di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Tutti, dagli analisti più blasonati fino al più sprovveduto sondaggista, hanno dovuto riconoscere che Donald Trump ha vinto perché ha affrontato di petto i problemi economici e occupazionali che affliggono la stragrande maggioranza degli americani. Di coloro che lavorano per vivere, di quei cittadini che negli Stati Uniti chiamano la “middle class”. Anche in Italia nessun media aveva capito che questa America non era preoccupata primariamente per l’immigrazione, la politica estera, le guerre o il terrorismo bensì per il proprio livello di vita.

In tutti i suoi discorsi Trump ha ripetuto che “oggi, 92 milioni di americani sono ai margini, fuori dalla forza lavoro, non sono parte della nostra economia. È la nazione silenziosa  degli americani disoccupati.”. Se molti votanti vi hanno creduto, allora vuol dire che le statistiche ufficiali, che osannavano la grande ripresa con milioni di nuovi posti di lavoro, non riflettevano la verità, la situazione reale.

È quindi proprio sul fronte dell’economia che la polemica di Trump contro l’establishment ha fatto presa e ha coagulato il voto di protesta. Adesso si dovrà vedere quanto delle tante promesse fatte in campagna elettorale egli sarà capace di mantenere.

Nel suo discorso della vittoria ha ribadito l’intenzione di voler “investire almeno 1.000 miliardi di dollari nelle infrastrutture”. Prevede investimenti addirittura per 50.000 miliardi di dollari nei settori dell’energia. I tassi di interesse non saranno in futuro così bassi come quelli odierni, ha detto, per cui oggi è il momento migliore anche per fare nuovi debiti per costruire nuovi aeroporti, ponti, autostrade, treni veloci, ecc. E ha aggiunto che intende usare la leva del credito, che ama molto, per moltiplicare le disponibilità finanziarie necessarie.

Al riguardo è però opportuno ricordare che ad agosto alcuni banchieri  d’assalto avevano già avanzato la proposta di creare proprio una banca per le infrastrutture per mille miliardi di dollari. Come sempre occorrerà vedere chi sarà alla testa di una simile operazione e sulla base di quali principi economici verrebbe realizzata.

Questa politica di investimenti dovrebbe essere parte di una serie di iniziative miranti a creare 25 milioni di nuovi posti di lavoro in 10 anni, mantenendo un tasso di crescita annuo del 3,5%. Per sostenere un tale progetto, Trump ha aggiunto di volere ridurre al 15%  la pressione fiscale delle imprese, che attualmente negli Usa è del 35%.

Per passare dai numeri ai fatti la strada si farà difficile e complicata, soprattutto se dovesse pensare che si possano ottenere simili risultati lasciando che i mercati operino da soli, senza alcuna guida o correzione. In questo, il nuovo presidente crede, forse per troppa convinzione ideologica liberista, che una diminuzione delle tasse porti automaticamente a più posti di lavoro. Nei passati anni molti desiderati automatismi economici e monetari si sono rivelati delle pure illusioni sia negli Usa che in Europa.

Trump riconosce che il deficit commerciale annuale americano di 800 miliardi di dollari nei confronti del resto del mondo non è più sostenibile. Vuole rinegoziare gli accordi commerciali con il Messico e il Canada e cancellare quello con i Paesi del Pacifico. Per il neo presidente la Cina è il principale ‘nemico’ economico che manipola, con le svalutazioni, la propria moneta, per cui essa dovrà essere fatta oggetto di sanzioni e dazi. Per Trump si tratta di politiche che penalizzano l’occupazione negli Usa. Al di là di certi slogan protezionistici, sarà certamente una prova molto complessa quella di bilanciare la ripresa occupazionale interna con la stabilità delle relazioni commerciali internazionali.

È importante che in campagna elettorale, copiando un intervento del democratico Bernie Sanders, Trump abbia posto al centro del dibattito l’idea di reintrodurre la Glass-Steagall Act per la separazione bancaria. Si tratta della legge voluta nel 1933 da Roosevelt per mettere un freno alla speculazione finanziaria fatta dalle banche con i soldi dei risparmiatori. Purtroppo fu proprio Bill Clinton nel 1998 a cancellarla, aprendo così la strada allo tsunami speculativo fatto di derivati finanziari e di altri titoli tossici che hanno portato alla grande crisi bancaria del 2008 e alla susseguente depressione economica mondiale.

Al riguardo Trump, sempre imitando Sanders, ha denunciato la cosiddetta riforma Dodd-Frank del sistema finanziario americano come “un disastro che penalizza i piccoli imprenditori e i loro tentativi di accedere al credito”. Secondo lui un principio di giustizia più equa vuole che anche Wall Street sia sottoposta a regole stringenti.

Nel campo economico e finanziario di carne al fuoco ne ha messo tantissima. Occorrerà aspettare per vedere. Ma nemmeno troppo a lungo. Si potranno già capire le reali politiche dell’amministrazione Trump quando nominerà i ministri chiave. Se, per esempio, al Tesoro dovesse andare un banchiere, sia esso della Goldman Sachs o della JP Morgan di cui tanto si parla, allora sarà chiaro che alle tante parole e alle tante promesse, difficilmente  seguiranno fatti nuovi.

Comunque è troppo presto per avere certezze. Le incognite non sono poche. Abbiamo il dovere di verificare prima di dare giudizi definitivi. Per il momento vi sono le parole. A noi corre l’obbligo di ricordare che tra il dire e il fare molto spesso c’è di mezzo il mare.

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