbe sostenere il processo di liberazione femminile. “E se invece -conclude Rigotti- il diventare cyborg andasse in un’altra direzione, permettendo ai maschi di liberarsi infine della dipendenza femminile in questioni di riproduzione e diventare, come Zeus, tutti dei? Così noi donne non saremo più dee, come si augurava Haraway; saranno i maschi ad essere felicemente dei, e a noi toccherà adorarli, private come saremo anche della maternità. Speriamo che un tale destino non ci tocchi davvero”.

Galliano Maria Speri

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