di Galliano Maria Speri

Il nuovo libro di Paolo Rumiz Il filo infinito – Viaggio tra i monasteri alle radici dell’Europa, racconta il suo percorso tra i monasteri benedettini che costellano l’Europa, da Est a Ovest, e ha il coraggio di fornire una risposta chiara agli interrogativi angosciosi che i cittadini di questo continente si pongono. Se l’Europa non vuole trasformarsi nel vaso di coccio nell’emergente scontro tra un’America concentrata soltanto su se stessa e il dilagante Celeste impero cinese, deve ritrovare le sue radici profonde che, come ci insegna la storia, sono saldamente piantate nella tradizione monastica iniziata da Benedetto da Norcia alla metà del VI secolo.

 Anche il più inguaribile degli ottimisti deve ammettere che il lungo ciclo di pace in Europa, iniziato dopo la Seconda guerra mondiale e la sconfitta del nazismo, mostra crepe profonde, e lascia presagire un futuro gravido di pericoli e tensioni crescenti. I britannici, che ebbero un ruolo di primo piano nella vittoria su Hitler, intendono voltare le spalle al continente e vogliono riorientare la loro politica in un’altra direzione, mentre si rafforzano movimenti populistici che considerano l’Europa un nemico e non la soluzione dei problemi. È una tragica ironia della storia che il grimaldello con cui si vuol far saltare l’Unione Europea è una immaginaria “invasione” di nemici esterni, neri, brutti e cattivi, che vogliono impossessarsi delle nostre città e imporci il loro modo di vita. Eppure, quando nel caos e nell’anarchia crollò l’impero romano, le invasioni ci furono davvero, e sul nostro continente dilagarono orde violente e spietate di Unni, Vandali, Visigoti, Longobardi, Slavi e Ungari, non gruppetti di disperati in fuga da guerre e carestie. Ma quei barbari vennero fermati e cristianizzati dai discepoli di  San Benedetto, un pugno di uomini animati da una fede profonda che avevano creato una formidabile rete continentale di monasteri, il nucleo intorno al quale si riorganizzò la società del tempo applicando il motto benedettino Ora et labora.

La rete dei monasteri che creò l’Europa

Le popolazioni barbariche vennero cristianizzate con la sola forza dell’esempio e in questo modo venne salvata una cultura millenaria. L’Europa si rivelò come uno spazio di migrazioni, in grado di accogliere, civilizzare e integrare i nuovi arrivati, senza costruire barriere e reticolati come pretenderebbero oggi i populisti. Rumiz compie un viaggio interiore, oltre che geografico, e si chiede quanto rimanga oggi di autenticamente cristiano in un’Europa travolta dal materialismo e se sarà possibile risollevarsi senza bisogno di altre guerre e catastrofi. L’itinerario parte da Norcia, nell’aprile del 2017, immediatamente dopo il terremoto che ha devastato il centro Italia e proprio qui, nella città che diede i natali a San Benedetto, patrono dell’Europa, l’autore si chiede se il nostro Paese sia conscio del contributo della civiltà appenninica alla rinascita di un intero continente.

Grazie al fitto reticolo dei monasteri benedettini, l’Europa iniziò un processo di rinascita intorno a strutture che non erano un microcosmo auto-sussistente ma un centro che irradiava cultura e operosità, svolgendo un fondamentale ruolo religioso, culturale ma anche economico. San Benedetto non aveva troppe simpatie per il misticismo e per gli anacoreti, tutti presi dall’afflato mistico verso la divinità, ma era un uomo ben piantato nel suo tempo e capace di creare una Regola che si rivela attuale ancora oggi. Non dobbiamo infatti dimenticare che l’Ora et labora che riassume la regola benedettina va completato da “lege et noli contristari”, leggi e non farti prendere dallo scoramento. I monaci quindi non erano semplicemente intenti a zappare l’orto quando non erano impegnati nelle preghiere comuni, ma erano attivissimi nel trascrivere, tradurre e studiare nel loro scriptorium, cuore pulsante del monastero.

Chi ci ha dato la birra, i formaggi e lo champagne

Secondo alcuni storici della religione, il capitalismo nacque nei monasteri che, oltre a essere un fattore di sviluppo economico grazie alla competenza nei lavori agricoli e nel controllo delle acque, fungevano da veri e propri centri finanziari che erogavano prestiti alle attività produttive, molti secoli prima della Riforma protestante che, secondo il sociologo Max Weber, diede origine allo spirito imprenditoriale capitalistico. Ancora oggi, i monaci benedettini si alzano all’alba per rendere lode all’Altissimo, ma sono anche profondamente calati nella realtà delle cose quotidiane. Ospite del monastero di Praglia, vicino a Padova, Rumiz si reca di buon’ora nel refettorio per la colazione e inizia con i monaci presenti una conversazione che non rifugge dal toccare argomenti inusuali, come il ruolo che il cibo ha svolto nella conversione dei pagani. “Perché Dio si sarebbe fatto carne se la materia fosse detestabile?”, afferma un monaco mentre si imburra un crostino. In effetti non è per niente strano che un ordine monastico, così profondamente legato alla coltivazione e al miglioramento della terra, si sia occupato storicamente dei prodotti dell’agricoltura.

Il monaco benedettino Pierre Perignon (1639-1714) mise a punto verso il 1679 un metodo per la produzione dello champagne all’interno dell’abbazia di Hautvillers, nella regione del Grand Est, qui raffigurata nel suo periodo di massimo splendore, prima delle distruzioni della Rivoluzione francese.

Visitando le cantine del monastero di Muri Gries, in Sud Tirolo, l’autore riflette sul fatto che “le botti di vino ci dicono che l’evangelizzazione dell’Europa è andata avanti di pari passo con l’impianto delle vigne, dal Mediterraneo alla Mosella e oltre. Dom Perignon prima di essere uno champagne era un vignaiolo benedettino”. Rumiz smentisce anche il luogo comune della birra come prodotto del brumoso Nord, “La storia–scrive- è tutta diversa. La ricetta sbarca in Europa attraverso la Calabria grazie ai monaci copti d’Egitto, risale la Penisola dall’abbazia di San Francesco di Paola che ne aveva codificato la ricetta, segue la dorsale appenninica, inonda la Padania lasciando tracce di schiuma sui baffoni dei Longobardi, per poi valicare le Alpi e dissetare le masse carolingie a est e a ovest del Reno”. Il generale De Gaulle si chiedeva come si potesse governare un Paese che produceva duecentoquarantasei tipi di formaggi diversi, provando, sotto sotto, un grande orgoglio per tale ricchezza. Ma a dire il vero, come il vino, la birra, l’idromele o le acquaviti alle erbe aromatiche, anche le tecniche casearie furono messe a punto dai monaci di matrice appenninica. Infatti Rumiz scrive: “Seguendo le tracce  dei grandi monasteri, uniche realtà capaci di produrre il latte in eccedenza necessario all’operazione, mi è stato facile ricostruire la diffusione della tecnica casearia dall’Italia centrale fino ai Paesi del Reno, le Fiandre e le Isole Britanniche. Senza i benedettini non esisterebbero certi raffinati prodotti trappisti come il Münster e lo Chaligny”.

Le radici dell’Europa

Tra gli anni Novanta e l’inizio di questo secolo, c’è stato un dibattito intensissimo sulla redazione di una Costituzione europea che riuscisse a contemperare le varie storie, tradizioni e sensibilità. Vennero utilizzate argomentazioni surreali per sminuire l’ovvio fatto storico che, comunque la si pensi, il cristianesimo è stato la forza propulsiva che ha elaborato e realizzato quello che noi chiamiamo Europa. Venne stilata una Costituzione ambigua su questo punto, firmata in pompa magna a Roma il 29 ottobre 2004 da venticinque capi di Stato e di governo, che rimase però lettera morta per le bocciature di un referendum in Francia e in Olanda. Da lì è iniziata una lunga crisi che è in pieno svolgimento. Rumiz ci ricorda che per distruggere l’Europa oggi non è più necessaria una guerra o un’invasione ma “basta che eserciti di termiti iniettino veleni nel sistema e che i poteri forti spostino capitali…vorrei urlare che l’Europa sta cadendo in una trappola costruita da altri. Da una coalizione che va da Zuckerberg al Cremlino e include i nemici di papa Francesco. Il totalitarismo dei monopoli e dello sfruttamento totale contro l’ultimo bastione di democrazia. Contro l’Europa delle regole, della pietà e dell’accoglienza, che resiste all’annichilimento dell’uomo”.

Pochi sanno che il primo parlamento sovranazionale europeo lo hanno voluto i benedettini già nel 1115, un secolo prima della Magna Cartaconcessa da Giovanni Senza terra ai baroni inglesi. L’autore non ha dubbi sui principi fondanti del nostro continente quando afferma: “Ci saranno anche la Grecia, Roma, la cultura araba e slava, il mondo celtico e germanico dietro al nostro mondo, ma alla radice hai soprattutto uomini che furono cristiani. L’amalgama di tutte queste diversità è cristiano”. Norberto, priore del monastero di Praglia, argomenta che se Carlo Magno ha affidato l’Europa ai benedettini, non lo ha fatto soltanto per la vasta rete di monasteri ma anche per l’efficacia della loro regola. San Benedetto era infatti un homo faber, un costruttore prima di tutto, un uomo che aveva posto come base del suo operare l’ascolto dell’Altro che deve essere segnato da tre comandamenti: honor, humilitas, humanitas. Sono questi i concetti che un continente, non più sorretto da una rete di monasteri ma succube di una rete informatica grondante odio e irrazionalità, deve riscoprire.

Paolo Rumiz

Il filo infinito – Viaggio tra i monasteri alle radici dell’Europa

Feltrinelli, 175 pagine, 15 Euro

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