Leonardo Servadio

Per risolvere il problema del benessere del popolo in Cina «si dovrà sviluppare il capitale e l’industria. Dobbiamo innanzi tutto sviluppare su vasta scala i mezzi di comunicazione, come le ferrovie e i canali navigabili. Secondo, dobbiamo sviluppare la produzione mineraria; la ricchezza del sottosuolo cinese è enorme… Terzo dobbiamo sviluppare l’industria manifatturiera»: non sono parole di Deng Xiaoping, l’architetto dell’apertura all’economia di mercato che, dopo l’epoca maoista con le sue convulsioni, dalla fine degli anni ’70 del XX secolo ha indirizzato il suo Paese sulla strada della crescita infrastrutturale e tecnologica. Né sono di Xi Jinping, l’attuale presidente cinese sotto il cui governo la Cina minaccia di superare il primato statunitense in campo economico. Furono pronunciate da Sun Yat-sen nell’agosto del 1924: era il tempo dei Signori della Guerra che si contendevano il controllo di lembi di un territorio nazionale vasto ma diviso, povero, in parte occupato da potenze straniere, dopo che lo stesso Sun era bensì riuscito a rovesciare il secolare impero Qing, ma non a consolidare, come avrebbe voluto, un assetto istituzionale repubblicano.

Eletto primo presidente della Repubblica cinese nel dicembre del 1911, Sun dovette dimettersi dopo breve tempo. Avrebbe potuto dedicarsi a condurre nuove guerre contro gli occupanti stranieri o contro i tanti potentati locali che battagliavano tra loro, ma preferì impegnarsi ad organizzare una cultura e un’élite capace di governare il Paese non nel modo statico seguito dalla classe dei mandarini nei millenni precedenti, ma secondo criteri adatti al mondo contemporaneo. Suo modello di riferimento erano gli Stati Uniti, come mostra nei tanti discorsi che ha tenuto negli ultimi anni della sua vita. In essi è contenuto il progetto per una nuova Cina che, senza rinnegare la sua tradizione, potesse presentarsi agli occhi del mondo come una potenza, forte e prospera ma non aggressiva.

Rileggere oggi quei discorsi, sullo sfondo del gigantesco “balzo in avanti” compiuto nei recenti decenni (e questa volta vero, non assurdo come quello proclamato da Mao nel 1958) contribuisce a spiegare come sia possibile che un sistema di governo che si dice comunista regga con successo le sorti di un Paese che sta diventando il nuovo perno dell’economia mondiale: nella struttura genetica della Cina contemporanea Sun, cinese per nascita e convinzione, cristiano per formazione, aveva inserito i germogli del pensiero imprenditoriale.

E il suo ricordo è rispettato in Cina: è considerato il padre della patria e, per quanto simpatizzasse per il sistema economico e di governo americano, ha continuato a essere apprezzato e rispettato anche in epoca maoista, cioè da quando, dal 1949 in poi, i nazionalisti di Chiang Kai-shek (che erano anche i più diretti diretti continuatori dell’opera di Sun) furono sconfitti da Mao Zedong e furono costretti a rifugiarsi a Formosa oggi Taiwan.

Ne seguì, com’è noto, il lungo periodo maoista in cui si alternarono politiche assurde come quella del già ricordato “grande balzo in avanti”, in cui tutta la popolazione dovette impegnarsi a produrre acciaio, come se questo di per sé bastasse a trasformare in industriale l’economia rurale del Paese; o quella della Rivoluzione culturale (1966-76) che non solo ebbe l’effetto di distruggere sistematicamente tutto quanto odorasse di cultura, ma offrì una cornice di legittimità alle guerre per bande di giovani scatenati alla caccia del nemico di turno, provocando un bagno di sangue che non conosce eguali nella storia.

Tra le vittime della Rivoluzione culturale ci furono anche Deng Xiaoping (fu epurato) e la sua famiglia. Eppure Mao non è mai stato rinnegato. Non da Deng, il regista del cambio strutturale che impostò la nuova era dell’economia cinese dopo la morte di Mao. Non da Xi Jinping che oggi proclama le virtù del libero mercato negli incontri internazionali mentre continua a celebrare in Mao il fondatore della Cina comunista.

Nell’Unione Sovietica il passaggio dall’epoca stalinista a quella post-stalinista ebbe luogo a partire dal 1953 con l’inizio dello smantellamento dei campi di concentramento, che resteranno come il simbolo della dittatura sovietica (i gulag), e culminò con la denuncia compiuta da Nikita Kruscev nel 1956 dei crimini compiuti dal dittatore georgiano: degli eccidi da lui orditi, della sua strategia del terrore e del culto della personalità (Rapporto segreto al XX Congresso del PCUS, febbraio 1956). In Cina i successori di Mao avrebbero potuto fare lo stesso, ma hanno scelto un cammino totalmente diverso. La Cina post maoista è cambiata più radicalmente di quanto sia cambiata l’URSS post stalinista, ma ha sempre manifestato continuità col maoismo, per quanto, se possibile, questo sia stato più sanguinario dello stesso stalinismo. Tale affermazione di continuità è ribadita dai festeggiamenti che si celebrano nel 2019, settantesimo anniversario della vittoria maoista del 1949.

I due regimi comunisti, sovietico e maoista, non sono stati molto differenti tra loro nella repressione della cultura, della libertà, delle singole persone. Ma le differenti tradizioni nazionali si sono imposte, ben più forti e radicate.

Quando la Cina post maoista decise di diffondere la propria lingua e cultura nel mondo, costituì gli “Istituti Confucio”: era il 2004, neppure tanto tempo fa. Uno dei principi fondamentali del pensiero di Confucio è quello della pietà filiale, intesa non nel senso della latina pietas (che è sollecitudine e misericordia), ma nel senso dell’obbedienza agli anziani, ai predecessori, entro una visione strettamente gerarchica della società. È una visione che Mao cercò di scalzare con la sua Rivoluzione culturale, ma è quella che ancora domina la società cinese e ne costituisce la struttura culturale.

Per questo con l’occasione del settantesimo anniversario della vittoria comunista, la Cina nel 2019 forse non celebra tanto la politica maoista, ormai tramontata, ma la continuità della propria antica cultura.

Già nel 1918 Sun Yat-sen scriveva: «Sarà necessario creare un capitalismo di Stato… Noi vogliamo che il popolo viva felice e non soffra a causa della distribuzione ineguale delle ricchezze… Quando tutto sarà in comune nello Stato, avremo realizzato l’obiettivo del Principio del benessere del popolo, la grande comunità” di cui parla Confucio» (Sun yat-sen “I tre principi del popolo”, Torino 1976, pag. 297, discorso del 10 agosto 1924). E la Cina odierna di Xi Jinping non fa che seguire questa tendenza inscritta nel suo carattere.

La questione è se saprà portare a compimento quanto tratteggiato da Sun con l’obiettivo di unire quanto di meglio ravvisava nel mondo occidentale, con la tradizione cinese. Diceva Sun (discorso del 2 marzo 1924, pag. 95 cit.): «La gentilezza e l’amore sono due virtù caratteristiche della Cina. Nell’antichità nessuno ha mai parlato di amore più di Mei Tse [filosofo del V secolo a.C.]. L’amore senza discriminazione, di cui egli parlava, si identifica con la fraternità predicata da Gesù Cristo». E ancora: «Qual è la base della vera libertà e della vera uguaglianza? La democrazia… senza la democrazia sarebbe impossibile salvaguardare qualsiasi forma di libertà e di uguaglianza» (pag 167, discorso del 1º aprile 1924). Per cui «Dobbiamo creare la democrazia e darla al popolo, non dobbiamo attendere che il popolo si batta per ottenerla (pag 207, 10 aprile 1924)».

Forse il giorno in cui la Cina la smetterà di celebrare Mao e invece celebrerà Sun Yat-sen, le cose lì potranno veramente cambiare.

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